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La pecora mannàra

La pecora mannàra

Quando nel 1947 Albert Camus pubblicò il romanzo La Peste non poteva certo prevedere che la sua narrazione potesse essere così aderente alla realtà attuale e non è un caso infatti che, settantatre anni dopo, stia incontrando un nuovo successo. Insieme al ciclo della rivolta, è una riflessione allegorica sul male e sul trauma della guerra che allora ancora pesavano sulle coscienze europee poiché, secondo Camus, non era stata del tutto debellata rimanendo latente in attesa dell’ambiente propizio a una nuova esplosione.

Il romanzo fu ambientato nella città di Orano, in Algeria, dove la morte di migliaia di ratti aveva reso chiaro al protagonista Rieux che gli abitanti stavano correndo un serio pericolo. Cominciarono così ad ammalarsi anche gli umani e la città fu bloccata e messa in quarantena.

Oltre al collegamento ovvio tra il dilagare della peste a Orano e la diffusione del Covid-19 in alcuni piccoli focolai, tipo a Vo’ Euganeo o Codogno, in Italia sono state istituite oggi le zone rosse. Vale a dire che, per ordinanza dello stato centrale e dei governi locali, agli abitanti di alcuni paesi, città, edifici è stata vietata qualsiasi tipo di libertà personale implicando a pieno titolo l’impiego dell’esercito per il controllo sociale.

Esempi di particolare militarizzazione di alcune porzioni di territorio ce ne erano stati anche nell’ultimo terremoto dell’agosto 2016 nell’area dei monti della Laga, una regione compresa tra le regioni di Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo dove intere frazioni erano rimaste isolate per lungo tempo in nome dell’emergenza. Di regola, in caso di catastrofe naturale, dovrebbero essere la mancanza di casa, lavoro, scuole, presidi sanitari gli interventi da implementare per la salvaguardia della salute di tutte e tutti ma la logica evidentemente di questo sistema non è mai girata in direzione favorevole alla popolazione.

Anche il caso dell’attuale virus è stato usato come pretesto, ancora una volta, per istituire lo stato di emergenza ed eccezione per limitare ancor di più in maniera assoluta gli spazi di libertà e per investire denaro nella propaganda nazionalista e nella diffusione microcapillare dell’esercito sul territorio riservando alla salute pubblica interventi improvvisati e posticci per tentare di coprire con delle piccole toppe il grande buco di strutture e personale in cui il sistema sanitario nel nostro paese è venuto a trovarsi.

La stessa città di Orano, immaginata da Camus nel romanzo, era stata bloccata ma al suo interno la vita era continuata a scorrere con le sue quotidianità e le sue contraddizioni come, ad esempio, il lucro da parte di alcuni sulla mancanza di viveri oppure la convinzione che la peste fosse una punizione divina.

Ci sono altre analogie ancora più dettagliate, dunque, tra il romanzo La Peste e la realtà attuale che possono risultare interessanti, tra cui il negazionismo iniziale delle autorità, le misure usate del distanziamento sociale, l’isolamento per il rallentamento dell’epidemia e l’arricchimento di chi ha approfittato del crollo della Borsa per trarne profitto. La crisi attuale, infatti, era stata descritta dagli esperti nel 2019 con il configurarsi di una bolla finanziaria, una tempesta perfetta che aveva preannunciato la frana sociale ed economica che ci avrebbe travolto a breve.

Dovrebbe essere un dato acquisito che ogniqualvolta venga a determinarsi una crisi (l’ultima recessione è stata nel 2008) il capitalismo si vada ridefinendo non capovolgendo affatto i conti degli investitori che hanno fatto della finanza la loro fonte di ricchezza e che, approfittando anche della situazione sanitaria attuale, hanno già guadagnato miliardi. Il fondo USA Bridgewater ne è stato un esempio poiché nel mese di novembre 2019 aveva scommesso 1,5 miliardi di dollari sul crollo delle borse europee. “Le vostre speculazioni, i nostri morti” – verrebbe da pensare, visto che in tutte le guerre, anche in quelle considerate non convenzionali, è sempre stata la popolazione civile a rimetterci.

Rieux, il protagonista del romanzo, aiutato da altri cominciò a darsi da fare occupandosi dello smaltimento dei cadaveri ed altro per combattere l’epidemia. Dalla primavera si passò all’estate e con il caldo anche la peste si trasformò, passando dalla forma bubbonica alla più contagiosa peste polmonare.

Il linguaggio mediatico attuale ha rimescolato in maniera del tutto pompata e mistificatoria il significato e il ruolo degli “eroi in prima linea” attribuendolo ai lavoratori e alle lavoratrici definendo i luoghi di lavoro “trincee”, la popolazione “gregge”. Questo ha riportato alla memoria come il linguaggio sia il veicolo attraverso il quale si possa manipolare a proprio favore la realtà: già De Saussure ha perso un po’ del suo tempo prezioso restituendo i suoi studi sul significato e significante, sul linguaggio scritto e parlato purificandoli dalla tradizione metafisica. Derrida poi, soffermandosi sull’autenticità dell’illusione fonocentrica, ha approfondito la questione e ha proposto, in alternativa al logocentrismo, la disarticolazione o decostruzione del testo, per liberare il segno da un’aporia concettuale e trascendentale poiché il significato non è intrinseco ma è dato dalla relazione differenziale che intrattiene con gli altri, rimandando a un’infinita catena di altri segni e altri termini in un processo potenzialmente infinito.

Vale a dire: come quando sfogliando un dizionario e si voglia conoscere il significato di un termine non si può fare a meno di trovarne degli altri, e che per farne una verifica completa si dovrebbe teoricamente riportare a un numero enorme di altre definizioni. Insomma, nonostante il tentativo di esaltazione propagandistica da parte delle autorità e dai media con l’artificio del linguaggio intriso di nazionalismo e darwinismo sociale, i lavoratori e le lavoratrici, messi in relazione alla realtà del personale in organico sottodimensionato, allo sfruttamento in nome del profitto, alla gerarchia e all’oppressione sul luogo di lavoro, non sono stati affatto tutelati e sono stati esposti al contagio del coronavirus e molti sono anche morti, compreso il personale sanitario.

«Nel momento in cui le opinioni irragionevoli, poiché prive di verificabilità oggettiva, prendono il posto delle idee, la forza può tutto e l’assenza di pensiero libero rende ancora più possibile l’imposizione di dottrine ufficiali del tutto sprovviste di significato» scriveva Simone Weil nel 1934 nel saggio “Riflessioni sulle Cause della Libertà e dell’Oppressione Sociale”[1] quando il totalitarismo nazifascista aveva preso il sopravvento non solo in Germania ma in tutta l’Europa.

Anche Camus aveva utilizzato l’immagine della peste per parlare della diffusione e dell’affermazione delle correnti legate al nazismo di Hitler paragonandole a un’epidemia che colpiva però le menti delle persone e le cambiava radicalmente. Nella finzione romanzesca la situazione degenerò poi nell’assurdità, e gli abitanti della città fantastica di Orano continuarono a morire: a un certo punto non ci fu neanche più posto per le fosse comuni e la produzione di un nuovo siero per assicurare la guarigione a tutti gli appestati non produsse i risultati sperati poiché gli abitanti continuavano a morire.

La danza macabra così continuò, parafrasando il finale filmico del Settimo Sigillo (Bergman, 1957), e la messa in quarantena di un’intera città, privando della libertà i suoi abitanti, si era rivelata una soluzione inefficace al contenimento reale del contagio. Quando finalmente la quarantena fu revocata, gli abitanti di Orano si riversarono nelle strade in preda all’euforia ma il ritorno della peste rimase sempre in agguato.

L’accettazione, attraverso la rassegnazione e soprattutto l’indifferenza nel pretendere per sé e per tutte e tutti libertà e soluzioni degne, ha dimostrato quanto, anche oggi, le contraddizioni del capitalismo di sorveglianza abbiano lavorato con successo su una parte della massa negli ultimi decenni poiché, di fatto, nel gioco dei ruoli in questa partita a scacchi, ha generato la dualità antitetica dei controllori e dei controllati.

Al tempo del coronavirus stanno emergendo alcune posizioni: una parte della popolazione va approvando il proprio chiudersi in casa (quando ce l’ha), affermando che è una soluzione efficace alla diffusione dell’attuale coronavirus; un’altra parte sta ritenendo solo gli interventi sanitari concreti necessari, fuori dalla speculazione e dalla mercificazione, come affidabili a coprire la salute e la cura per tutte e tutti, compreso il personale sanitario contagiato; infine, una parte della popolazione considera invece il rimanere negli ambienti chiusi e promiscui una soluzione inutile e anche dannosa. Nel rispetto e nella condivisione in dignità e solidarietà concreta all’attuale dolore, sembrerebbero grottescamente esistere le pecore nere e le pecore mannàre, usando in maniera strumentale la figura allegorica del gregge per definire le differenti posizioni che il genere umano sta vivendo e al quale ritengo ancora di appartenere.

Tenendo conto che le azioni arbitrarie sono concretamente diverse dalle azioni chiamate libere poiché ogni giudizio dovrebbe trovare applicazione a una situazione oggettiva e, di conseguenza, a un tessuto di necessità, sta emergendo il fatto che una parte della popolazione, non ritenendo la libertà e la cultura beni inalienabili tanto quanto possedere la casa, il lavoro, la salute, non abbandonando di fatto l’accettazione della rivalsa, della gerarchia, della pacificazione, della diseguaglianza e del privilegio sociale, ha evidentemente fatto propria la cultura liberticida della rassegnazione che ha attraversato tutte le classi sociali e non solo le più povere.

L’abolizione dell’Habeas corpus act applicato nel Regno Unito tra il 1794 e il 1801, usato dallo stato britannico per cancellare l’opposizione radicale al sistema è un fatto, a mio avviso, non da poco per la memoria storica collettiva nell’analisi e il rispetto degno della libertà personale che si ritenga contraria a qualsiasi forma di costrizione totalitaria.

Potremo anche sforzarci e autocostringersi con la forza nei movimenti del corpo oppure immaginare di agire ancora da uomini liberi, ma la libertà autentica non è definita dal rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, piuttosto dalla relazione tra il pensiero e l’azione e, pensando che solo l’umano possa asservire l’umano, il sentimento condiviso più forte descritto ne La Peste di Camus era quello «della separazione e dell’esilio, con tutto quanto comportava di paura e di rivolta».[2]

Norma Santi

NOTE

[1] WEIL, Simone, “Riflessioni sulle Cause della Libertà e dell’Oppressione Sociale”, Milano, Adelphi, 1983, p. 106.

[2] CAMUS, ALBERT, La Peste, Milano, Bompiani, 2017, p. 150.

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