Qualche volta uno stato non ripaga i debiti che ha contratto. Dal 1800 ad oggi è successo 227 volte. Si tratta, per la maggior parte dei casi, di mancati pagamenti a creditori esteri (altri stati, istituzioni finanziarie o banche). Qualche volta l’insolvenza (totale o parziale) ha riguardato anche il debito cosiddetto “sovrano”, cioè le obbligazioni (o titoli di stato) che uno stato emette per finanziare le proprie spese. L’insolvenza del debito sovrano può avvenire per scelta politica. Può non essere pagato in tutto o in parte per una rivoluzione: quella sovietica, ad esempio, non riconobbe tutto il debito – interno ed estero – sottoscritto dallo zar, quella spagnola sospese il pagamento degli interessi.
Può esserci un default parziale per la scelta politica di non riconoscere alcuni specifici debiti; in Islanda la crisi del 2008 (con la nazionalizzazione delle banche) determinò la scelta di congelare tutti i conti correnti bancari posseduti da non residenti. Quando non avviene per scelta, in tempo di pace, il default avviene quando il debito “sovrano” è denominato in una moneta di cui lo stato non detiene l’effettiva sovranità e i conti dello stato non riescono a reperire le risorse per ripagarlo. Capita per alcuni stati negli stati federali (come gli USA), nei casi di unione monetaria (come l’Euro) o quando le obbligazioni vengono emesse in un’altra valùta (come per le obbligazioni argentine emesse in dollari).
In effetti, per uno stato, pagare le proprie obbligazioni è abbastanza facile: la banca centrale stampa la moneta e paga il debito. Svolge il ruolo che si chiama “prestatore di ultima istanza”: quello che presta i soldi, stampandoli, quando gli altri non li hanno o non vogliono prestarli. L’Italia, che non ha mai fatto default, con questo meccanismo ha costruito il proprio, relativo, benessere degli anni ’70 e ’80: lo stato operava in deficit, emetteva titoli di stato in lire a un tasso d’interesse deciso dal governo, la Banca d’Italia comprava quelli non acquistati dal mercato. Il prezzo (in economia c’è sempre un prezzo) era un’inflazione relativamente alta che fungeva da tassa occulta sulle rendite finanziarie e una conseguente svalutazione che garantiva un vantaggio sulle esportazioni e una penalizzazione delle importazioni. Questo meccanismo andava usato con attenzione per evitare spirali di iperinflazione come quella della Germania di Weimar, della Serbia di Milošević o dello Zimbabwe di Mugabe (tanto per fare alcuni esempi) dove, di fatto, la moneta perde completamente di valore.
Questo modello di sfruttamento, che privilegiava il capitalismo manifatturiero rispetto al capitalismo finanziario e alla rendita, ha subìto una profonda modifica a partire dagli anni ’90 con l’estendersi dei processi di globalizzazione. La delocalizzazione industriale nelle zone in cui il lavoro costava meno ha fatto sì che acquisisse maggior peso il trasferimento dei capitali rispetto all’esportazione delle merci. Ci sono state varie conseguenze: la finanziarizzazione dell’economia globale, il potenziamento dell’apparato militare dei singoli stati per garantire i propri capitali, la centralità dell’unica superpotenza globale (gli USA) con ulteriore perdita di autonomia dei singoli stati e un aumento del peso decisionale delle multinazionali e degli organismi internazionali (comunque subordinati agli USA). Questo meccanismo si sta inceppando per l’emergere della Cina come superpotenza, ma questa è un’altra storia.
L’eventuale default del debito sovrano non è regolamentato da leggi. Uno stato può banalmente decidere di non pagare i propri debiti e “buonanotte al secchio” per chi ha comprato i suoi titoli. Del resto, così come può stampare moneta per pagarlo, può anche fare una legge che dica: “Il debito non lo pago”. Normalmente, però, non funziona così.
Uno stato sa che deve tornare sul mercato del credito e non si può bruciare completamente la credibilità, per cui modifica le condizioni di pagamento posticipando le scadenze delle obbligazioni o pagandone solo una parte. Sta poi ai creditori aderire alle nuove condizioni, accettando un pagamento ridotto o posticipato, o cercare in qualche modo di rientrare in possesso del proprio credito. Il problema che c’è in questo caso è una notevole incertezza sulle possibilità effettive di riuscirci.
Ci sono alcuni fondi di investimento che si sono specializzati in questo tipo di mercato: i cosiddetti “fondi avvoltoio”. L’Argentina ha avuto nove default dal 1824, quando non pagò un milione di sterline prestatogli dalla Baring Brothers. In occasione del default argentino del 2001 (che coinvolse anche diversi risparmiatori italiani, in possesso di quelli che furono chiamati giornalisticamente “tango bond”) lo stato argentino ristrutturò il proprio debito offrendo ai sottoscrittori il 30% del valore nominale delle obbligazioni. La maggior parte dei creditori (il 92%) aderì all’offerta. Tra quelli che non aderirono vi fu un fondo avvoltoio, lo NML Capital Ltd, che rastrellò sul mercato titoli del debito pubblico argentino pagandoli poco più del valore di rimborso. Il fondo intraprese una serie di azioni legali contro l’Argentina in vari paesi del mondo, talvolta sfruttando giudici corrotti o compiacenti. Chiesero il blocco dei fondi dello stato argentino depositati nelle banche statunitensi e svizzere, provarono a sequestrare l’ambasciata argentina a Parigi, ottennero il sequestro di una nave militare argentina in Ghana. Alla fine, dopo anche una sentenza della Corte Suprema americana contro lo stato argentino, riuscirono a ottenere il rimborso dei titoli al 150% del loro valore nominale con un elevato guadagno, visto che li avevano comprati a un ammontare di poco superiore al 30 per cento.
Con la modifica della valuta di emissione dalla lira all’euro e la perdita sostanziale di “sovranità” sui propri titoli, la BCE si è assunta il compito di “prestatore di ultima istanza” per i paesi che utilizzano l’euro. Il problema è che questo ruolo fa a cazzotti con il compito istituzionale della BCE: garantire la stabilità di valore dell’euro. Se uno stato andasse in crisi e non riuscisse a finanziarsi vendendo le proprie obbligazioni, la BCE dovrebbe stampare euro per comprargliele e l’euro perderebbe di valore. Il problema vero è che gli stati europei avevano sempre, nei tempi moderni, ripagato i propri debiti con l’inflazione. Con l’avvento dell’euro questo non è più stato possibile: adesso il debito pubblico, non avendo più la sovranità monetaria, va pagato per intero. Per questo motivo è anche cambiato il profilo dei possessori dei titoli di stato: negli anni ’70 erano i privati cittadini, adesso sono banche e istituzioni finanziarie. Nella fase iniziale di introduzione dell’euro, in un periodo di espansione economica, siccome gli stati avevano ridotto la spesa per interessi nei propri bilanci (e potevano quindi spendere di più senza aumentare le tasse) di questa situazione non è fregato niente a nessuno.
Il problema è emerso in tutta la sua drammaticità durante la crisi economica del 2008. La crisi di liquidità mondiale ha creato un problema a diversi stati dell’area euro che non potevano svalutare le proprie monete. La BCE non ha voluto fornire liquidità agli stati in difficoltà e c’è stata la crisi dei debiti sovrani di diversi stati dell’area euro che sono stati costretti a offrire le proprie obbligazioni a tassi molto più alti di quelli di altri stati che usavano la stessa moneta. Questa scelta della BCE non è stata un errore da incompetenti: è stata una scelta voluta. Mettere in crisi alcuni stati ha fatto sì che altri stati potessero comprare a bassissimo prezzo industrie e società di quei paesi e sfruttarli per aumentare i propri profitti: sono riusciti così a trasformare una crisi simmetrica, che aveva colpito tutti, in una crisi asimmetrica, che colpiva solo alcuni e avvantaggiava gli altri. È in seguito a questo processo che è diventato di uso comune il termine “spread” che indica la differenza tra tassi d’interesse pagati dai diversi paesi che usano l’euro e la Germania, che ha il tasso d’interesse più basso e si è avvantaggiata (insieme ad altri paesi) con questa crisi asimmetrica.
Teniamo presente che questo saccheggio di tipo coloniale dei paesi colpiti dalla crisi del debito riguarda sia il settore pubblico sia quello privato. Un industriale tedesco, che può prendere in prestito soldi a un tasso più basso e paga meno tasse, è fortemente avvantaggiato rispetto al concorrente greco, e finisce per rilevarne le attività. Di questo processo beneficiano anche (e ci si arricchiscono) coloro che hanno disponibilità finanziarie nei paesi oggetto della crisi finanziaria. La società Autostrade per l’Italia (quella del crollo del ponte Morandi a Genova e dell’aumento perpetuo e immotivato delle tariffe autostradali) ha adesso un valore di 14,8 miliardi di euro per i Benetton, che l’avevano comprata per l’equivalente di 2.6 miliardi di euro durante le privatizzazioni fatte in Italia “per ridurre il debito pubblico”.
È chiaro, a chiunque se ne occupi, che le privatizzazioni non servono assolutamente a ridurre il debito pubblico ma solo a far ricchi gli acquirenti che, avendo i soldi per comprarle, sono già ricchi di loro. In Italia, le privatizzazioni sono cominciate nel 1992, con un debito pubblico complessivo (in lire) pari a 849 miliardi di euro e un rapporto debito/PIL del 105 per cento. In questi anni sono state vendute aziende per 120 miliardi di euro (pari all’11% del PIL nel periodo) e il debito è salito a 2,443 miliardi di euro con un rapporto debito/PIL del 136 per cento.
Oltre alla perdita del patrimonio pubblico, i cittadini hanno dovuto anche sopportare un consistente aumento delle tariffe delle società privatizzate che è servito ad arricchire ulteriormente i nuovi proprietari. Quando si sente parlare di “paesi rigoristi” sul debito altrui e che invocano tagli al bilancio di altri paesi, si sta parlando in realtà di paesi imperialisti che acquisiscono potere su altri paesi attraverso il trasferimento di propri capitali. In questo scenario si inserisce il MES.
Dopo la crisi dei debiti sovrani del 2009/2011 è stata riscritta l’architettura monetaria europea. È stato sottoscritto dagli stati dell’area euro il Fiscal Compact, un trattato rigidamente monetarista e neoliberista che obbliga gli stati al pareggio di bilancio e alla riduzione del debito pubblico complessivo fino ad arrivare al 60% previsto dagli accordi di Maastricht. In Italia il vincolo del pareggio di bilancio è stato inserito anche nella Costituzione, con il brillante risultato di far diventare anticostituzionale Keynes. Il Fiscal Compact non è mai servito a rendere omogenei i bilanci dei vari stati europei, benché sia stato formalmente stipulato per questo motivo. È stata una scusa per eliminare (“lo vuole l’Europa”) in tutti gli stati le misure di spesa sociale (e sanitaria) e molte delle garanzie per i lavoratori e tagliare i salari (“bisogna aumentare la competitività”).
Questa gestione del bilancio è tanto più pericolosa in tempo di crisi economica quando, diminuendo le entrate per la crisi economica e aumentando le uscite per la maggior richiesta di spesa sociale (per la disoccupazione e l’assistenza), bisogna comunque fare dei tagli per mantenere il bilancio in pareggio e si finisce per accentuare gli effetti della crisi ai danni dei più poveri. Insomma, quando è stato sottoscritto il Fiscal Compact, era chiaro a tutti che, alla successiva crisi economica, tutti i paesi con una situazione di difficoltà finanziaria sarebbero stati terreno di saccheggio da parte di chi avesse avuto i soldi per prendersi il bottino.
Per agevolare il saccheggio è stato creato il MES. È una società anonima di diritto lussemburghese, con la proprietà divisa tra i vari stati europei. Il MES ha una capacità di prestito di 700 miliardi di euro, di cui 80 effettivamente versati dagli stati membri (l’Italia ci ha messo 14 miliardi) e il resto, quando serve, da ottenere attraverso obbligazioni garantite dagli stati membri. Tanto per far capire a tutti che non è un’istituzione di beneficenza, nello stesso statuto c’è scritto che, nel determinare le rate di rimborso dei prestiti, il MES deve addebitare la completa copertura dei suoi costi di funzionamento e un adeguato margine di profitto.
Il MES, però, non si limita a prestare i soldi a condizioni non tanto vantaggiose e a stabilire un piano per la restituzione degli stessi. Il nodo centrale del MES è che il suo intervento in aiuto a uno stato in crisi è subordinato all’accettazione di condizioni preliminari sui tagli da operare nel bilancio dello stato, sulla precarizzazione dei rapporti di lavoro e sulla diminuzione dei salari, sulle privatizzazioni, sulla rimozioni dei vincoli ambientali, sanitari e di sicurezza sul lavoro per l’attività d’impresa. L’obiettivo dichiarato è quello di raggiungere un rapporto del 60% tra debito complessivo dello stato e PIL. Per raggiungerlo, il MES potrà anche chiedere allo stato di “ristrutturare il debito”: significa dichiarare il default parziale sui propri titoli di stato e, avendo perso la possibilità di accedere ai mercati finanziari per sottoscrivere prestiti, costringere lo stato a essere completamente dipendente dal MES stesso per la concessione del credito.
Una volta concesso il prestito del MES a uno stato, potrà intervenire anche la BCE che potrà acquistare, senza limiti di tempo o quantità, i titoli emessi dallo stato debitore. Nell’intervento di “salvataggio”, il MES può decidere di coinvolgere anche il FMI, che vigilerà, insieme alla BCE e alla Commissione europea (la cosiddetta Troika) sul rispetto delle condizioni del prestito. Nel 2012, oltre al MES e al Fiscal Compact, sono state anche decise delle Clausole di Azione Collettiva (C.A.C.) relative ai titoli emessi dagli stati dell’area euro per le eventuali ipotesi di default parziale o totale dei debiti di uno stato. Se uno stato non potesse o volesse rispettare quanto stabilito al momento dell’emissione di un titolo, dovrebbe sottoporre la proposta di ristrutturazione del debito (per esempio: “Te li pago sei mesi dopo, ti do il 50% del valore nominale, non ti pago gli interessi) a votazione da parte dei possessori del titolo. Per accettare la proposta deve aderire almeno il 75% dei detentori dei titoli di stato.
Dietro questo meccanismo, apparentemente neutro, si cela un inghippo. I titoli di stato sono posseduti, per la maggior parte, da istituzioni finanziarie spesso collegate tra loro, che hanno così il potere di decidere come e in che termini uno stato debba fare default. Tanto per essere chiari: se un fondo d’investimento importante decidesse che le condizioni del default non gli vanno bene, avrebbe (direttamente o per tramite di società partecipate) il potere di veto. Incidentalmente, segnalo che alcuni di questi meccanismi coinvolgono anche le ristrutturazioni bancarie, ma è meglio destinare un approfondimento specifico al problema.
La struttura del MES si è ulteriormente modificata dal 2017. Era attesa infatti la crisi economica a cui, in questi giorni, la pandemia ha fatto da detonatore. Visto che ci si aspettava che più di qualche stato sarebbe ricorso al MES, si è pensato di aggiustare meglio il meccanismo favorendo ulteriormente gli stati “virtuosi” e consentendo con più facilità la rapina di chi fosse in difficoltà. Si sono realizzate due linee di credito distinte. La prima chiamata PCLL, è riservata ai paesi dell’area euro che soddisfano alcune condizioni: hanno il rapporto debito/PIL inferiore al 60 per cento, hanno un deficit annuale inferiore al 3% e non hanno procedure aperte per eccessivo disavanzo. È evidente che i prestiti a questi stati, che non hanno alcuna difficoltà di accesso ai mercati finanziari, dovranno essere necessariamente a tassi inferiori a quelli, già bassi, che pagano sul mercato e non saranno soggetti ad alcuna condizionalità. Sarà verosimilmente usata per finanziare a basso costo alcuni stati (Germania e pochi altri) se ci dovesse essere un rialzo generalizzato dei tassi d’interesse sui mercati. La seconda, chiamata ECLL, è quella che mantiene le condizioni vessatorie previste nella stesura iniziale del MES ed è quella a cui dovrebbe accedere l’Italia in caso di difficoltà.
Oltre a queste modifiche alle modalità di concessione dei prestiti, sono state ulteriormente modificate le clausole CAC. Mentre prima l’accettazione delle condizioni di default riguardava ogni singolo titolo emesso, adesso riguarda l’insieme dei titoli. Questo rafforza il potere di veto di fondi, banche e di Istituzioni finanziarie. Queste modifiche non sono ancora state formalmente approvate: così com’è stato per l’istituzione del MES (e per tutti i trattati internazionali) ci sono lunghi percorsi di negoziazione prima di arrivare al voto dei parlamenti e alla firma.
C’è stata molta polemica e confusione in questi giorni, non solo sulla firma del trattato di modifica al MES, ma anche sull’utilizzo di quei fondi per fronteggiare l’emergenza pandemia. L’Unione Europea, di fronte alla crisi umana, sanitaria ed economica determinata dalla pandemia ha infatti confermato la sua natura di semplice notaio del neoliberismo inventandosi un pacchetto di “aiuti” che farebbero inorridire un usuraio. Normalmente, di fronte alle catastrofi, ci si attiva per portare soccorso alle popolazioni colpite: si chiama solidarietà verso chi è in difficoltà e dovrebbe essere alla base dei principi etici di ognuno. L’UE si è limitata ad elargire prestiti o a consentire di indebitarsi senza eccessivi vincoli. È come dire a chi avesse avuto la casa distrutta da un terremoto: “Non ti do nessun aiuto, ma puoi indebitarti per ricostruirla”.
In pratica, l’UE ha deciso di attivare la “clausola di fuga” per cui, nel 2020, non sarà applicato il vincolo secondo cui il bilancio dello stato non debba essere in deficit per più del 3% del PIL. Le stime, per adesso estremamente approssimative, danno un rapporto deficit/PIL per l’Italia a fine anno, intorno all’8 per cento. Siccome è atteso anche un forte calo del PIL (indicativamente del 10%), questo significherà che, a fine anno, l’Italia avrà un rapporto debito/PIL intorno al 155 per cento. Questo vuol dire che l’Italia dovrà fare un massiccio ricorso al mercato dei capitali per finanziare il proprio debito con il conseguente aumento dello spread e della relativa spesa per interessi.
Finché la pandemia e la crisi finanziaria erano un problema solo italiano, è prevalso il consueto menefreghismo europeo. Quando la crisi si è estesa a tutti i paesi europei, diventando simmetrica, sono stati attivati fondi per fornire prestiti che trasformassero nuovamente la crisi da simmetrica in asimmetrica a scapito di alcuni paesi. Ci si è inventati un finanziamento, denominato SURE, per istituire una sorta di cassa integrazione europea per le aziende in crisi. Si tratta di un finanziamento di 100 miliardi di euro. Sembrano tanti, ma se si considera che sono per 10 anni e per tutti i paesi europei e che, per statuto, non possono essere erogati in misura maggiore del 10% l’anno, si capisce la scarsa incisività della misura. Tanto per fare un paragone: il decreto “Cura Italia” stanzia, per motivi analoghi, 9 miliardi per due mesi per la sola Italia. Oltretutto si tratta, per l’appunto, di un prestito da restituire a fronte del quale gli stati dovranno presentare garanzie per almeno 25 miliardi. Così come sono dei prestiti, questa volta direttamente alle imprese, quelli che la Banca Europea degli Investimenti ha dichiarato di mettere a disposizione delle imprese private di tutta Europa per 200 miliardi, che però vanno ancora reperiti.
Anche in questo caso si tratta di cifre che, spalmate su tutta Europa, sono sostanzialmente irrilevanti e servono solo a far finta che ci si sia mossi in qualche modo. Bisognerà vedere oltretutto se le imprese decideranno di ricorrervi, visto che tutti i paesi hanno messo in campo misure analoghe, di un ammontare molto più consistente, e immediatamente utilizzabili. Infine, l’UE ha proposto l’utilizzo di 240 miliardi dei fondi del MES per la gestione, diretta e indiretta, dell’emergenza sanitaria per un ammontare pari al 2% del PIL dei singoli stati. Per l’Italia si tratterebbe di 36 miliardi.
Questo prestito avverrebbe senza le condizionalità previste per accedere ai fondi ma rimarrebbero le condizionalità sul bilancio previste nel Fiscal Compact, tra cui quella di raggiungere in 20 anni il 60% del rapporto debito/PIL: per prendere i 36 miliardi in prestito, oltre a restituirli, l’Italia dovrà diminuire annualmente il debito dello stato di 81 miliardi! C’è stata molta polemica e confusione tra la firma del trattato di modifica del MES e la firma dell’accordo sulla gestione dei fondi europei per la pandemia (in cui, per l’appunto, è compreso anche il MES). In realtà è un falso problema: indipendentemente dalle sparate di questo o quello, la firma dell’accordo e l’utilizzo dei fondi del MES è sostanzialmente inevitabile.
Il problema è nel programma di acquisto dei titoli di stato messo in campo dalla BCE per fronteggiare l’impennata dello spread seguita alla pandemia. La BCE acquista titoli di stato dei vari paesi dell’area euro in proporzione alle quote della BCE possedute (in gergo si chiama capital key): per l’Italia tale cifra è intorno al 15% degli acquisti. Da quando è cominciata la crisi ed è partito il Pandemic emergency purchase programme (Pepp) di acquisto straordinario dei titoli, a marzo, la BCE ha acquistato quasi 12 miliardi di titoli di stato italiani a fronte di solo 2 miliardi di Bund tedeschi. Il 35% dei 51 miliardi spesi dalla BCE sono andati ai BTP italiani. Se l’Italia prendesse i soldi del MES, la BCE potrebbe continuare ad acquistare senza limiti i titoli di stato italiani, in caso contrario dovrebbe sospenderne l’acquisto per riequilibrare le proporzioni acquistando i titoli degli altri stati. Questo farebbe impennare lo spread in un momento in cui l’Italia dovrebbe emettere titoli di debito per un centinaio di miliardi di euro per fronteggiare la crisi con un costo per interessi difficilmente sostenibile.
All’atteggiamento usuraio dell’Unione Europea va aggiunto un analogo atteggiamento da parte italiana: tutte le misure di emergenza di questi giorni sono a favore delle imprese. Per fronteggiare la crisi economica derivante dalla pandemia, lo stato italiano ha disposto spese per sostegno ai redditi, spese sanitarie e altre misure per i cittadini pari all’1,2% del PIL, una delle percentuali più basse tra tutti i paesi del G20. Contemporaneamente, ha impegnato risorse in garanzia di prestiti e liquidità per le imprese per una percentuale pari al 32,4% del PIL (inferiore alla sola Germania). Il risultato della politica economica italiana e delle scelte monetariste europee sarà che anche questa crisi la pagheranno i poveri, i non garantiti, gli sfruttati a cui sarà consentito di morire di fame a casa, di lavoro in fabbrica, ma non di fare una manifestazione di protesta. Del resto non è colpa di nessuno, “ce lo chiede l’Europa”!
Fricche