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Iran: una pericolosa recita

Iran: una pericolosa recita

Le energie accumulatesi lungo la faglia geopolitica del Golfo Persico hanno trovato uno sfogo nell’omicidio del generale Soulemani da parte degli Stati Uniti. Il futuro ci dirà se questa scossa porterà ad un assestamento o sarà il preludio di un conflitto di ampia scala.
Emergono comunque alcuni dati che vanno analizzati e tenuti in considerazione: ancora una volta si è ribadito, in modo palese, come il diritto internazionale, quello che nella narrazione liberal-capitalista dovrebbe regolare i rapporti tra Stati, non sia che un paravento. L’assassinio di Soulemani, senza uno stato di guerra e nel territorio di uno stato terzo e nominalmente sovrano, quale l’Iraq, è avvenuto in palese violazione di qualsiasi regola del diritto internazionale stesso. Gli Stati Uniti hanno scelto questa strada per ribadire che hanno i rapporti di forza per farlo, altrimenti avrebbero affidato il lavoro sporco a qualche gruppo terroristico sunnita presente nel mazzo di carte saudite o a qualche gruppo di anonimi mercenari nelle disponibilità della criminalità statale. Invece hanno scelto di portare avanti l’operazione in modo scoperto e rivendicandola apertamente. Lo hanno fatto perché sanno che possono permetterselo e lo vogliono affermare davanti a qualsiasi altri potenza, regionale o sovraregionale.
Va detto a chiare lettere: se qualcuno avesse ammazzato Soulemani con lo spirito con cui Gaetano Bresci ammazzò Umberto Primo oggi noi tutti dovremmo festeggiare la morte di un tiranno. Soulemani invece è stato ammazzato da una compagine criminale rivale alla sua. La politica internazionale è gangesterismo su scala globale dove il conto lo pagano gli oppressi di tutto il mondo. Il diritto internazionale è un paravento di carta, alla faccia dei liberal-democratici che, nella loro insipienza e nelle loro aporie, ci si richiamano. Scrivevamo poco più di un mese fa:
“La geopolitica aborre il vuoto: il progressivo disimpegno statunitense dall’Iraq a partire dal 2011 ha aperto ampie praterie per l’Iran. L’Iraq è diventato sostanzialmente uno stato cliente di Teheran, le milizie finanziate da questa, l’impegno militare diretto delle forze speciali, delle ‘milizie di volontari’ ed i finanziamenti al governo di Baghdad sono ciò che hanno garantito lo stop all’avanzata verso est dell’ISIS.”[1]
Ora gli Stati Uniti hanno ribadito con forza che sono e vogliono rimanere la principale voce in capitolo negli affari del Golfo Persico. Hanno mandato un messaggio a tutti gli altri attori presenti: per quanto gli USA siano sempre più rivolti verso gli scenari del Pacifico, dell’Oceano Indiano e – in prospettiva – dell’Artico, in Medio Oriente sono disposti a rischiare una guerra aperta per garantire i propri interessi e quelli dell’Arabia Saudita e Israele, i due principali alleati regionali.
In Iraq hanno lasciato in qualche modo campo libero all’Iran fintanto che questo non ha superato certi paletti ed ha cominciato a considerare letteralmente come il proprio cortile di casa il vicino meridionale. L’omicidio di Soulemani di certo non metterà fine all’interventismo Iraniano in Iraq ma lo azzoppa notevolmente in quanto difficilmente potrà essere sostituito nell’immediato con un uomo di pari capacità strategiche e tattiche.
La risposta iraniana si è dimostrata intelligente. Il bombardamento effettuato, nella notte tra il sette e l’otto gennaio, nei confronti delle basi USA in Iraq è stato uno spettacolo teatrale di tutto rispetto. Dai tempi della Guerra del Vietnam, escluse un paio di mattane di Gheddafi nei rampanti anni ’80, nessuno stato si era permesso di attaccare direttamente delle strutture statunitensi. Ovviamente Teheran si è premurata di avvisare per tempo il governo di Baghdad – e probabilmente Mosca e Pechino – ed uno di questi ha, altrettanto ovviamente, girato l’informazione ai comandi americani.
Il risultato è stato ottimo per tutti: il governo Iraniano ha rassicurato le milizie sciite a lui fedeli che non intende fare passare impunite le aggressioni statunitensi, gli Stati Uniti e i loro alleati – tra cui le truppe italiane di stanza ad Erbil – hanno potuto mettere al riparo le truppe ed i mezzi più costosi limitando i danni materiali. La maggior parte dei missili balistici iraniani sono andati lievemente fuori bersaglio, probabilmente volutamente, un paio sarebbero stati abbattuti ed alcuni invece hanno colpito in pieno le basi.
Il messaggio è stato mandato e recepito. Teheran ha difeso l’onore della Rivoluzione Islamica, Washington ha ammazzato Soulemani e Trump ha fatto la figura del duro. Salvo poi aprire alla distensione. Intelligentemente l’Iran ha evitato di fare rappresaglie su Israele: Nethanyau, che è stretto tra guai giudiziari e problemi elettorali, non avrebbe chiesto di meglio, probabilmente, per poter ricompattare l’opinione pubblica israeliana. Ma quella è una linea rossa che non si può attraversare: la reazione di Israele sarebbe stata durissima, non giustificabile in termini di diritto internazionale – che l’Iran non si può permettere di violare così apertamente come fanno gli USA – ed avrebbe rischiato di spazzare via o di danneggiare pesantemente la presenza iraniana in Siria. Hezbollah in Libano ha trasferito buona parte dei suoi asset in Siria a fianco di Assad ed il Libano stesso versa in una situazione di crisi interna in cui un conflitto aperto con la maggiore potenza militare dell’area sarebbe estremamente pericoloso per lo stesso “Partito di Dio”.
Gli altri attori nell’area si sono parzialmente rassicurati e a Baghdad, che è il vaso di coccio in mezzo ai vasi di ghisa, hanno tirato un sospiro di sollievo in quanto l’Iraq non tornerà ad essere un teatro di guerra aperta. Per ora.
La funzione dell’ISIS come proto-stato cuscinetto negli attriti della Faglia del Golfo e del Levante si è esaurita. Potrà eventualmente essere riesumato dai suoi protettori delle Petromonarchie e della Turchia ma al momento è un cuscinetto a sfera usurato e poco lubrificato.
La guerra all’ISIS, di cui pure molti ingenui liberal-democratici si sono fatti una narrazione epica di una specie di santa alleanza contro il Mostro di turno, è stato un sanguinoso conflitto che si è basato su regolamento di conti tra clan, che in Iraq e Siria rimangono una delle componenti principali della strutture sociale per quanto poco analizzati da parte occidentale, ondate di profughi interni e non ai due stati direttamente coinvolti, bombardamenti a tappeto sulle città, stragi e pulizia etnica. Questi metodi sono stati perseguiti sia dall’ISIS e dai suoi protettori sia dalle milizie controllate dall’Iran che dalla Coalizione Internazionale a guida statunitense. Sono state sostanzialmente avvallate da chiunque perché bisogna sconfiggere il Mostro. Gli unici che nei limiti hanno giocato in modo più pulito sono stati i fautori del progetto del Confederalismo Democratico, ma, abbandonati dagli Stati Uniti e ridotti a merce di scambio, tornano ad essere alla mercede di Ankara o Damasco.
Da un lato l’omicidio di Soulemani ribadisce, da un lato, la “dottrina dell’Uomo Matto”, di cui Nixon fu maestro indiscusso minacciando reazioni spropositate a qualsiasi atto considerato come ostile e, dall’altro, si mantiene nel caos il settore, costringendo l’Iran a investire ancora più risorse economiche e umane nella gestione di un territorio che non è facile da gestire.
L’azione statunitense è anche tesa a fornire, paradossalmente, ossigeno alla ierocrazia iraniana ed al governo ad essa legato di Baghdad. Gli ultimi mesi non sono stati facili per queste compagini governative, attaccate da imponenti movimenti progressisti che attuavano una radicale critica dell’ordine politico, sociale ed economico in quei paesi. La governance irachena, sia nelle sue componenti sciite sia in quelle sunnite sia in quelle nazionaliste-curde, ricorda con orrore l’insurrezione delle Shoras all’indomani della sconfitta militare seguita alla fallita annessione del Kuwait. In Iran il fuoco cova sotto la cenere, nonostante i massacri attuati dai governi succedutesi al potere a Teheran sotto la tutela della Guida Suprema. Ancora non si sono spenti i fuochi dell’insurrezione della fine del 2019 che ha visto il proletariato dei grandi centri industriali e gli studenti attaccare il governo. L’insurrezione è stata repressa nel sangue, con grande contributo anche del macellaio Soulemani. Contemporaneamente questi era impegnato nella repressione, anche qua con centinaia di morti, dei movimenti sociali iracheni che pretendono la fine dei governi-fantoccio, statunitensi o iraniani poco importa, ridistribuzione della rendita petrolifera, la fine delle ingerenze militari straniere e libertà politiche e civili.
Il governo di Teheran ed il governo di Baghdad sventoleranno la bandiera del revanscismo e del jingoismo, vittime dell’aggressione del Grande Satana a stelle e strisce. Giocheranno la carta dell’unità nazionale davanti all’aggressore esterno per tacitare ulteriormente i contestatori, il nemico esterno fornirà loro la capacità di colpire con ancora più forza il nemico interno. Potrebbero addirittura giocare la carta dell’unità Sciita, se accetteranno il rischio di alienarsi definitivamente i sunniti iracheni ed i kurdi di Barzani che vogliono la loro autonomia completa sotto tutela statunitense.
Non è però detto che ci riescano: una parte consistente degli oppressi in Iran ed in Iraq non hanno assolutamente in amore i rispettivi governi. Non hanno neanche in amore il governo statunitense, le cui politiche imperialiste hanno subito sulla loro pelle. Non è detto che la carta dell’unità nazionale funzioni, né in Iran dove oramai vi sono cicliche e sempre più radicali insurrezioni contro la Repubblica Islamica né in Iraq, che neanche è una nazione nel senso proprio del termine, dove un ampia parte della popolazione delle aree urbane non ne può più di una guerra che prosegue dal 2003 e che è stato preceduta da dieci anni di ristrettezze economiche con tanto di carestie a causa delle sanzioni statunitensi e dai precedenti otto anni di sanguinosa guerra con l’Iran voluti dal criminale Saddam Hussein e dalla sua cricca.
La stessa carta del pan-sciismo non è detto che funzioni. La maggioranza della popolazione irachena condivide sì la religione sciita con il vicino settentrionale ma è di li lingua e cultura araba. Durante il lungo e sanguinoso conflitto tra Iran e Iraq degli anni ottanta del XX secolo gli sciiti iracheni solo in piccola parte si schierarono con i correligionari iraniani: la maggior parte di loro rimase fedele al sunnita Saddam. I legami clanici e, in parte, l’allora ancora presente, anche se forse già residuale, nazionalismo pan-arabo, ressero l’urto della Rivoluzione Islamica di Kamenei.
La questione del controllo dei centri di produzione e transito del petrolio è più complessa di come la si presenta, sopratutto nelle analisi che vengono dalla sinistra occidentale. Gli Stati Uniti hanno raggiunto l’autosufficienza energetica grazie alla produzione interna data dalle nuove tecniche estrattive tramite fracking. Anche le tecnologie di estrazione del petrolio off-shore negli ultimi anni sono avanzate. In Iraq le compagnie americane hanno sì grossi interessi ma il petrolio lì estratto non serve ad alimentare direttamente gli Stati Uniti, i quali quindi non sarebbero grandemente danneggiati da una chiusura da parte Iraniana dello stretto di Hormuz. Chi ne patirebbe enormemente le conseguenze sarebbero le petromonarchie del Golfo, arcinemiche dell’Iran, e, di conseguenza, i mercati energetici europei – sopratutto dato il contemporaneo acutizzarsi della crisi libica – e, sopratutto, Cina, Giappone e paesi del Sud-Est asiatico.
La Cina ha grossi interessi in Iran ed ha tutto l’interesse a mantenere bassa la tensione per scongiurare un conflitto, che se anche coinvolgesse solo il blocco saudita e la Repubblica Islamica, porterebbe ad una grossissima diminuzione dei flussi di petrolio fondamentali per alimentare l’economia di Pechino. Gli Stati Uniti tutto sommato potrebbero decidere che aprire uno scenario di guerra aperta nel Golfo e non più solo di guerra asimmetrica potrebbe fare comodo: le quotazioni del petrolio salirebbero, le esportazioni dagli Stati Uniti verso l’Europa porterebbero introiti nelle casse USA, la Cina si troverebbe in difficoltà. Il gioco non sarebbe più quello del controllo dei centri di produzione in medioriente ma la capacità di controllo dei punti nevralgici per il flusso del petrolio stesso e non per appropriarsi di questi flussi, come è stato per decenni, ma per regolamentarlo per colpire i propri avversari.
L’Iran a sua volta non ha interesse in un conflitto aperto, né con gli Stati Uniti né con l’Arabia Saudita. Con gli Stati Uniti, anche se non sarebbe di certo una passeggiata per Washington, non ci sarebbe storia da un punto di vista militare. Con l’Arabia Saudita militarmente l’Iran sarebbe molto più avvantaggiato – le pessime performance dell’esercito di Ryad in Yemen mostrano che non basta essere pieni di denaro per vincere le guerre – ma l’economia di Teheran non è detto che reggerebbe un conflitto vero e proprio. Le capacità iraniane di guerra asimmetrica invece si sono dimostrate di tutto rispetto: l’attacco di settembre contro le infrastrutture petroliere della Aramco – l’azienda petrolifera di stato dei sauditi – lo ha dimostrato, come lo ha dimostrato il sapiente uso del soft-power per espandersi nel Levante.
La Faglia del Golfo potrebbe riorganizzarsi in maniera differente senza un conflitto su larga scala. Ma potrebbe anche avvenire il contrario. Qualunque manovra comunque sarà effettuata sulle spalle degli oppressi e della loro capacità di organizzatore autonoma.
Nonostante quanto dicano gli apprendisti stregoni della geopolitica gli oppressi si possono emancipare da soli e con le loro forze, senza campismi e presunti mali minori.
Gli anarchici davanti alle prospettive di guerra devono perseguire l’obiettivo del disfattismo rivoluzionario in qualsiasi settore del campo imperialista si trovino ad agire. Devono stare con gli insubordinati ed i disertori di tutto il mondo e con chiunque agisca nell’ottica della costruzione dell’autonomia di classe e dell’autogestione. Con chi si oppone a regimi patriarcali e religiosi, alla devastazione di ecosistemi e vite in nome dell’accumulazione di capitale e potere.
Per troppo tempo nella sinistra occidentale vi è stata la convinzione, viziata per altro da un certo razzismo di fondo, che gli oppressi mediorientali ed arabi non siano in grado di costruire una propria capacità di autonomia. Le lotte sindacali e politiche dei lavoratori in Iran e Iraq ci dimostrano il contrario. Checche ne dicano certi complottisti la Primavera Araba, prima di finire schiacciata tra l’islamismo e le guerre tra bande borghesi, ha dato un altro forte segnale in quel senso. Gli oppressi di tutto il mondo non hanno bisogno di qualche apprendista stregone che si erga a loro maestro ma di mutuo appoggio e solidarietà.

Lorcon

NOTE
[1] LORCON, “Fuoco ai Turbanti”, in Umanità Nova, n. 34 2019.

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