Le riflessioni pubblicata sul numero 7/2019 di UN[1] riguardano un argomento, la “comunicazione sociale”, molto importante ma che spesso non trova lo spazio che meriterebbe all’interno nelle nostre analisi sulla realtà che ci circonda.
Il monopolio della comunicazione sociale è storicamente uno dei poteri dello Stato che, con il passare del tempo e con i cambiamenti tecnologici intervenuti negli anni si è sviluppato seguendo due direttrici principali: da un lato una legislazione che garantisce a chi è al potere il predominio sulla comunicazione, dall’altro la repressione, in alcuni casi anche violenta, nei confronti di chi osa contestare apertamente o solo intralciare questo potere. L’interessante articolo contiene un importante buco nella breve storia della comunicazione ed un’analisi del ruolo che hanno oggi i cosiddetti “social”.[2] Questo intervento ha lo scopo di provare a colmare, almeno in parte, la prima mancanza e sostenere un punto di vista diverso sulla seconda.
Nel racconto dei rapporti tra movimenti comunicazione e, in particolare, sugli strumenti usati negli ultimi 50 anni viene fatto nell’articolo in questione un salto troppo in lungo che parte dalla stagione delle “radio libere”, arriva alla comparsa di Internet e poi al cosiddetto “web 2.0”. Questo potrebbe far credere che tra questi due importanti momenti non sia successo nulla di importante per quanto riguarda la “comunicazione sociale” mentre invece non è proprio così. Proviamo, in modo molto sintetico, a colmare questo spazio mancante.
Prima però vorremmo sottolineare che l’esperienza delle “radio libere” non è terminata a causa della repressione materiale[3] e sicuramente non a causa dell’azione vessatoria della SIAE. Le “radio libere” – intendiamo in questo caso quelle con una connotazione chiaramente politica – hanno chiuso principalmente per due motivi: da un lato il “riflusso” dei movimenti che le sostenevano e, di conseguenza, la mancanza di persone che le facessero funzionare, le ascoltassero, dall’altro l’approvazione di norme sulle telecomunicazioni che favoriscono i grossi gruppi economici a scapito delle piccole realtà associative. Tanto è vero che le poche radio, nate in quella stagione, ancora rimaste in attività sono quelle che si sono consorziate in “network”[4] e quelle che hanno mantenuto nel corso degli anni una base di partecipazione consistente.
Tra la fine della stagione delle radio e la nascita del web[5] non c’è stato il vuoto ma si è sviluppato – all’interno dei movimenti – una nuova stagione di attività e di interesse soprattutto per la comunicazione mediata da computer. Questo è avvenuto molto prima che venisse fondata la prima società intenzionata a sfruttare le reti a scopo di lucro, ben prima che gli apparati statali iniziassero a preoccuparsi delle potenzialità dello strumento. Stiamo parlando dell’epoca delle BBS: un fenomeno che in Italia ha avuto anche una chiara colorazione politica e di movimento.[6] Si vedano a questo proposito la storia di ECN (“European Counter Network”) e Cybernet che, in Italia, per qualche anno hanno funzionato da collegamento e da diffusione di informazioni da e per il movimento.[7] Questi strumenti sono stati abbandonati soprattutto perché, a parte un episodio di repressione che però le ha appena sfiorate,[8] a partire dalla fine degli anni ‘90 chi si collegava a una BBS è passato a usare Internet.
Anche i primi anni della Rete hanno visto protagonisti i compagni e i gruppi che già si stavano interessando di comunicazione e computer e che nel 1998, praticamente agli albori del “web”, hanno dato vita agli “Hackmeeting” (che continuano ancora oggi) che hanno garantito sempre molto spazio alle tematiche collegate all’informazione ed alla comunicazione. Non è quindi un caso che nel 2001, anche dal crogiolo degli Hackmeeting, sia nata Indymedia Italia che resta, almeno fino a oggi, il più importante (probabilmente unico) esperimento di comunicazione sociale tramite computer gestito direttamente dai movimenti. Una esperienza che, per più di dieci anni,[9] ha rappresentato qualcosa di fondamentale nel panorama della comunicazione non ufficiale, sia a livello locale sia nazionale ed internazionale. Il ruolo giocato e le ragioni che hanno portato allo sfaldamento di Indymedia Italia e, più in generale del corrispondente progetto internazionale, sono davvero troppo lunghe e complesse per essere affrontate in questa occasione; si può però tranquillamente affermare che, tra le principali, c’è quella del riflusso del movimento cosiddetto “no-global”.
Questo per quanto riguarda la necessità di partire da una cronologia un po’ più completa rispetto a quella contenuta nell’articolo. Il secondo punto critico è relativo alla descrizione ed al giudizio riguardante il fenomeno dei “social” che oggi sono diventati sicuramente un campo dove si giocano molte partite importanti e a tutti i livelli.
Nessuno potrebbe mettere in dubbio che i “social” hanno oggi un grande peso nella comunicazione, dovuto principalmente alla loro capillare diffusione nella popolazione e neppure è contestabile che questi strumenti hanno eccezionali potenzialità per quello che riguarda il collegamento e la comunicazione interpersonale.
Manca però nell’articolo almeno un accenno alla diversità pure esistente tra i diversi “social” che sembra, quindi, venire considerati tutti strumenti potenzialmente “libertari”. Oltretutto non viene citata direttamente alcuna piattaforma e, quindi, non si capisce se si faccia riferimento a tutte o solamente a quelle maggiormente diffuse e conosciute.
Nell’articolo non si tiene conto che la maggior parte di questi strumenti sono nati, al contrario di altri, con il preciso scopo di generare profitto e limitare al minimo indispensabile la libertà dei loro utenti. Gli utilizzatori di queste piattaforme servono esclusivamente come un comodo bersaglio pubblicitario e come una quasi inesauribile fonte di informazioni personali da comprare e vendere.
Non si tratta quindi di strumenti di comunicazione nati “liberi” e poi censurati o conquistati dalle gerarchie ma di prodotti commerciali spacciati per aperti e gratuiti, creati basandosi anche sul fatto che la maggior parte dei loro utenti non si preoccupa della propria privacy fino a quando non incappa direttamente di persona in qualche problema, cioè quando è ormai troppo tardi.
Piattaforme come la famigerata FaceBook sono dei veri e propri pollai dove contenere la comunicazione tra le persone, strumenti di comunicazione gestiti da algoritmi segreti e da gruppi di controllori che farebbero vergognare quelli di 1984. Gli esempi accumulatisi in questi anni sono davvero troppi e li omettiamo solo per decenza.
In definitiva restiamo fermamente convinti che “usare quel genere di strumenti significa, tra le altre cose, accettare implicitamente che le nostre comunicazioni siano inglobate in un prodotto commerciale e sottoposte al vaglio insindacabile di un programma e quindi di chi lo ha scritto e/o di gruppi di censori umani addetti a controllare in ogni momento quello che viene pubblicato. Significa perdere completamente la possibilità di decidere in autonomia i nostri tempi, i nostri temi e le nostre modalità espressive. Significa, al minimo, doverci autocensurare per evitare di incorrere in sanzioni che non ammettono un contraddittorio. Significa dipendere per le comunicazioni collegate alle nostre proteste da una entità che ha il solo scopo di generare profitto e che potrebbe bloccare tutto senza dover rendere conto ad alcuno. In alcuni casi, significa credere, in misura minore o maggiore, che i movimenti sociali nascano davvero su FB piuttosto che dalle contraddizioni reali e concrete del sistema.”[10] Significa, inoltre, partecipare attivamente alla diffusione di strumenti che sono tra i principali produttori di disinformazione (quelle che chiamano “fake news”) piuttosto che lavorare alla nascita e allo sviluppo di altri realmente liberi.
Più pericolosa è la valutazione positiva che viene data nell’articolo dei “gruppi di vicinato e prossimità”, in quanto sono proprio quelli gli aggregati sociali che esplicitamente vengono considerati dalle forze politiche come la base migliore per la creazione di capillari reti di controllo del territorio “dal basso” in collaborazione con le forze dell’ordine. Già in alcuni comuni sono state lanciate iniziative in questo senso per segnalare “situazioni inusuali e/o comportamenti sospetti” e in questi contesti gli strumenti utilizzati sono proprio quelli più diffusi, più controllati e più controllabili.[11]
La conclusione dell’articolo ci trova invece concordi quando sottolinea la necessità di operare con maggiore “presenza e coscienza” ma questo, siamo sicuri, non può essere fatto all’interno della gabbia dei “social” quanto, piuttosto, creando e diffondendo informazione indipendente ma soprattutto strumenti di comunicazione interpersonale e di massa alternativi a quelli del potere.
Pepsy
NOTE
[1] Enrico Voccia “Il Potere della Comunicazione”, in Umanità Nova n. 7, 2019.
[2] Nell’articolo citato si usa il termine “social network” anche quando sarebbe invece più corretto usare quello di “social media”. Abbiamo preferito in questo articolo usare “social” per evitare di complicare le cose a chi legge. Rimandiamo gli interessati a conoscere la differenza tra i due termini a una semplice ricerca in Rete. Un punto facile di partenza potrebbe essere https://www.veronicagentili.com/tu-la-sapevi-la-differenza-tra-social-media-e-social-network/
[3] La storia, abbastanza nota, della chiusura “manu militari” di Radio Alice di Bologna nel 1977 è sicuramente una eccezione e non la regola.
[4] Popolare Network è un buon esempio.
[5] Convenzionalmente la data viene fissata al 1995.
[6] Non è certo un caso che a creare la prima e più diffusa rete di BBS, vale a dire Fidonet, sia stato un informatico notoriamente di tendenze anarchiche.
[7] ECN venne fondato nel 1989 e Cybernet nel 1993.
[8] Si veda per esempio https://it.wikipedia.org/wiki/Italian_Crackdown
[9] Anche dopo la chiusura del sito “storico” di Indymedia Italia (fine 2006) il progetto ha continuato per alcuni anni (2007-2017) a livello locale e per qualche anno ancora con una nuova Indymedia Italia chiusa definitivamente “più o meno” nel 2012.
[10] Pepsy, “Autunno in giallo”, in Umanità Nova n. 35, 2018.
[11] Per esempio http://www.comune.parma.it/poliziamunicipale/Controllo-di-vicinato.aspx
oppure
http://www.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/vademecum_protocollo_arezzo_il_controllo_del_vicinato.pdf e ci fermiamo solo a due esempi.