La festa della Repubblica mette in scena lo Stato al di là della retorica democratica su libertà, partecipazione, solidarietà.
Ogni anno a Roma, nello scenario costruito da Mussolini, sfilano le forze armate. Una sfilata milionaria – quest’anno è costata un milione e mezzo di euro – per costruire consenso intorno alle avventure belliche dell’Italia.
La sfilata militare di-mostra qual è il reale fondamento dello Stato: la forza.
La forza di imporsi su chiunque non accetti un ordine politico e sociale ingiusto e autoritario. La forza di imporsi su chi vive ai margini, sui più poveri, sui baraccati. Dal 1° giugno l’esercito pattuglia i campi rom di via Germagnano. Nella baraccopoli abusiva manca l’acqua ma il comitato per l’ordine e la sicurezza di Torino ha deciso di inviare gli alpini. Due giorni prima, dopo anni di soprusi e minacce, gli abitanti di quel campo erano scesi in strada, bloccando il traffico, impedendo ad un ennesimo corteo razzista di arrivare al campo. L’esercito, pur annunciato da tempo, è arrivato due giorni dopo.
L’esercito è da tempo nelle strade delle nostre periferie, nelle prigioni per immigrati senza carte, al cantiere di Chiomonte.
Sono gli stessi militari delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, in Libia, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia. Gli stessi che si preparano ad un’ennesima avventura di guerra in Libia, gli stessi che con il pretesto della guerra agli scafisti vanno a far barriera contro profughi e migranti.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia. Lo rivela l’armamentario propagandistico che le sostiene. Le questioni sociali, coniugate sapientemente in termini di ordine pubblico, sono il perno dell’intera operazione.
Hanno applicato nel nostro paese teorie e tattiche sperimentate dalla Somalia all’Afganistan.
La separazione tra guerra e ordine pubblico, tra esercito e polizia è sempre più labile. L’alibi della salvaguardia dei civili è una menzogna mal mascherata di fronte all’evidenza che le principali vittime ed obiettivi delle guerre moderne sono proprio i civili. Civili bombardati, affamati, controllati, inquisiti, stuprati, derubati: è quotidiana cronaca di guerra. Poi arriva la “ricostruzione”, la creazione di uno stato democratico fantoccio delle truppe occupanti, l’organizzazione di esercito, polizia, magistratura leali ai nuovi padroni. È la prosecuzione con altri mezzi della guerra guerreggiata, obiettivo e insieme strumento di guerra.
La guerra è diventata filantropia planetaria, le bombe, l’occupazione militare, i rastrellamenti ne sono lo strumento. Quando il militare diventa poliziotto ed entrambi sono anche operatori umanitari il gioco è fatto.
Quando l’operazione non riesce, come in Iraq, l’obiettivo è il caos sistemico, l’ingovernabilità di un territorio dilaniato da decenni di guerra, dove sulle popolazioni civili viene usato ogni armamentario del terrore.
Secondo una statistica i macellai dell’Isis, una creatura alimentata dal Quatar e dalla Turchia sotto l’occhio compiacente dell’amministrazione Obama, avrebbero ampio consenso in Iraq. Forse nel nostro paese la gente ha dimenticato le torture, le morti, le umiliazioni inflitte dai militari statunitensi contro i prigionieri del carcere di Abu Graib. In Iraq probabilmente quelle immagini non le ha dimenticate nessuno. I macelli democratici hanno alimentato il furore della propaganda islamista, rendendo possibile la nascita e la crescita di un mostro che, non per caso, esibisce con orgoglio i propri orrori.
La retorica su interventi umanitari e democrazia è sempre più logora ma continua ad essere la narrazione fondativa delle avventure belliche del nostro paese.
È stata l’asse portante del discorso di Mattarella e del ministro della difesa Mauro per il due giugno. Mauro ha dichiarato che la parata “mette in evidenza le ragioni per le quali stiamo insieme e promuoviamo la nostra convivenza civile, portando nel mondo la nostra missione pacifica”.
Orwellianamente la guerra diventa pace.
Il giorno prima Matteo Renzi aveva indossato la mimetica per un saluto alle truppe di occupazione italiane di stanza ad Herat in Afganistan.
L’Italia è in guerra da molti anni. È una guerra su più fronti, che si coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma parla il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della repressione.
Il due giugno a Torino c’è stato un presidio antimilitarista, mostra sul vilipendio e sui crimini di guerra degli “italiani brava gente” con punto info sulla mostra/mercato dell’industria bellica, militarizzazione del territorio da Chiomonte a Barriera, dai CIE al campo rom. Un primo appuntamento in vista della tre giorni antimilitarista di settembre tra Torino e la Val Susa e delle iniziative contro la mostra/mercato di giocattoli di morte del prossimo novembre all’Oval Lingotto.
È importante intrecciare i fili delle lotte perché la mera testimonianza, la rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.
Negli ultimi anni l’opposizione alla guerra qualche volta è riuscita a saldarsi con l’opposizione al militarismo: il movimento No F35 a Novara, i No Tav che contrastano l’occupazione militare in Val Susa, i no Muos che si battono contro le antenne assassine a Niscemi. Anche nelle strade delle nostre città, dove controllo militare e repressione delle insorgenze sociali sono la ricetta universale, c’é chi non accetta di vivere da schiavo.
Le radici di tutte le guerre sono nelle industrie che sorgono a pochi passi dalle nostre case.
Chi si oppone alla guerra, senza opporsi alle produzioni di morte, fa testimonianza ma non impedisce i massacri.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.
m.m.
foto su: www.anarresinfo.noblogs.org