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Fermare l’autonomia differenziata: il 9 maggio la scuola sciopera

Fermare l’autonomia differenziata:  il 9 maggio la scuola sciopera

Il 9 maggio la scuola è in sciopero. A promuovere l’azione sono alcuni sindacati di base, ad oggi Unicobas, Cobas, USB, Cobas Sardegna. Lo sciopero, oltre a riguardare le molte questioni aperte nel mondo dell’istruzione e della formazione, è rivolto specificamente a convogliare la protesta contro l’autonomia differenziata.

Sta infatti per concludersi l’iter del disegno di legge redatto nel febbraio 2023 dal leghista Calderoli, provvedimento che, se andrà in porto come è probabile, ridisegnerà in modo consistente il panorama complessivo.
Nonostante l’opposizione da operetta portata avanti dalle forze politiche di minoranza, va ricordato che questo disegno di legge affonda le proprie radici nella riforma del Titolo V della Costituzione varata oltre vent’anni fa dal governo Amato, annoverabile come “centrosinistra”.

Chi ora cerca di contrastare l’iter dell’attuale DDL proponendo emendamenti ha quindi alle spalle un peccato originale che contraddice in pieno qualsiasi intervento spacciato come buona intenzione, avendo supportato a suo tempo la riforma del Titolo V con la famigerata introduzione delle intese attuative dell’autonomia differenziata. Per dare il via alla macchina, come stabilito nel lontano 2001, devono infatti essere stipulate intese tra governo e Regioni che tagliano fuori il Parlamento, al quale restano solo atti di indirizzo non vincolanti, in barba a tutte la retorica costituzionalista di centrosinistra.
L’autonomia differenziata punta alla gestione regionale del 90 per cento della fiscalità generale.

Partendo da una situazione di sperequazione finanziaria su cui non viene previsto nessun intervento compensativo, il nuovo sistema andrà ad accentuare il divario già esistente tra regioni più ricche e regioni più povere su ben 23 materie oggetto di devoluzione, tra cui istruzione e sanità, materie che riguardano prestazioni relative a diritti civili e sociali, che, ancor più di quanto già succede, saranno legate alla residenza in un territorio piuttosto che in un altro. Il trasferimento dei fondi pubblici avverrà infatti ad invarianza di bilancio, mantenendo l’asimmetria economica che caratterizza i territori, per cui le regioni più ricche potranno drenare più risorse pubbliche diventando ancora più ricche, mentre le regioni più povere non troveranno più nulla e avranno ancora meno risorse rispetto all’esistente.

Nel goffo tentativo di arginare questo inevitabile rischio, la riforma del Titolo V del 2001 prevedeva di definire i livelli essenziali delle prestazioni, LEP, che dovevano comunque essere garantiti su almeno 15 delle 23 materie in devoluzione. Peccato che in 23 anni, dal 2001 ad oggi, questi livelli non siano stati nemmeno identificati. L’attuale disegno di legge Calderoli prevede di identificarli ma non di finanziarli, come impone la clausola dell’invarianza di bilancio che caratterizza l’impianto dell’autonomia differenziata, la quale deve essere attuata senza oneri, altrimenti che devoluzione è?
Da notare ad esempio che nessun impegno a garantire il livello essenziale di prestazione viene dato su alcuni ambiti che essenziali magari lo sarebbero, come ad esempio la Protezione Civile. Di fatto in questo settore le risorse potrebbero diventare minime proprio per territori già poveri e sottoposti a degrado ambientale e conseguenti disastri.

Il disegno di legge Calderoli, tra l’altro, prevede che alcune regioni possano collegarsi tra loro per meglio gestire alcune materie, individuando ad esempio anche organi istituzionali interregionali: diventa dunque estremamente probabile uno scenario come quello della “Padania”, a suo tempo prefigurato da Bossi, con l’unione delle regioni più ricche a gestire alcuni ambiti, creando di fatto una “secessione dei ricchi”.
Da segnalare inoltre come l’autonomia differenziata abbia legami significativi con questioni importanti di stretta attualità, come ad esempio la riforma del premierato. Per recuperare infatti un po’ del centralismo che si perderebbe, il Presidente del Consiglio con l’autonomia differenziata aumenta i propri poteri a dismisura. Può infatti avviare negoziati con le Regioni anche senza il parere dei ministri, dando solo un’ informazione alle Camere; può non conformarsi all’atto di indirizzo delle Camere, può non tener conto dei pareri parlamentari sui LEP, può aggiornare i LEP con semplici dpcm, può disporre autonomamente la fine delle intese con le Regioni.

Insomma, campagne governative che apparentemente seguono binari indipendenti mostrano invece intrecci significativi e niente affatto casuali.

Tra i settori che più subiranno gli effetti negativi dell’autonomia differenziata c’è senz’altro la scuola. La regionalizzazione infatti apre alla revisione dei programmi nazionali e dei contenuti di studio, che potranno essere diversi da regione a regione, con consistenti differenze nella preparazione culturale e possibile diversificazione territoriale del valore dei titoli di studio. Potremmo vedere aumentare la differenza nella disponibilità del tempo pieno, di mense, di laboratori, di risorse per il sostegno agli alunni disabili, accentuando così le enormi differenze già esistenti. Analogamente aumenterebbero le sperequazioni fra territori relative ad esempio all’edilizia scolastica e al rispetto di quelle normative di sicurezza che sono già ampiamente disattese e insufficienti.
Dal punto di vista sindacale il personale della scuola sarebbe sottoposto a differenze retributive fra regione e regione e a differenze normative dovute al depotenziamento del contratto collettivo nazionale. Si aprirebbero quindi le famigerate gabbie salariali, accompagnate anche da gabbie normative.

Queste alcune delle dirette ripercussioni dell’autonomia differenziata sulla scuola. Ma proprio nel settore della scuola è interessante considerare quanto alcune “novità” di recente introduzione siano fortemente in sintonia con l’autonomia differenziata, anzi, sembrano proprio anticiparla in modo significativo. Ne è un esempio la riforma dei tecnici e dei professionali, con l’istituzione della filiera 4+2, di cui abbiamo ampiamente trattato su queste pagine. Nel nuovo indirizzo di filiera la revisione dei curricoli e la subordinazione dei contenuti di studio alle esigenze del mondo dell’impresa locale attiva percorsi di studio molto differenziati nelle diverse zone d’Italia, rappresentando una netta anticipazione dell’autonomia differenziata. Analogamente connessa con l’autonomia differenziata è l’introduzione dei tutor e degli orientatori, figure che nella scuola hanno il compito di allineare il percorso di studio alle esigenze del mercato locale e su quelle indirizzare gli studenti, rendendo di fatto la scuola una sorta di job placement. Medesimo legame con l’autonomia differenziata è rintracciabile nel programma di potenziamento delle ITS Academy, le piccole Università della Confindustria, che dovrebbero rappresentare la prosecuzione del percorso di filiera, con un’istruzione post diploma funzionale alle esigenze dello specifico territorio e alla filosofia della differenziazione regionale.

Insomma, la politica scolastica corrente, espressamente tendente a subordinare l’istruzione e la formazione alle esigenze del mercato locale, si mette in linea con la regionalizzazione assecondando gli obiettivi del PNRR e gli indirizzi governativi.
Nella scuola si avvia quindi quel processo che abbiamo già visto verificarsi nella sanità, settore che ha fatto da apripista. Non bisogna infatti dimenticare che già nel 2017 il governo Gentiloni (anche questo di centrosinistra) anticipò di fatto l’autonomia differenziata stipulando intese con ben tre regioni, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, su alcune materie tra cui appunto la sanità, intensificando in questo ambito processi di privatizzazione che si sono rilevati deleteri in generale e tragici nella gestione della pandemia.

A tutto questo bisogna opporsi non per una fumosa e retorica difesa dell’unità nazionale, ma per contrastare in modo efficace l’inasprimento delle differenze e l’aumento della povertà dei territori, le diseguaglianze e le discriminazioni sociali, la frantumazione delle condizioni di vita e la difficoltà di coordinare lotte comuni.

Bisogna opporsi a partire dal basso, a partire dai luoghi di lavoro e dai contesti sociali dove più i problemi si fanno e si faranno sentire, senza affidarsi alla soluzione istituzionale, elettorale o parlamentare, senza affidarsi a quelle forze politiche e sindacali che ora vestono i panni dell’opposizione, ma che all’ombra di governi amici, nel 2001 e nel 2017 hanno aperto la porte all’autonomia differenziata, così come hanno sempre alimentato la misera filosofia che la sottende, quella che demonizza l’egualitarismo, visto come la mortificazione del merito e delle performance dettate dalla libera concorrenza. Una filosofia talmente misera e deleteria da soffocare gli stessi sostenitori: non è un mistero ad esempio che l’autonomia differenziata lasci perplesse alcune imprese sovraregionali, ad esempio nel settore trasporti, in cui le condizioni diverse da regione a regione possono costituire una difficoltà. Bisogna opporsi dal basso, con i nostri strumenti, perché il resto non funziona, è un inutile imbroglio. Recentemente è stato promosso, con oltre centomila firme a sostegno, un disegno di legge di iniziativa popolare che si proponeva di limitare le materie da regionalizzare: un’iniziativa che il Senato ha affossato calendarizzandone la discussione nel giorno successivo all’approvazione del ddl Calderoli e di fatto non discutendola. Da parte loro i promotori del referendum non si sono strappati i capelli più di tanto per questo giochetto previsto dalle istituzioni “democratiche e garanti”: il fronte dei promotori comprende infatti lo schieramento di centrosinistra che amministra alcune delle Regioni che richiedono a gran forza l’autonomia, come Toscana ed Emilia Romagna, che dalla regionalizzazione trarrebbero sicuramente vantaggio.

E allora liberiamoci di questa zavorra ipocrita e inutile, sgombriamo il campo per le iniziative di lotta efficaci, quelle in cui le lavoratrici e i lavoratori possano esprimere la loro protesta: scioperiamo e sosteniamo lo sciopero nella scuola il 9 maggio. Sosteniamo le concrete azioni di lotta che si oppongono all’autonomia differenziata e alle scellerate politiche del governo e dei padroni.

Patrizia Nesti

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