Viva il Primo maggio!

Un altro Primo maggio di guerra, morti e distruzioni alle porte di casa, una guerra che ci vede coinvolti, in barba alle solenni dichiarazioni della Costituzione ‘più bella del mondo’, con l’invio di armi pesanti, di munizioni e di quant’altro necessita per arricchire l’industria del massacro e per prolungarne i profitti.

Un altro Primo maggio senza che un movimento internazionale di lavoratori e lavoratrici sappia intervenire con forza sabotando le guerre in corso in Ucraina, in Sudan, in Palestina e nelle altre parti del mondo dove i conflitti armati continuano a seminare lutti.

Bloccare l’invio di armi, fermare le politiche di riarmo, arrestare la corsa a strumenti di morte sempre più devastanti, lottare per la riconversione delle fabbriche del massacro, sono ancora obiettivi purtroppo lontani dalla capacità complessiva del proletariato e delle sue organizzazioni.

Ma è anche un altro Primo maggio in cui si registra la ripresa, sia pure in chiave difensiva, di iniziative significative del mondo del lavoro. Gli innumerevoli scioperi che hanno attraversato l’Europa in questi ultimi mesi – dalla Francia a Gran Bretagna, Germania, Belgio, Portogallo, nei trasporti in Italia – sono la dimostrazione che la lotta di classe, se pure non è ancora in grado di costruire fronti internazionali contro la guerra – con l’eccezione della mobilitazione dei portuali contro le navi che trasportano armi – è viva.

L’aumento del divario sociale tra abbienti e meno abbienti, il peggioramento complessivo delle condizioni di vita delle popolazioni a fronte di un arricchimento vergognoso del pugno di paperoni che spadroneggiano nel mondo, accompagnato dall’affossamento del modello di Stato sociale con il quale si voleva integrare il proletariato nei meccanismi del capitale, sta aprendo ovunque delle prospettive di lotta pure in contesti inaspettati solo poco tempo fa.

Anche in Italia il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori sta dando segnali di ripresa nonostante le politiche di frammentazione e di precarizzazione che padronato, governo e i vertici del sindacalismo di Stato hanno perseguito negli anni per rompere la compattezza di un proletariato che aveva dato, in un passato neanche tanto remoto, tanto filo da torcere ai processi di accumulazione del capitale.

Certo è che la velocità di trasformazione dei modelli di produzione e di consumo impongono una continua attenzione ed una volontà di analisi se si vuole realmente incidere nei processi di cambiamento sociale.

Le nuove tecnologie digitali dell’automazione, l’emergere dell’intelligenza artificiale rappresentano un banco di prova al quale non si può sfuggire. E’ ormai chiaro che il cambiamento tecnologico implementato nel corso degli ultimi decenni, invece di apportare miglioramenti alla condizione lavorativa (come la riduzione dell’orario di lavoro) ha portato con sé un impoverimento complessivo del lavoro (aumento della sottoccupazione, della precarietà e della mobilità) che ha avuto dei riflessi evidenti in campo sociale. La creazione di ‘nuovi’ posti di lavoro, generato dalle tecnologie, non ha compensato nella stessa misura la perdita dei ‘vecchi’ che è aumentata in modo considerevole. In questa situazione di squilibrio il mantenimento delle condizioni contrattuali e dei livelli salariali precedenti non è stata più possibile generando non tanto processi di disoccupazione di massa quanto l’accettazione di condizioni di lavoro peggiori e salari sempre più bassi. In un contesto simile le morti e gli infortuni sul lavoro e da lavoro aumentano, come aumenta l’impoverimento complessivo del corpo sociale.

La deindustrializzazione che intere zone del territorio della penisola hanno registrato insieme alla finanziarizzazione speculativa dell’economia hanno fatto il resto.

Pensare ora di ritornare a quel modello riconvertendo e attrezzando tutto il mondo del lavoro alle capacità richieste dalle tecnologie digitali è sostanzialmente velleitario in quanto sarebbe del tutto insostenibile a causa di una sovrapproduzione che non troverebbe collocazione e che genererebbe a sua volta una situazione di stagnazione economica con prezzi bassi e profitti altrettanto bassi. L’illusione che la green economy possa rappresentare la via d’uscita della crisi che stiamo attraversando è appunto un’illusione perché non fa che riproporre gli stessi meccanismi e le stesse logiche. Nonostante questo, digitale e transizione ecologica sono i due comparti che da soli assorbono più della metà dell’importo complessivo del PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza al quale puntano con appetito famelico le varie consorterie politiche e padronali.

Comprimere i già bassi salari, tagliare i servizi sociali, incrementare la loro privatizzazione, è quanto si sta già perseguendo per mantenere alti i profitti.

E poi c’è la grossa occasione che offre la guerra. L’industria del massacro può fare da volano alla massimizzazione dei profitti con la riorganizzazione della produzione basata sull’innovazione, il rapporto con la ricerca, le università e con lo Stato che immette capitali nelle sue partecipate (Leonardo-Finmeccanica e Fincantieri) affinché a loro volta lo distribuiscano alle aziende private che operano nel ramo, aziende ad alto contenuto tecnologico, fiori all’occhiello di un capitalismo che scarica le produzioni poco redditizie sui paesi caratterizzati dal basso costo del lavoro e dallo sfruttamento intensivo, oltre che dal disinteresse totale nei confronti dell’inquinamento.

Nel periodo di crescita impetuosa dell’industria e parallelamente della classe operaia, il proletariato seppe ritrovarsi al di là di frontiere e nazioni dando vita all’Internazionale, individuando nell’unità di tuttə i lavoratori e le lavoratrici l’elemento trasformatore in grado di costruire una società senza classi basata sulla giustizia e la libertà, contro il capitalismo e gli Stati. Dopo l’esempio della Comune di Parigi furono le lotte del proletariato statunitense a costituire l’immaginario di un’umanità futura imponendo l’obiettivo della riduzione del tempo di lavoro e non la sua monetizzazione. Il Primo maggio nasce sull’onda di quelle lotte e del sacrificio dei Martiri di Chicago diventando un simbolo concreto dell’aspirazione ad una società mondiale di libere ed eguali.

Rivitalizzare oggi quel simbolo significa che a fronte di una ristrutturazione complessiva dell’organizzazione del lavoro bisogna puntare sul disfattismo nei confronti della guerra e degli eserciti, sulla ridistribuzione della ricchezza contro l’accaparramento delle risorse da parte dei ceti abbienti, sulla riduzione drastica dell’orario di lavoro in risposta al degrado delle condizioni lavorative, sulla radicale trasformazione della produzione per la sua riconversione in utile, sociale e sostenibile e soprattutto sul rilancio dell’organizzazione autonoma e autogestita delle lavoratrici e dei lavoratori.

Il Primo maggio ritorni ad essere la giornata di lotta internazionale per la liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato, contro tutte le guerre e le frontiere!

Massimo Varengo

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