Nel presentare la raccolta di schede di lettura ed altro dedicate al tema “Fantascienza ed Anarchia” nei due quaderni già usciti, io e Flavio Figliuolo scrivevamo che il fatto che la fantascienza “sia nata in contemporanea alla società industriale non è un fTTO CASUALE: PRIMA DEL xix secolo le opere narrative con un qualche vago sentore di somiglianza con il genere fantascientifico sono rarissime. In effetti, la specifica forma narrativa di ciò che chiamiamo “fantascienza” in senso stretto ha permesso e permette tutt’ora di rappresentare le potenzialità ed i timori degli uiomini di fronte a una situazione che modifica di continuo, in una maniera mai vista prima, le condizioni materiali di vita di ogni essere umano. Fino alla rivoluzione industriale, un essere umano non si apsettava per nulla, per quanto a lungo vivesse, di vedere modificarsi intorno a sé le condizioni strutturali dell’esistenza. A partire da essa, invece, la domanda su come si modificherà il contesto in cui vivremo, in che direzione, quanto, quante volte, diventa significativa e necessaria: la fantascienza è nata in base a questo stimolo e ha offerto un canale di risposte alle domande sul futuro dell’umanità”.
Di lì siamo partiti con un discorso analitico volto a “sostanziare la seguente tesi: se, come dicevamo all’inizio, la fantascienza rappresenta i timori e le speranze verso il futuro della società industriale, l’anarchia, allo stato attuale, rappresenta il lato della speranza.” – un modulo narrativo che prescindeva dall’appartenenza ideologica dei singoli autori. Ci si potrebbe aspettare il suo utilizzo da parte di scrittori più o meno simpatizzanti con l’ideologia anarchica, mentre, evidentemente, il modulo si sviluppava in romanzi scritti da autori marxisti, socialdemocratici, genericamente progressisti e persino di idee destrorse.
Dicevamo pure, però, che la visione del futuro dominante nella Fantascienza, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la coscienza delle capacità tecniche distruttive della tecnologia militare, la Guerra Fredda, i totalitarismi e quant’altro era decisamente molto più cupa. Ora, perciò, vorremmo provare ad aprire un altro versante di ricerca: se la divisione in classi della società, la gerarchia sociale, che conosciamo presente nella storia umana con tutto il suo corollario di miseria ed umiliazione ma, allo stesso tempo, sappiamo foriera di rivolte contro lo stato di cose presente, come viene immaginata nel futuro escludendo la possibilità che essa abbia dato origine al principio speranza, ad una società senza classi e senza Stato?
La nostra ricerca riparte allora, paradossalmente, proprio dal romanzo in cui il principio speranza si è incarnato per definizione: il capolavoro della compagna Ursula Kroeber Le Guin Quelli di Anarres, forse la più bella utopia anarchica mai scritta. Non si tratta di un paradosso: nel romanzo il pianeta Anarres – dove vige l’utopia anarcocomunista – orbita intorno ad Urras – dove vige il capitalismo, liberale o di Stato e dove il protagonista, il geniale fisico anarresiano Shevek, scopre sotto le apparenze della vita dorata che gli è stata riservata il feroce conflitto di classe che pervade la società che lo ha accolto. Parleremo qui allora, a differenza della prima volta, di Urras e non di Anarres.
In effetti, anche in questo l’Utopia della Le Guin, come recita il sottotitolo, è “ambigua”, in quanto i due mondi – uno in cui si sviluppa il modulo narrativo del “principio speranza” dell’anarchia, l’altro dove il dominio dell’uomo sull’uomo continua a sussistere e minacciare di estinzione l’intera razza umana – orbitano l’uno intorno all’altro e coesistono nella struttura narrativa, che alterna un capitolo su di un pianeta ed uno sull’altro, fino alla convergenza temporale nel capitolo finale che si svolge sull’astronave nello spazio tra i due pianeti nel ritorno ad Anarres di Shevek.
Shevek giunge ad Urras ed immediatamente si cerca di inquadrarlo all’interno del sistema gerarchico del pianeta. Su Anarres, nella sua società anarcocomunista, egli era immerso in una rete di relazioni sociali paritarie: certo, si sapeva della sua genialità, ma questa, di là dell’ammirazione che poteva regalargli, non gli dava alcun privilegio, doveva svolgere i suoi turni di lavoro manuale come tutti gli altri e, come chiunque sul pianeta, aveva accesso gratuito ma controllato[1] ai beni e servizi collettivamente prodotti. Di fronte poi ad un’emergenza climatica che porta una carestia su Anarres, dovrà anche completamente abbandonare per lunghi mesi l’attività accademica per partecipare allo sforzo collettivo. Ora, invece, per la prima volta, si ritrova ad avere a che fare con un servitore – il cameriere che è a sua disposizione nella lussuosa foresteria in cui è ospitato.
“Entrò un uomo, portando sulle braccia vari pacchetti. Si arrestò non appena varcata la soglia. Shevek attraversò la stanza in direzione del nuovo venuto, e pronunciò il proprio nome, secondo il costume anarresiano; insieme, secondo il costume urrasiano, tese la mano.
L’uomo (…) non strinse la mano che gli veniva offerta. Forse erano i pacchetti a impedirglielo, ma egli non fece mossa di spostarli per liberarsi la mano. Il suo viso aveva un’espressione estremamente seria. Era possibile che fosse in imbarazzo.
Shevek, che era certo di avere imparato i modi di salutare degli urrasiani, era sconcertato. — Venga avanti — ripeté, e quindi aggiunse, dato che gli urrasiani erano avvezzi a usare titoli ad ogni piè sospinto: — Signore!
L’uomo (…) scivolò verso la camera da letto. (…) Forse si trattava di un compagno di stanza? Ma c’era un letto solo. (…) Shevek lo sentì muoversi lì dentro ancora per alcuni minuti. Proprio mentre Shevek era giunto alla conclusione che si trattava di qualche lavoratore che faceva il turno di notte e che usava quella stanza durante il giorno, come a volte si faceva in caso di temporanei sovraffollamenti dei domicili, l’uomo riapparve dalla stanza. Disse qualche parola («Ecco fatto, signore», forse?) e piegò la testa in un modo alquanto bizzarro, come se credesse che Shevek, che distava da lui almeno cinque metri, stesse per dargli un pugno in faccia. Poi se ne andò. Shevek rimase fermo accanto alla finestra, intento a comprendere lentamente come per la prima volta qualcuno gli avesse rivolto un inchino. Entrò nella camera da letto e scoprì che il letto era stato rifatto.”[2]
Partendo da questo primo incontro, Shevek comprende gradatamente la rete di feroci relazioni gerarchiche che permettono la sua vita, relativamente lussuosa, e quella delle persone con cui è entrato in contatti a spese della miseria e dell’umiliazione della stragrande maggioranza delle persone di Urras – della Urras capitalistico-liberale così come della Urras a capitalismo di Stato. Il cameriere, Efor, con cui ha gradatamente costruito una relazione umana che andasse oltre la relazione gerarchica, sarà anche il tramite con cui entrerà in contatto con lo scontro di classe presente sul pianeta.
“— Diverso da tutto questo, il posto da dove viene lei, no? — disse Efor.
— Molto diverso.
— Nessuno è mai senza lavoro, lassù.
C’era un debole tono d’ironia, o forse di domanda, nella sua voce.
— No.
— E nessuno ha fame?
— Nessuno ha fame mentre un altro mangia. (…)
Non è tutto… tutto latte e miele su Anarres, Efor.
— Non ne dubito affatto, signore — disse Efor, con uno dei suoi bizzarri ritorni alla forma elegante. Poi disse con una smorfia, mostrando i denti: — Comunque, laggiù non c’è nessuno di loro!
— Loro?
— Sì, signor Shevek. Quelli che lei ha nominato una volta. I padroni.”[3]
“Shevek prese un altro pezzo di carta dalla tasca e la mostrò a Efor. — Sai da dove provenga?
Era il messaggio che aveva trovato nel soprabito: «Unisciti a noi tuoi fratelli.»
(…) Efor disse: — Non so da dove proviene. (…)
— No, so da chi viene. In un certo senso.
— Chi? Come posso raggiungerli? (…)
— Senta, signor Shevek, Dio sa come la vogliono, come abbiamo bisogno di lei, ma senta, lei non ha idea di come sia. (…) Non so cosa dirle. Darle dei nomi, sicuro. Chieda a qualsiasi Niota, le dirà dove andare. Ne abbiamo abbastanza. Dobbiamo avere un po’ d’aria da respirare. Ma se la prendono, la fucilano, come mi sento? Lavoro per lei da otto mesi, sono arrivato ad amarla. Ad ammirarla. Vengono da me tutti i momenti. Io dico: «No. Lasciatelo stare. Una brava persona, non c’entra coi nostri guai. Lasciatelo tornare da dove viene dove la gente è libera. Lasciate che qualcuno sia libero da questa prigione maledetta da Dio dove viviamo!».
— Non posso tornare. Non ancora. Voglio incontrare queste persone.
Efor rimase in silenzio. Forse fu l’abitudine di tutta una vita come servitore, come uno che obbedisce, a farlo annuire, infine, e dire, bisbigliando: — Tuio Maedda, quello che cercate. Strada dei Giochi, nella Città Vecchia. La drogheria.”[4]
Shevek scappa – la sua di fatto è una prigionia dorata – e fa così conoscenza con i sindacati anarchici clandestini che stanno organizzando uno sciopero e che gli raccontano della miseria e dell’umiliazione continua su cui si basa la minoritaria società opulenta in mezzo alla quale è vissuto finora. Egli partecipa alla manifestazione e questo è il suo comizio anarchico, intessuto di echi camusiani e leopardiani:
“— È la nostra sofferenza che ci porta insieme. (…) Siamo fratelli in ciò che condividiamo. Nel dolore, che ciascuno di noi deve soffrire da solo, nella fame, nella povertà, nella speranza, conosciamo la nostra fratellanza. (…) Sappiamo che il solo aiuto per noi è quello che ci diamo reciprocamente, che nessuna mano ci salverà se non tenderemo la mano. E la mano che voi tendete è vuota, come la mia. Voi non avete nulla. Voi non possedete nulla. Voi non siete proprietari di nulla. Voi siete liberi. Tutto ciò che avete è ciò che siete, e ciò che date. (…) [Su Anarres] non abbiamo altro che la nostra libertà. Noi non abbiamo altro da darvi che la vostra libertà. Noi non abbiamo altra legge che il singolo principio dell’aiuto reciproco tra individui. Non abbiamo altro governo che il singolo principio della libera associazione. Non abbiamo stati, non abbiamo nazioni, presidenti, capi del governo, capi militari, generali, principali, banchieri, padroni di casa, non abbiamo salari, ospizi, polizia, soldati, guerre. E le cose che abbiamo non sono molte. Siamo compartecipanti, e non proprietari. Non siamo prosperi. Nessuno di noi è ricco. Nessuno di noi ha potere. Se è Anarres ciò che volete, se Anarres è il futuro che cercate, allora vi dirò che dovete accostarvi ad esso con mani vuote. Dovete raggiungerlo da soli, e nudi, come il bambino giunge nel mondo, nel futuro, senza alcun passato, senza alcuna proprietà, dipendente in tutto da altri per la sua vita. Non potete prendere ciò che non avete dato, e dovete dare voi stessi. Non potete comprare la Rivoluzione. Non potete fare la Rivoluzione. Potete soltanto essere la Rivoluzione. È nel vostro spirito, oppure non è in alcun luogo.»[5]
La manifestazione è repressa nel sangue e Shevek, fortunosamente scampato alla repressione, rientrerà su Anarres: nel viaggio di ritorno riuscirà a donare il suo sapere al mondo, quello che su Urras cercavano continuamente di appropriarsi privatamente, senza contropartita.
All’interno del grande affresco della Le Guin, la lotta di classe di questi mondi futuri è una evidente metafora del presente: scritto nella prima metà degli anni ’70, rispecchia sostanzialmente le dinamiche della guerra fredda. Nel romanzo, la lotta di classe è stata la levatrice del mondo di Anarres ed è la speranza delle masse del mondo di Urras: le società sono descritte, dal punto di vista tecnologico, non molto avanzate rispetto agli anni in cui il testo compare e questo rende la metafora ancor più evidente. Il “principio Speranza” dell’anarchia qui è fortemente presente e collegato platealmente allo scontro di classe ed alle sue dinamiche. In altri momenti della storia del genere, la sua assenza renderà le atmosfere molto più cupe.
Enrico Voccia
NOTE
[1] David Graeber, nel suo Sulle Macchine Volanti e la Caduta Tendenziale del Saggio di Profitto (Quaderno di Umanità Nova n.6), fa notare, tra le altre cose, come la Fantascienza non avesse previsto la rete Internet. Il testo della Le Guin è una delle poche eccezioni: il comunismo anarchico che vige su Anarres è regolato da una rete di computer che, basandosi sui consumi individuali, ad esempio sapendo che il protagonista ed altri si sono recati in una determinato ristorante, ricolloca le risorse per evitare sprechi, indirizzando in maniera ottimale trasporti delle merci materiali e collocazione degli addetti ai servizi.
[2] LE GUIN, Ursula Kroeber, Quelli di Anarres. Un’Ambigua Utopia, op. cit., pp. 57-58.
[3] LE GUIN, Ursula Kroeber, Quelli di Anarres. Un’Ambigua Utopia, op. cit., p. 246.
[4] LE GUIN, Ursula Kroeber, Quelli di Anarres. Un’Ambigua Utopia, op. cit., pp. 248-249.
[5] LE GUIN, Ursula Kroeber, Quelli di Anarres. Un’Ambigua Utopia, op. cit., pp. 258-259.