Bloccare il militarismo
Il 24 febbraio è il secondo anniversario dell’aggressione russa all’Ucraina.
Due anni di guerra che hanno visto governi italiani di diverso colore impegnati in modo crescente nella guerra. L’Italia ha versato 11 miliardi di euro all’Ucraina, stando ai dati aggiornati al 31 ottobre 2023 dell’Institute for the World Economy di Kiel. Si tratta in piccola parte di contributi diretti e in gran parte (oltre 9 miliardi) di contributi al “Fondo europeo per la pace” attraverso cui l’Unione Europea finanzia la guerra in Ucraina. A questi sono da aggiungere le missioni militari in Europa Orientale, a sostegno dei governi autoritari che controllano l’area.
Dopo centinaia di migliaia di morti da ambo le parti, immani distruzioni e risorse sperperate nell’inutile strage, sembra che le cancellerie si siano rese conto dell’inutilità del conflitto e siano orientate verso una tregua che sancisca l’impossibilità per l’Ucraina di riconquistare le province ribellatesi nel 2014. Il piano dell’imperialismo angloamericano, dei suoi alleati europei e dei suoi manutengoli ucraini di superare con le armi l’accordo di Minsk si è rivelato fallimentare. A due anni di distanza dall’inizio della guerra e in vista di una tregua che appare giorno dopo giorno sempre più ragionevole, la politica delle sanzioni appare come un ennesimo attacco delle oligarchie europee alle condizioni dei ceti popolari.
L’unico che a questo punto può sostenere di aver ottenuto dei risultati è il Regno Unito. Anche se il bersaglio grosso sarà probabilmente mancato, la restituzione all’Ucraina della Crimea e il confinamento in un angolo della flotta russa del Mar Nero, la perfida Albione può mettere al proprio attivo l’ingresso nella NATO di Svezia e Finlandia, ingresso che rafforza il controllo della NATO sull’Unione Europea e, attraverso la politica delle sanzioni, l’allargamento del fossato fra Germania e Federazione Russa, che ha avuto come risultato l’entrata in recessione dell’economia tedesca.
Questi due anni di guerra sono iniziati sì con l’aggressione della Federazione Russa, ma sono stati provocati dall’azione di delegittimazione occidentale degli accordi di Minsk: l’imperialismo angloamericano ha la responsabilità della destabilizzazione della situazione internazionale.
Questo si vede con maggior chiarezza in Palestina: dal 1967 i governi di Israele che si sono succeduti, appoggiati dalle varie amministrazioni USA, si sono rifiutati di applicare le risoluzioni dell’ONU per il ritiro dai territori occupati. Accanto al dramma della pulizia etnica, della repressione, della guerra strisciante od aperta subite dai palestinesi si aggiunge il tentativo di discreditare l’ONU, un’organizzazione internazionale in cui gli stati alleati dell’imperialismo angloamericano sono in minoranza, e che si è dimostrata non sufficientemente pronta ad adattarsi ai diktat di Londra o di Washington. Questo attacco alle Nazioni Unite si è manifestato recentemente con il blocco dei finanziamenti occidentali all’agenzia ONU per i rifugiati, una decisione che dà un’altra stretta al cappio messo al collo dei palestinesi di Gaza.
Anche in questo caso il governo italiano è protagonista: ci sono missioni militari italiane nell’area, mentre anche la Meloni ha bloccato i sussidi all’UNRWA. A questo si aggiunge la partecipazione, con un ruolo di primo piano, alla missione UE del Mar Rosso. In articoli pubblicati sui numeri precedenti di Umanità Nova abbiamo messo in luce le responsabilità occidentali nella situazione in Yemen.
Che cosa accomuna Ucraina e Palestina? L’idea democratica di popoli vittime di aggressione è suggestiva e risponde anche ad un primo sentimento di solidarietà. Il primo passo di un’azione antimilitarista è la critica della narrazione con cui il militarismo giustifica la guerra, definita “giusta” di fronte all’aggressione ad un popolo, oppure di fronte ad un atto definito di terrorismo, oppure alla minaccia alla libertà dei traffici. Se però usciamo da una visione centrata sulle due rive dell’Atlantico e consideriamo quanto avviene nel mondo, a partire dall’America Latina, passando per l’Africa e arrivando in Asia vediamo che le guerre sono molto di più e che hanno la caratteristica comune di essere guerre contro i ceti popolari. Che si parli di guerra al narcotraffico, di guerra al terrorismo o di guerra alla pirateria le vittime sono i ceti più poveri della popolazione, contadini, pescatori, operai, disoccupati comunque relegati ai margini della società opulenta. Anche la guerra fra potenze si traduce in una guerra contro il proletariato, una guerra fatta di disciplinamento, rappresaglie, allungamento dell’orario di lavoro e taglio dei salari, fino alla violenza di chi vuole farsi complice della guerra.
In una situazione del genere non è di alcuna utilità schierarsi con l’uno o con l’altro dei contendenti: per gli ucraini come per i russi il nemico marcia alla loro testa, e lo stesso ragionamento può essere fatto per la Palestina.
Non esiste alcun concerto delle nazioni, alcuna comunità internazionale che può giudicare o fermare la guerra. Ogni governo vuole primeggiare sul vicino, ogni governo riversa su un nemico esterno le contraddizioni di classe che non è capace di risolvere. Quindi ogni governo marcia verso la guerra. Spetta agli antimilitaristi, ai rivoluzionari, ai proletari mettersi in mezzo, che è l’unica strada per fermare la guerra. Sostenere chi non vuole combattere, i disertori, bloccare la costruzione di nuove basi e nuove armi, protestare, scioperare contro gli stanziamenti per la guerra.
La guerra si ferma anche rifiutandosi di fare la guardia al bidone di benzina, la guerra si ferma a partire dal 24 febbraio.
Tiziano Antonelli