Sport e boicottaggi. Il caso della squadra ciclistica di Israele

Gli statuti delle organizzazioni sportive sia a livello internazionale (CIO, Comitato Olimpico Internazionale, FIFA, calcio, UCI, ciclismo, ecc.) che nazionale parlano tutti di “apoliticità” della loro azione al fine di preservare le loro condotte da strumentalizzazioni politiche. In realtà si tratta di una finzione retorica assolutamente priva di fondamento.

D’altra parte il padre dello “spirito olimpico”, il francese De Coubertain, accompagnava i discorsi sull’internazionalismo e sul carattere pacifico delle competizioni sportive con quelli che vedevano la pratica sportiva come rigeneratrice della “razza” francese. Pochi ricordano che nel 1920 l’inventore delle moderne Olimpiadi dichiarò in una intervista che: “L’atleta moderno esalta la sua patria, la sua razza, la sua bandiera”.

Lo sport e la politica sono dunque intrecciati e non potrebbe essere diversamente.

La storia è piena di regimi che hanno sfruttato le manifestazioni sportive per i loro interessi. Si cominciò nel 1934, quando Mussolini dipinse la vittoria italiana ai mondiali di calcio come un successo personale e si proseguì in grande stile con le olimpiadi del 1936 nella Berlino nazista. Ma non si è più smesso, naturalmente con intensità diverse ma sempre con la finalità di utilizzare lo sport a fini propagandistici. Oggi i grandi eventi sportivi – Olimpiadi e Mondiali di calcio soprattutto ma non solo – sono affidati spesso a nazioni e regimi che li comprano (perché di questo si tratta) da CIO e FIFA per lanciare il loro progetto turistico oppure per “ripulire” la loro immagine internazionale macchiata da guerre o da un trattamento “disinvolto” dei diritti civili. Ma questo vale per tutti gli sport: nel 2025, per esempio, i mondiali di ciclismo si sono svolti per la prima volta in Africa, organizzati dal regime ruandese di Paul Kagame, autoritario in patria e largamente coinvolto nella guerra civile che infiamma la Repubblica democratica del Congo.

Naturalmente fin da subito non sono mancati i boicottaggi dei grandi eventi sportivi. Si tratta di un fenomeno dalla doppia faccia. Da una parte i “boicottaggi diplomatici”, cioè quelli decisi dagli Stati per danneggiarne altri. Tipico esempio: il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca 1980 deciso dagli Stati Uniti e da 54 loro alleati per “protestare” contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, a cui seguì la ritorsione in occasione dei giochi di Los Angeles 1984 a cui non parteciparono l’URSS e 14 suoi alleati. Ci sono stati però anche “boicottaggi sociali” cioè quelli nati per danneggiare regimi dittatoriali e razzisti. Il primo esempio è stato quello, per altro fallito, contro i giochi di Berlino ’36, seguito dalla campagna contro il Sud Africa dell’apartheid culminata nel boicottaggio di 22 paesi africani alle Olimpiadi di Montreal 1976 per protesta contro la partecipazione della Nuova Zelanda che continuava ad avere rapporti con il Sud Africa nel rugby, per altro sport non olimpico.

Un inciso: la campagna contro il Sud Africa ebbe in Italia una vasta eco, tanto che all’inizio degli anni ’70 il movimento antirazzista riuscì ad impedire che la nazionale sudafricana di rugby compisse una tournee in Italia.

Solitamente il mondo dello sport, fatto di dirigenti e atleti che di sport vivono, risponde alle campagne di boicottaggio con il rituale “vorrei ma non posso”.

Ma ci sono per fortuna le eccezioni.

Il caso della squadra ciclistica “Israel Premier Tech” è sintomatico e merita un approfondimento.

Nata nel 2015 per volontà del magnate canadese ma con passaporto anche israeliano Sylvan Adams, la squadra è cresciuta negli anni grazie all’ingaggio di corridori sempre più forti. Attualmente si trova fra le prime 20 squadre della classifica UCI.

In passato Adams si è più volte vantato di essere un grande amico del criminale di guerra Netanyahu e, anche se non è dimostrato che lo stato di Israele abbia direttamente finanziato la squadra, è sempre parso chiaro che la “Israel” fosse un modo per mostrare un’immagine pulita e accattivante del regime israeliano. Queste azioni sono ormai definite con il termine “sportswashing”.

La presenza della squadra israeliana ha provocato nel 2025 diverse manifestazioni di protesta già durante il Giro d’Italia (molti arrivi di tappa erano tappezzati di bandiere palestinesi) e il Tour de France. Alla Vuelta Espana, la terza grande corsa a tappe, la protesta dei manifestanti “propal” ha però raggiunto il suo apice.

Il ciclismo non è facilmente controllabile perché si corre in mezzo alla gente e non in uno spazio chiuso come stadi, palazzetti, palestre. La stupidità degli organizzatori della Vuelta, che invece di aprire un dialogo con i manifestanti hanno scelto la linea della chiusura e del “muro contro muro”, ha finito per provocare incidenti (alcune volte anche con il rischio di far cadere i ciclisti) fino alla sospensione dell’ultima tappa a Madrid.

Le proteste dei “propal” e il pericolo che le manifestazioni organizzate lungo il percorso del Giro dell’Emilia, corso il 4 ottobre, potessero coinvolgere i corridori hanno spinto gli organizzatori a non invitare la “Israel”. La squadra ha di sua iniziativa rinunciato a partecipare alle altre corse in programma in Italia a ottobre.

Intanto però era avvenuto un fatto nuovo: uno dei corridori più forti e conosciuti della “Israel”, il canadese Derek Gee, quarto al Giro d’Italia, aveva annunciato di aver rescisso il contratto con la squadra di Adams per “giusta causa”: “motivi etici” gli impedivano di continuare a correre con il team. In precedenza un altro noto corridore della “Israel”, il danese Fulgsang, aveva dichiarato che lasciava il ciclismo e che finalmente non si sentiva più addosso il peso del nome della sua squadra. Fulgsang avrebbe egualmente chiuso con il ciclismo, però le sue dichiarazioni non erano banali.

Il 6 ottobre la “Israel” fa un annuncio clamoroso: dal 2026 la squadra cambierà proprietà (Adams si dedicherà al Congresso mondiale ebraico) e denominazione, affiliandosi in un altro paese ma mantenendo la canadese Premier Tech come sponsor.

Il ciclismo dunque elimina di fatto Israele dalle sue corse. Lo “sportswashing” tanto caro a Netanyahu e ai suoi complici è fallito!

Si tratta del risultato più tangibile della campagna di boicottaggio sportivo contro Israele. Non un traguardo, ma una tappa importante a cui è auspicabile che altri sport si allineino.

Numa

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