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Pugni chiusi

Pugni chiusi

G. Sacchetti, Pugni chiusi. Storia transnazionale di un Sessantotto di periferia. Gauchisme, controculture e rivolta giovanile in provincia di Arezzo (1968-1977), prefazione di Claudia e Silvia Pinelli, introduzione di Paolo Brogi, Firenze, Aska edizioni, 2018, pp. 368 + ill., euro 20=

Nous l’avons tant aimée, la Révolution” era il titolo di un vecchio reportage televisivo del 1986 curato da Dany Cohn-Bendit per FR 3, nel quale si indagavano le mille evoluzioni dei contestatori provenienti dal crogiuolo (qualcuno direbbe caravanserraglio) degli anni Sessanta: Hippy, Pantere Nere, Femministe, Provos, Brigate Rosse, guerriglieri dell’America Latina. In tal modo, attraverso la storia di ciascuno si cercava di comprendere in che maniera quella generazione avesse creduto di cambiare, radicalmente e da subito, l’ordine stabilito delle cose. Il documentario, molto interessante nella sua articolazione di interviste e testimonianze, tuttavia non riuscì comunque a dare una esaustiva ed univoca risposta a quella curiosa domanda. Ma a distanza di mezzo secolo da quell’evento così rivoluzionario non interessa più sapere quali trasformazioni abbiano compiuto i protagonisti di allora. Perché lo sappiamo benissimo, oppure ce lo possiamo immaginare. Meglio allora concentrarsi sulle conseguenze di lungo periodo di quel lontano “battito d’ali”. Conseguenze che non sono poi davvero poche.

In merito a questo libro, la prima questione, meramente tecnica ma forse la più vistosa, riguarda metodologia e approcci seguiti su un tema così epocale e le coordinate spazio-temporali adottate. Mentre il titolo del volume richiama i Pugni chiusi nella suggestiva, indimenticabile, interpretazione (1967) del front man dei Ribelli Demetrio Stratos e, nel contempo rimanda ai “pugni chiusi” delle lotte operaie e studentesche, il sottotitolo “Storia transnazionale di un Sessantotto di periferia” dichiara con esattezza le intenzioni dell’autore, pur senza enfatizzare i luoghi geografici di riferimento. Ciò vorrebbe significare l’aspetto paradigmatico, e appunto transnazionale, degli eventi anche “periferici” – quelli che sono raccontati in queste pagine – di una rivoluzione che è stata comunque globale e prolungata. Cioè translocale e ricca di prodromi come di effetti tardivi. È vero però che i/le protagonisti/e, così come gli autori di queste pagine, hanno spesso respirato la medesima aria, si sono talvolta nutriti del medesimo humus, sono tutti originari, più o meno, delle medesime lande e degli stessi borghi. Che, senza meno, sono a loro volta collocati all’interno dei confini amministrativi di una ben determinata provincia italiana, quella di Arezzo (sud-est della Toscana); aspetto questo non indifferente ma, di sicuro, non basilare ai fini del focus della ricerca. I contesti, infatti, insieme al “paesaggio” – inteso quest’ultimo nel senso antropologico culturale del termine – sono di fatto e soprattutto si presentano, nell’ambito della narrazione, come assolutamente “globalizzati” e dotati di una sorprendente ubiquità planetaria. Insomma i processi politici, culturali e socio-economici che si riscontrano nelle varie scale di grandezza risultano sempre intimamente connessi.

E qualcosa rimane (tra le pagine chiare)… questo è poco ma sicuro. Così, fra le centinaia di tipi e caratteri che popolano queste pagine, in fondo a quelle anime inquiete occultate da vestiti di foggia British o californiana, dietro gli sgangherati linguaggi para-marxisti o situazionisti, non sarà difficile scorgere elementi ancora persistenti e tipi di forma mentis riconducibili ad un’atavica toscanità. Ma, insieme a questo, a determinare le identità giovanili di quegli anni hanno contribuito anche altri fattori non territoriali come la specifica matrice sociale di provenienza, oppure come le subculture politiche prevalenti in famiglia. Al di qua e al di là degli oceani, oppure delle cortine di ferro, si cantavano le stesse canzoni, si ascoltava la stessa musica. È stato il primo evento simultaneo della storia, che ha coinvolto e sconvolto gli assetti di potere politico e sociale ai quattro angoli del mondo.

Il concetto di generazione, sebbene inesistente in termini giuridici o di anagrafe, si materializza storiograficamente in questo caso e riunisce – con modalità originali e “polifoniche”, come è successo poche altre volte nella Storia – sogni, emozioni e desideri di ragazzi e ragazze nati nell’immediato secondo dopoguerra. Le cesure temporali utilizzate sono quelle oramai divenute usuali, cioè il 1968-1977. Tuttavia si è scavato anche nelle interessanti anticipazioni, negli eventi premonitori, arretrando addirittura fino agli anni Cinquanta.

Non ci si è limitati ad elencare i fatti, ma si è cercato di dare loro una forma significante attraverso un vero e proprio montaggio. Il libro è così strutturato in tre capitoli (Contesti, Mappe, Cronologie), a cui seguono due ricche sezioni (Documenti, Memorie) e un’articolata Appendice (Biografie, Bibliografia e fonti, Galleria fotografica, Indice dei nomi). Se nel primo capitolo si incrociano le dimensioni micro e macro e i contesti “locali” con quelli nazionali e globali, nel secondo – con lo stesso metodo – si delinea una mappa del “gauchisme” sessantottino, ossia una geopolitica dei movimenti. Nel terzo infine sono esemplificate, in comparazione, cronologie di natura completamente diversa: una dedicata al triennio rosso 1967-1969 in chiave locale; l’altra sulle origini globali e lontane del Sessantotto, rinvenute per tracce in quell’inedito e “incredibile miscuglio” antropologico culturale (e contestativo) che aveva già preso forma nel dopoguerra. Alla sezione documentaria, piccola raccolta di articoli consacrata in parte ai ricordi, segue la corposa e variegata sezione delle memorie individuali, vero fiore all’occhiello di questo lavoro collettivo. Stefano Beccastrini, Arlo Bigazzi, Giampiero Bigazzi, Enzo Brogi, Giovanni CaG.S.rdinali, Attilio Ferrini, Iacopo Maccioni, Marco Noferi, Dante Priore, Sergio Traquandi ne sono gli autorevoli contributors. Il loro vissuto esperienziale, i racconti intimi, fatti, persone, relazioni si dipanano in una narrazione eccezionale, molto diversificata. Ciò che essi ci trasmettono non è solo fonte e memoria utile alla mera ricostruzione storica di certi avvenimenti in differenti ottiche e dimensioni spaziali, ma è anche affresco e raffigurazione di un’epoca caratterizzata da una incipiente frattura tra desideri e aspettative. Scritture gradevoli, talvolta amare e graffianti, talvolta scanzonate e ironiche, oppure cariche di dolore, amore e poesia ci accompagnano in itinerari impensati dentro uno scenario globale e temporalmente molto esteso – quello del Sessantotto – dove non esistono più né centro né periferie. Si rafforza così l’idea che proprio le emozioni possano costituire, insieme alla dimensione culturale, un prisma di lettura essenziale per la comprensione della comunicazione politica contemporanea, per l’incremento del “cassetto degli attrezzi” utili al mestiere di storico.

Le fonti utilizzate per questo lavoro coprono un ampio spettro di tipologie, così come si può dedurre dall’elenco riportato in appendice. Quelle orali hanno poi svolto, insieme alle testimonianze in forma scritta, una funzione di assoluto rilievo. Ciò in quanto le memorie individuali e collettive, con le loro rievocazioni discorsive e con gli elementi simbolici che propongono, si configurano ormai come strumenti indispensabili per una ricostruzione narrativa della Storia (anche socioculturale) in termini di disciplina critica. Perché si sono intesi i racconti soggettivi e le storie di vita come degne di accedere nel novero ufficiale degli strumenti di conoscenza sul Novecento. Militanza e idealismo, rappresentazione e autorappresentazione, memoria e ricordo, silenzi e oblii sono qui mostrati nelle loro articolazioni reali. Si sono inoltre valorizzati i materiali d’archivio, sia quelli di movimento che le collezioni private (ricchissime!). Si tratta di quantità incredibili di documenti, che si presentano sotto varia forma, che sono inerenti gli avvenimenti politici, sociali, giudiziari dagli anni Sessanta in poi. Data la vastità dell’argomento, tenendo appunto conto di quanto è stato ciclostilato, stampato, serigrafato nel corso di un paio di decenni dai piccoli gruppi della dissidenza di sinistra, nell’ambito dei movimenti sociali e della ribellione giovanile; considerando che si tratta di fondi generalmente non reperibili presso le canoniche “strutture della memoria”, risulta evidente il valore archivistico e di vero e proprio bene culturale delle fonti adoperate. Insieme ai volantini e ai ciclostilati si sono inoltre ampiamente compulsate le riviste e i giornali gauchisti di allora.

Riemerge così una cultura antagonista dimenticata focalizzata non tanto su un anno solare, il 1968, ma che considera l’onda lunga tipicamente italiana: dal Sessantotto studentesco all’autunno caldo operaio, dalle controculture alla genesi della sinistraG.S. rivoluzionaria, dal cattolicesimo dissidente ai movimenti del Settantasette… Si è insomma qui ricostruita una mappa, la geografia politica di un movimento che è stato globale e locale al tempo stesso. E si è aperto un cantiere di ricerca che si rivela ricco di suggestioni.

Il generale De Gaulle diede del Maggio ’68, mentre peraltro gli eventi erano in corso nella sua Parigi, una definizione sprezzante ma per certi versi pop – “chienlit” disse –, che gli autori di queste pagine, se mai si potesse, vorrebbero respingere al mittente. Mais no, Monsieur le Président! Quel Maggio ebbe durevoli effetti e conseguenze ben più estese e complicate che una imprevista quanto inopportuna “cacata a letto”. La protesta studentesca sarà pure stata una baraonda architettata dai figli annoiati della borghesia, ma si è di fatto presentata sullo scenario del secondo Novecento come un impetuoso fiume carsico, pronto a riemergere dopo prolungati e inestricabili percorsi sotterranei. Contro una società normata, gerarchica e ipocrita, il movimento, pur destinato a una cocente e quasi immediata sconfitta politica, ha conseguito con successo l’obiettivo di disattivare almeno i dispositivi autoritari più odiosi. Ha cambiato i rapporti tra potere e società civile; ha realizzato sociologicamente l’entropia, ossia ha attivato quella subdola tendenza progressiva a livellare / annullare le articolazioni di comando interne al sistema. Insomma un iniziale, quasi insignificante, battito d’ali di farfalla avrebbe innescato, al solito, un poderoso processo storico.

Facendo caso alla table de matières approntata, alla distribuzione degli spazi tematici nell’economia della ricerca, si potrebbe pensare ad una sottovalutazione di quegli argomenti che, in genere, sono al contrario considerati “dirompenti” nella vulgata mainstream sul Sessantotto, come il terrorismo e la droga. Da notare, di passata, che mentre le pratiche terroristiche furono appannaggio di sparute minoranze, il flagello delle tossicodipendenze è stato devastante sotto tutti i punti di vista. In realtà questi temi così drammatici e reali per quella generazione, sono presenti in filigrana in queste pagine. Perché si è comunque cercato il nesso tra nuovi linguaggi e violenza politica, perché si è voluto capire come mai “ci siamo incattiviti dopo Piazza Fontana”. Perché, sulla droga, abbiamo tentato di comprendere le ragioni di tante, troppe, brucianti sconfitte esistenziali ricordando almeno, con affetto e delicatezza, i “compagni caduti” in perfetta solitudine e alla fine di un sogno. Altra questione che potrebbe sembrare sottostimata, e quasi trascurata, è quella di genere. In realtà qui c’è un problemino di metodo. Allo stato degli studi non sussiste una perfetta coincidenza temporale tra l’insorgere del movimento del Sessantotto e di quelli ispirati al femminismo. Piuttosto pare evidente affermare che i secondi non siano altro che il prodotto successivo delle contraddizioni del primo (contraddizioni evidenziate ad esempio da un certo diffuso machismo e dalla stessa ideologia della militanza). Contro quel tipo di gauchisme, da “militonti” si diceva nel 1977, la critica femminista fu impietosa, fino a far implodere i gruppi politici (e anche qualche coppia affiatata!). Se gli slogan famosi di Nanterre “Le droit bourgeois est la vaseline, ecc. ecc.”, così come quelli nostrani, tipo “Vietcong vince perché spara”, o “Panettoni di sangue ad Avola” letti sui muri di qualche fabbrica o chiesa, o scuola, ci fanno oggi tenerezza; pensiamo,comunque, che si possa ancora amare la Rivoluzione. Diffidando però – orwellianamente – dei rivoluzionari.

G.S.

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