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Per un primo maggio internazionalista

Per un primo maggio internazionalista

Lottare contro povertà e guerre per un altro mondo

L’attuale ondata di aumenti massicci dei prezzi colpisce soprattutto le persone più povere e vulnerabili: chi ha una retribuzione bassa o un contratto precario, chi percepisce sussidi, chi soffre di malattie e disabilità. L’inflazione, ai massimi da trent’anni a questa parte, erode i risparmi e gli stipendi anche di chi ha un posto decente. Non è finita: l’aumento continuo – fino al raddoppio – delle bollette della luce e del gas sta cominciando a costringere i più esposti alla scelta tra acquistare il cibo o riscaldarsi.

La riforma fiscale, che secondo le sirene del governo avrebbe dovuto registrare un sia pur minimo taglio delle tasse (ovviamente sempre a vantaggio dei benestanti), è di fatto già vanificata. Per non parlare dei risibili aumenti alle categorie che hanno avuto la ventura di accedere ai rinnovi contrattuali. Intanto aumentano le ore di cassa integrazione e le trionfali prospettive di crescita del PIL si squagliano di fronte alla crisi dei rifornimenti energetici, dell’aumento delle materie prime, dei blocchi della produzione delle componenti elettroniche e digitali mentre avanza lo spettro della recessione.

Tutto questo in un contesto contrassegnato dagli orrori di una guerra aperta, scatenata dall’aggressione dello Stato russo a quello ucraino a poche centinaia di chilometri di distanza dalle “nostre” città. Orrori che si vogliono limitare incrementando gli invii di armi a Kiev e le sanzioni nei confronti della Federazione russa, in un complicato gioco di equilibrismo socio politico, tra rispetto delle alleanze internazionali ed esigenze dell’industria nazionale che di queste sanzioni è anch’essa vittima designata. Il blocco prospettato delle forniture di gas e petrolio russo, più volte ventilato, si profila minaccioso all’orizzonte ed è sicuro che se venisse attuato i suoi effetti si farebbero sentire soprattutto nella vita quotidiana di ognuno di noi, con un ulteriore aumento dei prezzi, la difficoltà di farvi fronte, la necessità di operare delle scelte tra il riscaldarsi ed il cucinare. Sicuramente il mondo delle aziende ne risentirà in ben altro modo, sostenuto com’è dal puntello statale. Così come non ne risentirà il complesso militare-industriale che vede anzi aumentare i propri profitti grazie all’incremento sostenuto della spesa pubblica per le forze armate ed alla prospettata abolizione dell’IVA sulla commercializzazione delle armi.

Per la platea crescente degli ultimi si parlerà come al solito di carità e di filantropia con l’aumentare delle file alle mense dei poveri. La guerra in Europa proprio questo però vuole: sacrifici popolari e sangue fresco a disposizione per ogni possibile evoluzione dello scenario bellico. Come ogni guerra essa offre delle magnifiche opportunità a chi le sa cogliere e le classi possidenti, anche se arrivano in ritardo sugli avvenimenti, sono maestre nel coglierle. In Italia vengono colte con il continuo taglio dei fondi per la sanità pubblica e i servizi sociali, l’immigrazione razzializzata, il rilancio del patriottismo e del nazionalismo, l’annichilimento delle rivendicazioni del mondo del lavoro, la ristrutturazione dell’apparato produttivo a spese del pubblico, l’attacco ai diritti e alle libertà individuali e collettive, l’incremento delle politiche securitarie e di controllo sociale, in buona sostanza con la militarizzazione del corpo sociale.

Un governo che non ha mai fatto nulla per venire incontro alle esigenze del mondo del lavoro, della scuola, dice di volersi impegnare a contenere le spese energetiche; se lo farà sarà per venire incontro alle imprese, non certo ai cittadini. Un governo che aumenta esponenzialmente le spese militari, che non si è preoccupato della sanità pubblica né della scuola, è il solito governo delle classi abbienti, oggi fortificato dall’unione sacra di tutti i partiti con un’opposizione di facciata.

In Ucraina invece le classi possidenti come si stanno comportando? In una situazione bellica che sta registrando una crescente disoccupazione il 15 marzo il parlamento ucraino ha adottato un disegno di legge, il n° 7160 – “Sull’Organizzazione dei Rapporti di Lavoro in Stato di Guerra” – entrato in vigore il 24 marzo. Pesantemente criticato dai sindacati e dalle organizzazioni sociali ucraine per il suo carattere antisociale, ha lo scopo di semplificare notevolmente i licenziamenti, consentire il mancato pagamento dei salari e prolungare l’orario di lavoro. La legge marziale da mano libera ai datori di lavoro e i diritti dei dipendenti sono stati indeboliti in termini di:

* tutela contro il licenziamento finora illegale (qualsiasi dipendente può essere ammesso in mobilità vigilata e alcune categorie di dipendenti possono essere licenziate durante il congedo o la malattia),
* regolare pagamento del salario, soprattutto in caso di sospensione forzata (il datore di lavoro potrà sospendere il contratto di lavoro e ritirare la retribuzione e avrà diritto a peggiorare le condizioni di lavoro di base senza preavviso),

* durata dell’orario di lavoro (la normale settimana lavorativa è stata estesa a 60 ore e le restrizioni sugli straordinari sono state revocate – prima erano di 120 ore all’anno).[1]

Come si vede, in nome dello sforzo bellico al servizio della patria, il proletariato deve stringere la cinghia e saltare il pasto se gli viene richiesto, mentre le proprietà degli oligarchi rimangono ovviamente intoccabili. Il nazionalismo a questo serve, mettere la mordacchia alla lotta di classe e intruppare lavoratori e lavoratrici.

Come in Russia intendano le relazioni del lavoro lo abbiamo ben capito dalla rapidità di mobilitazione dell’esercito nel dare man forte all’alleato governo kazakho nella repressione dei lavoratori in sciopero nel gennaio di quest’anno, esportando un modo di comportamento ben collaudato all’interno con la carcerazione degli oppositori e il controllo dei sindacati. Il revanscismo russo necessita di pace sociale all’interno dei suoi confini per potere esercitare il massimo dello sforzo possibile per la riconquista delle storiche aree d’influenza e, per un paese come la Federazione Russa, segnato da forti squilibri sociali e basso reddito pro capite, l’esercizio del potere poliziesco e militare è fondamentale.

Delle condizioni di lavoro in Cina se ne possono capire le caratteristiche osservando le misure prese per contrastare l’epidemia di Covid, con lockdown imposti rigidamente e militarmente in archi ristretti di tempo, per impedire che la malattia si diffonda tra una manodopera massificata distribuita nei grandi complessi industriali e le città fabbrica, bloccando di fatto la produzione. La militarizzazione del corpo sociale, affiancata da sistemi di controllo all’avanguardia, deve garantire che il processo di valorizzazione del capitale prosegua e si rafforzi, fornendo al Dragone le risorse necessarie per essere non solo una potenza economica ma soprattutto militare, pronta alla competizione mondiale su larga scala.

All’ovest niente di nuovo. Ricondotta nei ranghi l’insorgenza guidata dalla comunità afroamericana negli USA grazie ad una pesante repressione, la presidenza democratica cerca di rimettere insieme i cocci di un paese dilaniato rilanciando la retorica dei “valori occidentali”, del patriottismo, sull’onda di una guerra scoppiata probabilmente prima del previsto ma assolutamente prevedibile in un contesto di ridefinizione delle relazioni globali tra le potenze “imperiali”. Quel che è certo che le nuove commesse in armi ridaranno nuova linfa al complesso militar industriale e al sistema di ricerca a questo connesso, legando maggiormente il settore del lavoro interessato ai voleri di Stato e capitale.

Se lo spazio ce lo consentisse, si potrebbe continuare a fare una carrellata sulla situazione del mondo del lavoro a livello internazionale per trarne un bilancio in questo Primo Maggio 2022 ma lo scenario differirebbe di poco. Ovunque regna l’ordine capitalista la condizione proletaria è sempre soggetta alle esigenze degli Stati nazionali oltreché all’andamento dei mercati e alla ricerca del massimo profitto. La guerra in Ucraina poi, affiancandosi alle decine e decine di conflitti attualmente in corso – ma che non godono della stessa attenzione mediatica – rende più che evidente l’accelerazione progressiva verso una ridefinizione dei rapporti di forza. L’aumento spaventoso delle spese militari ai quattro angoli del globo la dice lunga sulle reali intenzioni dei vari contendenti; come pure la ripresa in grande stile della retorica nazionalista accompagnata del rispolvero di vecchie ideologie e di antichi fanatismi.

Centotrentasei anni fa, il primo maggio 1886, la Federazione dei Lavoratori di Stati Uniti e Canada proclamò lo sciopero generale per 8 ore di lavoro, 8 ore per il riposo e 8 ore di tempo libero, per affermare il valore del tempo di vita e per cominciare a liberarsi dall’oppressione del lavoro salariato e subordinato. Un bisogno incompatibile con le ferree leggi del capitale e dello Stato. Il governo, per bloccare il movimento di lotta di cui colse le potenzialità sovversive, ne imprigionò i principali esponenti anarchici, nativi ed immigrati, incolpandoli senza prove di un attentato e condannandoli alla conclusione di un processo farsa: quattro furono impiccati ed un quinto, Louis Lingg, si suicidò piuttosto che salire al patibolo. I loro nomi: August Spies, Adolph Fischer, George Engel, Albert R. Parsons; quelli che diventarono per il movimento operaio internazionale “i Martiri di Chicago”. Per ricordarli e per rinnovare il movimento di lotta per la riduzione dell’orario di lavoro nel 1889 venne proclamato il Primo Maggio giornata di lotta internazionale.

Oggi ricordare quella lotta e quei martiri può avere senso solo se ne coglie la portata: a Chicago non ci fu una lotta rivendicativa, contrattualistica; ci fu una lotta radicale, rivoluzionaria per la conquista del potere sulla propria vita. Quel potere che oggi con la ripresa dei nazionalismi da cartolina, cercano sempre più di annichilire per costringerci nelle trincee patriottarde a difesa degli interessi delle borghesie imbandierate, degli Stati “imperiali”, dei blocchi capitalistici. Eppure sarebbe possibile uscire dal cerchio infernale nel quale vogliono costringerci: le lavoratrici e i lavoratori sono maggioranza, hanno in mano le conoscenze per produrre quanto è necessario, non hanno bisogno del padrone; hanno solo bisogno di aver fiducia nella propria forza, nella loro capacità di costruire un mondo di relazioni senza guerre e senza violenza gerarchica.

Nell’immediato dobbiamo costruire la resistenza nei nostri luoghi di lavoro, nei nostri territori e nelle nostre comunità e unirci per combattere tutte le ingiustizie oltre a escogitare modi praticabili ed efficaci per controbattere all’aumento dei prezzi di cibo, gas ed elettricità, affitto e le altre necessità.

Ricordiamo la campagna di massa “Non Posso Pagare, Non Pagherò” che ha sconfitto in Inghilterra la Poll Tax. Oppure i giorni in cui, qui da noi, coloro che non potevano permettersi di pagare i massicci aumenti dei prezzi andavano in massa nei supermercati, riempivano i carrelli e uscivano insieme senza pagare. Oppure ancora lo sciopero delle bollette di luce e gas, o il blocco dei tornelli alla metropolitana per non pagare il biglietto. Non sono pratiche di un tempo andato ma lotte che possono incidere e modificare lo stato di cose presenti.

Ovviamente non bastano se vogliamo farla finita con il regime della guerra e del terrore: è indispensabile una strategia di rottura con il sistema di dominio. Occorre prefigurare e organizzare, in tutte le sfere della vita sociale, una trasformazione radicale. In questo senso la costruzione di una forza capace di autogestione sociale è indispensabile se vogliamo sconfiggere le classi dominanti, per difenderci dallo sfruttamento e dalle istituzioni che ci opprimono con politiche securitarie e repressive e con gerarchie sociali di comando per trasformarci in soldatini obbedienti utili per le loro guerre.

Il tempo delle riforme impossibili è finito: occorre un ribaltamento della prospettiva di vita e di organizzazione sociale in nome della solidarietà, della partecipazione, della cura, in costante conflitto con il sistema capitalistico e statale. Non però per ripercorrere strade già fatte che ci hanno portato dove siamo oggi: bisogna prendere in mano, direttamente, le proprie organizzazioni di lotta, senza deleghe, smettere di riporre fiducia nel politico di professione, nell’istituto della rappresentanza parlamentare creata apposta per vanificare ogni esigenza di reale trasformazione sociale.

Cambiare la rotta è possibile. Con l’azione diretta, costruendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, costruendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi, le lotte territoriali; spazi che pratichino nel contempo solidarietà e che sappiano porre al centro della loro attenzione il tema del controllo della produzione e del consumo, della salute nostra e del pianeta. Disertiamo la guerra degli Stati, pratichiamo l’internazionalismo solidale e conflittuale per un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni.

Massimo Varengo

NOTE

[1] Fonte: https://www.ozzip.pl/informacje/zagranica/item/2881-ukraina-prawa-pracownicze-w-czasie-wojny

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