Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera
La strategia del Governo sembra puntare a rendere più difficile e meno conveniente il pensionamento anticipato. Con il passare degli anni è stata progressivamente ridotta la componente di spesa associabile al calcolo retributivo degli importi pensionistici previsti dal sistema misto. La Riforma Dini (L. 335/1995) sancì il passaggio a un nuovo modello di calcolo della pensione: anziché basarsi sul livello dei salari percepiti (metodo retributivo), il calcolo avrebbe dovuto essere fatto sull’ammontare dei contributi versati (metodo contributivo). Fra i due, il retributivo è nettamente il più favorevole per i lavoratori e consente pertanto una pensione più alta. Di conseguenza, a coloro che al ‘95 avessero già lavorato degli anni veniva concesso che tali specifiche annualità avrebbero contribuito a stabilire l’importo della pensione su base retributiva, pur passando anch’essi al contributivo per gli anni a venire (metodo misto). Il sistema contributivo venne fatto passare per una scelta obbligata dettata da condizioni economiche emergenziali, ma in realtà era già stato pensato e introdotto per gli autonomi anni addietro (L. 233/1990), prima ancora della Riforma Amato del ’92. Ciò è indice della profonda insincerità di un ceto politico che, senza dirlo, aveva già in testa la completa dismissione del saldo sistema di tutela sociale pensionistica ereditato dal ‘900. Il risparmio per le casse dello Stato è divenuto via via meno consistente.
Tutte le forme di pensionamento anticipato comportano una riduzione della pensione in cambio della sua erogazione anticipata per alcuni anni. Se questa, con la scomparsa del calcolo retributivo degli importi, si va riducendo di per sé, la convenienza per lo Stato del pensionamento anticipato viene gradualmente meno. E così il Governo ha deciso di renderlo meno oneroso per le casse dell’INPS modificandone i parametri d’accesso, calcolando l’importo degli anni di pensione anticipata interamente col sistema contributivo e abbassando, per di più, il limite di importo massimo consentito dell’assegno mensile (sì, perché non si può andare anticipatamente in pensione con importi troppo elevati).
I lavoratori iscritti alla Cassa pensione dipendenti enti locali, alla Cassa pensione sanitari, alla Cassa pensione insegnanti e alla Cassa pensione ufficiali giudiziari, invece, subiranno una modifica peggiorativa delle aliquote di calcolo della componente retributiva della pensione. A perderci saranno principalmente le pensioni dei dirigenti, ma anche uno stipendio medio-basso come quello dell’impiegato degli enti locali lascerebbe sul campo oltre il 3%, che per redditi di questo tipo non è poco.
Politiche sul pensionamento anticipato
La prima e più diffusa forma di pensionamento anticipato è la Quota. Il D.L. 4/2019 introdusse la famosa “Quota 100”, che permetteva l’uscita dal lavoro al raggiungimento del totale di 100 (62 anni anagrafici e 38 di contributi). Con la Legge di Bilancio per il 2022 (L. 234/2021, art. 1, c. 87) Quota 100 diventò Quota 102 (64 anni e 38 di contributi). Questa revisione consentì di eliminare il Fondo per il pensionamento anticipato (che aveva in dotazione oltre 8 miliardi di € per il 2022), al posto del quale ne venne creato uno per il sostegno ai pensionamenti anticipati dei dipendenti delle piccole e medie imprese in crisi (ma si trattava di soli 150 milioni di € per il 2022) (art. 1, cc. 88-89).
La Legge di Bilancio per il 2023 (L. 197/2022) ha istituito Quota 103 (62 anni e 41 di contributi). Per la prima volta è stato introdotto un tetto massimo sul valore nominale della pensione percepita (per i soli anni di anticipo, ovviamente), che non poteva essere superiore alle cinque volte l’assegno sociale (art. 1, c. 283) pari a 503,27 €/mese per il 2023. Per accedere al pensionamento anticipato, dunque, i percettori di pensioni lorde superiori ai 2.500 € dovrebbero accettare un’ulteriore decurtazione dell’importo. “Ulteriore” perché, innalzando il limite ordinario per il pensionamento (Riforma Fornero) e poi stabilendo delle deroghe per riabbassarlo, quale ad esempio il meccanismo delle Quote, si ottiene già una riduzione degli importi pensionistici sulla base delle minori entrate contributive rispetto a quelle previste: se si va in pensione anticipata, infatti, si smette di versare i contributi. Il risultato è che poi si matura una pensione ridotta quando fino a pochi anni prima, accedendo alla pensione con le stesse identiche annualità di lavoro la si avrebbe avuta intera.
L’assegno pensionistico, infatti, si calcola moltiplicando il totale dei contributi versati (montante contributivo) per il numero di anni lavorati, e poi moltiplicando il risultato per un numero chiamato coefficiente di trasformazione. I coefficienti variano in base all’età in cui ci si pensiona, aumentando progressivamente. Negli ultimi trent’anni c’è stata un’altalenante tendenza alla diminuzione dei coefficienti previsti per tutte le età fino ai 68, preservando a mo’ di premio i pensionamenti avvenuti nella piena anzianità. L’attuale Governo ha operato dei lievi incrementi, che per ordine di grandezza non si discostano da quelli di tutti gli altri esecutivi e che, pure, premiano le età di pensionamento estremamente elevate (v. Decreto Ministeriale del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 01/12/2022). Il totale sarà la pensione annua in €, che a quel punto andrà semplicemente divisa per le tredici mensilità (considerando la tredicesima) e ci darà la pensione mensile. Dunque, il meccanismo delle Quote si basa su di una vera e propria truffa ai danni del cittadino lavoratore.
Ma cosa cambierà d’ora in avanti? Gli importi subiranno ulteriori tagli. Innanzitutto, come detto si passerà all’eliminazione del sistema misto in favore di un calcolo interamente contributivo (prima riduzione dell’importo). Con la nuova norma in preparazione, inoltre, il Governo “concederà” la possibilità di accedere a Quota 103 continuando a lavorare. In tal caso il lavoratore potrà optare per il versamento in busta paga dei contributi previdenziali a proprio carico. Ciò, però, comporterà un’altra decurtazione della pensione spettante al raggiungimento dell’età ordinaria prevista per il pensionamento (quando cioè si smette di usufruire del meccanismo della Quota) in ragione del minor montante contributivo maturato (seconda riduzione). Uno sciacallaggio ai danni di quelle famiglie che, pur sapendo di andare incontro a pensioni più basse, scelgono di “pensionarsi anticipatamente” rimanendo a lavorare per quei pochi spicci in più, necessari per sbarcare il lunario e provare a venir fuori da uno stato di estrema necessità e disagio socio-economico. Verrà poi abbassato il limite per i pensionamenti con Quota 103, ora di quattro volte l’assegno sociale. Il massimo percepibile, quindi, sarà di circa 1.750 € al mese (terza riduzione). Le finestre per il pensionamento diverranno più strette, passando dai 3 ai 7 mesi (settore privato) o dai 6 ai 9 (per il pubblico impiego). Dal 2024, infine, sarà istituita Quota 104 (63 anni di età + 41 anni di anzianità contributiva).
Un’altra forma di pensionamento anticipato è l’Anticipo Pensionistico (APE), che prevede l’erogazione di dodici mensilità (ma non la tredicesima) pari a una percentuale che varia dal 75 al 90% della pensione a cui si avrebbe diritto al momento dell’interruzione della carriera lavorativa. Istituita dalla Legge di Bilancio per il 2017 (L. 232/2016), consiste in un prestito statale che viene poi restituito, nell’arco di 20 anni, tramite detrazioni sui futuri importi pensionistici erogati dall’età “ufficialmente” prevista per il pensionamento dell’interessato. In parole povere, la pensione cui il lavoratore potrà avere diritto viene spalmata anticipatamente su alcuni anni, consentendo di smettere di lavorare fino a 3 anni e 7 mesi prima (a patto che si abbia un’età minima di 63 anni, almeno 20 annualità di lavoro e il diritto a una pensione equivalente ad almeno 1,4 volte l’assegno sociale), e poi recuperata dopo. È prevista obbligatoriamente la stipula di un’assicurazione per morte prematura (art. 1, cc. 166 e 167), in relazione alla quale, oltre ai premi assicurativi, il lavoratore paga anche gli interessi sul finanziamento. Questi si calcolano dal momento di ricezione del primo assegno APE a quello in cui l’INPS se lo riprende a rate prelevandolo dalla pensione ordinaria. In funzione di parziale recupero di tali spese extra viene prevista una riduzione massima del 50% della tassazione relativa a 1/20 dei premi assicurativi e degli interessi, ma è poca cosa.
Questa tipologia di APE è chiamata APE volontaria e non è più possibile accedervi, per quanto vi siano ancora molti che ne usufruiscono. Esiste una seconda forma di APE, tuttora in vigore, prevista per alcune categorie svantaggiate: l’APE sociale. Destinata a disoccupati con una lunga carriera lavorativa alle spalle, a persone che assistono familiari disabili, agli invalidi civili e a chi svolge da anni lavori particolarmente gravosi, l’APE sociale prevede un assegno massimo di circa 1.200 €, non rivalutabili sull’inflazione. Non funziona come l’APE volontaria: si tratta di un semplice quanto limitato sussidio economico erogato direttamente dallo Stato (fino al raggiungimento di un tetto massimo di spesa) al lavoratore in stato di particolare difficoltà. Come tutte le forme di pensionamento anticipato comporta una riduzione del futuro assegno ordinario di pensione, in virtù dell’interruzione dei versamenti contributivi.
Il Governo ha deciso di innalzare il requisito minimo di età, portandolo dai 63 anni ai 63 e 5 mesi, e ha reso il sussidio cumulabile con altri redditi da lavoro, consapevole del fatto che, nonostante l’importo basso, spesso i destinatari della misura non riusciranno ad accedere a lavori stabili e a tempo pieno, per via dell’età e delle particolari criticità socio-economiche, ma solo arrotondare con qualche lavoretto. Non è un caso che il tetto di guadagno extra sia stato previsto solamente per il lavoro autonomo (nella misura di 5.000 € l’anno).
La terza forma di pensionamento anticipato è la cosiddetta “Opzione Donna”, riservata chiaramente alle lavoratrici. Nel 2004 (L. 243/2004) si stabilì che i 40 anni di contributi necessari per il pensionamento sarebbero stati richiesti a partire dal 2008, anziché dal 2004 come precedentemente previsto. Lo slittamento era stato giudicato doveroso in quanto prima di allora si richiedevano solo 35 anni (L. 449/1997). Sempre con la legge del 2004 si volle prevedere un’ulteriore possibilità di pensionamento, disponibile dal 01/07/2009, che fosse alternativa al raggiungimento dei 40 anni lavorati: ci si poteva pensionare anche con 61 anni di età e 36 di contributi, oppure 62 e 35, e così via, purché la somma dei due numeri desse 97. Per inciso, è qui che compare per la prima volta la nozione giuridica della “quota”. Salvini l’ha semplicemente “recuperata”, rimodulandola in senso peggiorativo (da “quota 97” a Quota 100). L’espressione “opzione donna”, invece, ha avuto origine nella propaganda mediatica e solo successivamente è entrata nei testi di legge. Alla luce di quanto esplicitato in questo documento sono palesi le differenze tra enunciazioni di principio e dichiarazioni rese dal Governo, da un lato, e la loro pratica realizzazione nella manovra di Bilancio, dall’altro. Al posto di un’opzione vantaggiosa per le donne e per i lavoratori anziani traspare una volontà politica in linea con le richieste delle agenzie di rating e della BCE. Col senno di poi si può dire che in tale maniera si incominciò ad aumentare l’età anagrafica utile per l’accesso alla pensione, tentando di abituarvi la popolazione.
Cosa c’entra tutto questo? Sempre con la L. 243/2004 venne prevista una terza via, aperta alle sole lavoratrici, consistente nella possibilità di andare in pensione a 57 anni (come prevedeva la vecchia norma) ma al prezzo di un considerevole taglio sull’assegno, causato dall’integrale applicazione del calcolo contributivo (art. 1, c. 9). Nasceva, così, Opzione Donna. Il Governo attuale aveva già limitato la platea delle beneficiarie durante lo scorso anno e questa volta ha deciso di innalzare l’età minima di accesso (da 60 a 61 anni, con 35 di contributi).
Rimane un’ultima forma di pensionamento anticipato: la pensione anticipata contributiva. Questa prevedeva un minimo di 64 anni di età e 20 di contributi, oltre a un livello minimo lordo di 2,8 volte l’assegno sociale, a patto che si andasse in pensione col sistema contributivo (non con quello misto). Il limite sull’assegno imponeva ai lavoratori più poveri di rimanere a lavoro per più tempo, anche oltre i 64 anni + 20, per superare tale soglia, e consentiva allo Stato di ridurre la massa delle pensioni anticipate che, come detto, convengono sempre meno. Su tutto ciò, il Governo ha peggiorato sensibilmente la situazione:
– i 20 anni di contributi sono stati agganciati alla dinamica della speranza di vita, ancora in ripresa dopo il calo del Covid: «I livelli di sopravvivenza del 2022 risultano ancora sotto quelli del periodo pre-pandemico, registrando valori di 6 mesi inferiori nei confronti del 2019, sia tra gli uomini che tra le donne» (Società Italiana di Reumatologia: ISTAT: speranza di vita in crescita per gli uomini e stabile per le donne, 07/04/2023 ). La diminuzione della speranza di vita dovuta al Covid non aveva fatto calare né i 20 anni di contributi necessari per questa forma di pensionamento, né tanto meno l’età pensionabile in generale, in virtù di alcune disposizioni che bloccavano gli adeguamenti a una speranza di vita non più certamente in ascesa. Meloni, dunque, ha pensato bene di considerare solo la fase di ripresa della speranza di vita, truffando così la popolazione per l’ennesima volta:
– il livello minimo lordo di 2,8 volte l’assegno sociale viene aumentato a 3, mentre rimane a 2,8 per le donne con un figlio e scende a 2,6 per quelle che ne hanno più di uno (sancendo comunque, complessivamente, un netto risparmio per le casse statali, dato che di pensionamenti a 63 anni con due figli a carico non ve ne sono certo molti…);
– viene istituito un limite massimo dell’importo pensionistico, pari a cinque volte l’assegno sociale;
– viene introdotta una finestra di tre mesi di attesa per l’accesso al trattamento.
(continua…)