“Ci sono dei momenti in cui c’è da incazzarsi: quelle immagini sono vergognose”. Afferma Giuseppe Sala, sindaco di Milano, all’indomani dell’8 maggio 2020, giorno di “folla” sui Navigli. Segue ultimatum: “O le cose cambiano oggi, non domani, o prenderò provvedimenti e chiuderò i Navigli”. Poi ancora in rapida sequenza, Berlusconi: “Le foto mi hanno preoccupato” e gli indignati da social (tutti per uno, il regista Gabriele Muccino: “Sala chiuda i Navigli”).[1] Ovviamente non può mancare la partecipazione indignata del governatore della Campania Vincenzo De Luca che chiede di sensibilizzare tutte le forze dell’ordine e le polizie municipali “per la messa in atto di controlli rigorosi nei luoghi di maggiore assembramento della città e della provincia di Napoli, così come richiesto in tutta la regione”.[2].
Quindi il problema principale della cosiddetta fase due sembra essere quello delle persone in strada con mascherine, mascalzoni incoscienti che si assembrano, passeggiano o fanno jogging, comportandosi in maniera indegna del vivere civile e via discorrendo. La ratio sembra essere sempre la solita: quella del “cittadino irresponsabile” che – anatema! – va a passeggio per strada, all’aperto, talvolta persino senza mascherina… Davanti a scene del genere, le debolezze della struttura sanitaria statale sfasciata intenzionalmente da decenni di politiche neoliberiste, l’irresponsabilità di dirigenti ospedalieri, imprenditori; tutto ciò che nelle pagine di questo giornale nei numeri precedenti abbiamo ampiamente descritto, passa in secondo piano.
Se proprio però dobbiamo agire “come l’oste che fa i conti dopo tanto fallimento”, la storia raccontiamocela tutta. I dati Inail sugli infortuni sul lavoro fra fine febbraio e il 4 maggio, riportati dai principali quotidiani fra venerdì 7 e sabato 8 maggio, ci danno un quadro della situazione piuttosto eloquente.
Premettiamo che nel decreto cosiddetto “Cura Italia” – D.L. 18 – 2020, l’articolo 42 equipara l’infezione da Coronavirus, se contratta in occasione di lavoro, a infortunio. Ebbene, secondo l’Inail i lavoratori che tra la fine di febbraio e il 4 maggio si sono ammalati di Coronavirus mentre svolgevano le loro attività ammontano a 37.352; fra questi, i casi mortali sono stati 129.[3] Il conto è presto fatto: si tratta di una media di 557 casi al giorno. La domanda nasce allora spontanea: ci si ammala più andando al lavoro, magari prendendo mezzi pubblici, per poi trascorrere tutto il tempo in luoghi chiusi, magari negli ospedali senza adeguate protezioni, oppure passeggiando per i Navigli a Milano o sul lungomare di Napoli in mascherina?
Manco a dirlo, arriva tempestiva la levata del “doppio scudo” (sul perché “doppio” ci torno dopo) degli industriali, spalleggiati pure da qualche governatore che crede di guadagnare popolarità facendo lo spiritoso fra battute su “cinghialoni” e “fratacchioni”, magari dopo un’abbondante frittura di pesce. Andiamo però con ordine.
Giuseppe Pansini, presidente dell’associazione industriali bresciana definisce l’articolo 42 a cui fa riferimento l’Inail “Una norma gravissima, l’ennesima applicazione di politica anti-impresa” e aggiunge: “In azienda il lavoratore trascorre otto ore, passando le restanti 16 in altri contesti, con stili di vita e contatti che sfuggono completamente alla possibilità di prevenzione dell’imprenditore”.[4] Gli fa indirettamente eco il governatore-cinghialone di cui sopra: “Hanno ragione! Perché, al netto di tutte le tutele che occorre riservare ai dipendenti, non si può configurare come incidente sul lavoro il fatto che un addetto risulti positivo al Covid. E come si fa a stabilire con certezza che lo abbia preso in fabbrica e non all’esterno? È illogica questa disposizione e ci faremo interpreti della rabbia degli imprenditori”.[5]
Partiamo dalla considerazione banale che non si tratta di “sole otto ore” di lavoro: coi treni e coi mezzi pubblici ci si impiega, di là della norma sull’itinere, anche più di due ore fra andata e ritorno. Comunque, considerando la pausa pranzo, partiamo da una base di nove ore. Quindi anche solo le ore dedicate al tempo nel quale si è impegnati in maniera diretta o indiretta per lavoro sono molte di più.
Oltretutto, come afferma il direttore generale dell’Inail Giuseppe Lucibello “sono circa cento anni che in Italia i fenomeni epidemici e parassitari sono riportati nella fattispecie degli infortuni sul lavoro”. Del resto, “un’infezione da Covid-19, oltre a essere indennizzabile, può essere un reato, una lesione personale colposa come qualsiasi infortunio. Il medico che svolge la propria opera ha l’obbligo di fare il referto all’autorità giudiziaria, il che non implica necessariamente una condanna. L’autorità giudiziaria svolgerà i dovuti accertamenti, in caso di processo andranno dimostrati condotta colposa e nesso causale. Per quale motivo per un mesotelioma da amianto si dovrebbe procedere in un modo e per un’infezione Covid-19 in un altro?”. Quest’ultima dichiarazione non è di certo rivoluzionaria o provocatoria, bensì è ciò che ha dichiarato al riguardo Raffaele Guariniello, ex procuratore aggiunto di Torino.[6]
Qui però la cosa si complica per lorsignori, poiché i protocolli firmati da Confindustria e sindacati, che impongono distanze e dispositivi di protezione, sono da considerarsi alla stessa stregua degli obblighi indicati nel Testo unico sulla sicurezza sul lavoro. La conseguenza è che chi non li applica alla lettera rischia l’arresto o l’ammenda.[7]
Ecco allora che arriviamo al secondo “scudo”. Come dicevamo, l’equiparazione fatta dall’articolo 42 del decreto legge n. 18/2020 tra infortunio sul lavoro e contagio da Covid-19, meritevole di ricevere la copertura assicurativa Inail, potrebbe condurre a sanzionare l’imprenditore sul piano penale per i reati di lesioni ai sensi dell’art. 590 c.p. e omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p. nel caso di decesso, di omicidio per colpa grave. Con questo, beninteso, non si vuole lodare lo stato per aver introdotto una norma a favore dei proletari. Figuriamoci se i padroni vengano addirittura penalizzati proprio dallo stato. Non saremo certo noi a cadere in questa trappola illusoria e l’altra faccia della medaglia la spiega Roberto Riverso, giudice della Corte di Cassazione: è vero che l’istituto è obbligato a erogare le prestazioni dovute ai lavoratori, ma si prevede che i “predetti eventi infortunistici gravino sulla gestione assicurativa” esonerando le imprese dall’aumento dei premi e addirittura ipotizzando una depenalizzazione di fatto.[8]
Il passo successivo a questo punto sembra scontato: gli imprenditori, spalleggiati da esponenti politici vari, chiedono nientemeno che uno scudo penale per i reati configurati. Non solo imprenditori, ma anche responsabili e dirigenti ospedalieri: infatti la categoria degli infermieri e dei fisioterapisti, con il 43,7 per cento dei casi segnalati all’Istituto (e il 18,6 per cento dei decessi) è quella più colpita dai contagi, seguita dagli operatori socio-sanitari (20,8 per cento), dai medici (12,3 per cento), dagli operatori socio-assistenziali (7,1 per cento) e dal personale non qualificato nei servizi sanitari e di istruzione (4,6 per cento).[9]
In un contesto del genere il passaggio dal “liberi tutti “ lamentato dai governatori anti-assembramento al “salvi tutti” auspicato dagli imprenditori e dirigenti o funzionari vari, è breve. Di certo i lavoratori non si faranno prendere per i fondelli e se, al danno pandemico, si aggiungerà la beffa del colpo di spugna padronale sui danni provocati, sappiano i vari politicanti statali che la capacità di fare due conti e di smascherare gli imprenditori furbetti l’abbiamo anche noi lavoratori e in genere “comuni mortali”.
Flavio Figliuolo
NOTE
[1] La Stampa, Sabato 9 Maggio, pag. 6.
[2] Il Mattino di Napoli, Lunedì 11 Maggio, pag. 7.
[4] Il Sole24 Ore, 9 Maggio 2020 pag. 11.
[5] Il Corriere del Mezzogiorno, 9 Maggio 2020, pag. 6.
[6] Il Fatto Quotidiano, 12 Maggio 2020, pag 11.
[7] Il Fatto quotidiano, 10 Maggio 2020, pag. 4.
[8] Il Manifesto, 13 Maggio 2020, pag. 4-5.
[9] Il Fatto Quotidiano, 9 Maggio, pag. 14.