Una prima lettura dei 20 punti: cessate il fuoco condizionato, governance esterna, “sviluppo” come business
Il progetto in 20 punti promette fine dei bombardamenti, scambio di ostaggi e ricostruzione. Ma lascia intatti i rapporti di forza, commissaria Gaza e rinvia l’autodeterminazione a data da destinarsi.
1) Che cosa c’è nel piano (in breve, ma preciso)
Il testo ufficiale parla di cessate il fuoco immediato se entrambe le parti accettano, “linee congelate” e restituzione di tutti gli ostaggi entro 72 ore.
In cambio, Israele dovrebbe liberare circa 250 prigionieri condannati all’ergastolo e 1.700 detenuti post-7 ottobre (donne e minori inclusi).
È prevista una Forza Internazionale di Stabilizzazione (ISF), un’amministrazione transitoria tecnico-apolitica e un organismo di supervisione soprannazionale (“Board of Peace”, con il coinvolgimento di Tony Blair).
Si promettono ricostruzione e sviluppo (fino a una zona economica speciale), la clausola che nessuno sarà costretto a lasciare Gaza e, più avanti, un “orizzonte politico” verso l’autodeterminazione, subordinato a “riforme” dell’Autorità Palestinese.
2) Il baricentro politico: la vittoria militare data per scontata
Il piano è scritto dalla parte dei vincitori: i diritti israeliani sono presupposto tacito, mentre quelli palestinesi sono condizionati a disarmo, commissariamento e riforme.
Confini, colonie, blocco, diritto al ritorno non entrano come obblighi per Israele, ma come variabili rinviate. La “pace” diventa gestione tecnica dell’esistente, non trasformazione dei rapporti di potere.
3) “Governo tecnico” e Board: il colonialismo in camice bianco
Comitati di esperti, amministrazione “apolitica”, supervisione internazionale guidata dai promotori stessi: è la grammatica del commissariamento.
In questo impianto, Gaza non decide; subisce. L’inclusione di Blair nel “Board” è simbolicamente eloquente: “stabilità” come esternalizzazione del comando, non come democrazia di base.
4) ISF: sicurezza per chi?
L’ISF dovrebbe disarmare Hamas, formare polizia “vagliata”, sorvegliare confini e garantire la fase di transizione. Ma chi la compone? con quali regole di ingaggio? con quale responsabilità legale verso i civili?
Senza risposte chiare, il rischio è una forza d’ordine d’importazione che consolida la dipendenza di Gaza e l’asimmetria con Israele.
5) Ricostruzione come business (non come diritto)
Nel testo compaiono riqualificazione e persino la zona economica speciale. È la ricetta classica: agevolazioni ai capitali esteri, grandi cantieri, governance “efficiente”.
Chi decide priorità, appalti, uso del territorio? Come si evita che i profitti escano e i costi sociali restino?
Senza potere decisionale locale, la “Nuova Gaza” rischia di essere una vetrina per investitori più che un luogo liberato.
6) Autodeterminazione condizionata: il miraggio in fondo al tunnel
L’orizzonte politico arriva solo dopo: disarmo, commissariamento, riforme PA, “successo” della ricostruzione.
In altre parole: prima la resa all’ordine vigente, poi—forse—i diritti politici. È l’opposto dell’eguaglianza: la libertà non si baratta in cambio di “sviluppo” e “sicurezza”.
7) Il nostro punto di vista
Per noi pace significa convivenza in un’unica terra di palestinesi ed ebrei, pari libertà e pari diritti, autogoverno dal basso.
Per arrivarci, non sono i palestinesi a dover rinunciare a qualcosa: sono gli israeliani a dover rinunciare a privilegi, colonie, blocco e primato etno-nazionale.
Finché questo nodo non è sciolto, un piano di “normalizzazione” non è pace: è amministrazione del conflitto.
8) Un minimo programma pratico di convivenza (qui e ora)
– Fine immediata del blocco e libertà di movimento per persone e merci.
– Smantellamento graduale di colonie e infrastrutture di apartheid; restituzione e/o indennizzo per terre espropriate.
– Assemblee popolari miste (palestinesi ed ebrei) a livello municipale/di quartiere, con poteri reali su servizi, suolo, ricostruzione.
– Parità di residenza e cittadinanza per chi vive nella terra, indipendentemente da etnia o religione.
– Disarmo simmetrico e verificabile di tutti gli attori armati, con tutela comunitaria non militarizzata.
– Giustizia riparativa: verità sui crimini, risarcimenti, garanzie di non-ripetizione.
– Stop al business della guerra: trasparenza su fondi, appalti, proprietà; clausole sociali pro-lavoro e pro-comunità.
9) Dieci domande scomode (che il piano evita)
1) Chi sceglie i “tecnici” che governano Gaza e con quale mandato revocabile?
2) L’ISF risponde a chi quando sbaglia? Tribunali locali o immunità internazionale?
3) Che fine fanno colonie e confini?
4) Come si restituiscono terre e case espropriate?
5) Dov’è scritto il diritto al ritorno (o un indennizzo serio) per chi è stato cacciato?
6) Chi controlla appalti, terre e rendite della ricostruzione?
7) Che ruolo hanno assemblee di quartiere, sindacati, cooperative?
8) Come si garantisce la parità di diritti civili e politici sin da subito, per tuttə?
9) Perché la giustizia non è una colonna del piano, ma solo l’“ordine”?
10) Chi e come scioglie l’ISF e il Board, quando la gente di Gaza lo decide?
Conclusione
Dietro il lessico di “pace, sicurezza, sviluppo” c’è un commissariamento coloniale: una gabbia dorata che conserva l’asimmetria.
La nostra bussola rimane semplice e ostinata: una sola terra, libertà uguale per chi l’abita, senza eserciti né privilegi.
Il resto è manutenzione dell’ingiustizia.
Toto Caggese