Agli inizi di luglio sono stato invitato a intervenire a Casa Galeone alla presentazione di Portami via, il documentario che narra la vicenda di una famiglia siriana costretta a lasciare il suo Paese rifugiandosi prima in Libano e poi, grazie ai corridoi umanitari, trasferitasi a Torino.
Alla presentazione c’erano anche Marta Santamato Cosentino, la regista del documentario, e Eugenio Solla, fondatore della comunità per minori La casa di mattoni, nonché un’ottima presenza di persone arrivate liberamente per partecipare all’incontro.
Inevitabilmente, la molto partecipata discussione, è andata a toccare la generale questione delle migrazioni, dei respingimenti, delle frontiere e dei rapporti che le realtà antagoniste hanno attualmente con le comunità migranti, soprattutto in prospettiva futura. Infatti, partendo da una breve analisi di quelle che sono le relazioni attuali tra migranti e collettivi locali, ho sentito la necessità di soffermarmi su ciò che secondo me è un grande nervo scoperto a volte difficile da toccare: la spesso evidente distanza di prospettive che divide chi si batte quotidianamente per la libera circolazione delle persone e la libertà di dimora per tutti e tutte, e gli stessi migranti i quali, frequentemente, a dire il vero, non sentono la stessa necessità.
Dalla mia esperienza, non solo come difensore legale, professione grazie alla quale quasi quotidianamente mi ritrovo a rapportarmi con richiedenti asilo e rifugiati, ma anche come attivista, percepisco che nella quasi totalità delle volte le istanze politiche di chi rivendica l’eliminazione delle frontiere si scontra con quella che è pressoché solo la rivendicazione del diritto soggettivo alla richiesta di protezione internazionale e/o del rilascio di un permesso di soggiorno.
Il problema, a dire il vero, sta in una distorta lettura, da parte dei gruppi antagonisti, di quelle che sono le istanze della stragrande maggioranza dei soggetti migranti che arrivano in Italia e in Europa: le persone che arrivano, non migrano per mettere in discussione il sistema capitalistico e nazionalistico che impone confini e frontiere, ma scappano dai loro territori di origine per migliorare le loro esistenze, a prescindere dalla visione politica del mondo di cui sono portatori, spesso spinti dall’idea del sogno occidentale del fare soldi. Guardare dunque ai migranti come possibili interlocutori per la costruzione di vertenze sociali a prescindere dall’identità soggettiva di ognuno di loro, fa cadere nel tranello secondo cui, indipendentemente da chi è la persona che arriva, sicuramente quella stessa persona sarà un mio interlocutore con cui condividere una lotta. Non è così.
Questa falsa rappresentazione della realtà, che spesso e volentieri ho constatato tanto nelle assemblee quanto negli scambi di opinione con compagni e compagne, dà un’accezione totalmente sbagliata delle persone migranti: innanzitutto le svuota del loro bagaglio culturale sia personale che sociale, di conseguenza rischia di affibbiare loro a vita l’etichetta di migranti e non di persone quali sono.
Essendo persone al pari di chiunque altro, perché dunque volere ostinarsi a trovare necessariamente in loro possibili interlocutori per la costruzione di vertenze sociali? In quanto persone, in ognuno di loro può esserci un fascista, uno xenofobo, un maschilista, un nazionalista, insomma una persona con cui personalmente non ho nulla da condividere (e posso confermare che nella mia esperienza ho trovato di tutto).
Questa lapalissiana constatazione, la quale in realtà troppo spesso non risulta essere così ovvia, introduce un altra domanda: fino a dove la rivendicazione del diritto alla migrazione per tutti e tutte, indipendentemente dal motivo per cui si migra, dev’essere sostenuto a prescindere da chi si ha davanti? Nei quasi quotidiani rapporti con migranti e rifugiati, mi sono posto spesso quest’ultima domanda. A questo punto lasciatemi per un momento aprire una parentesi sul perché ho deciso di svolgere questa professione. Senza divagarmi troppo, scusandomi per la genericità delle parole (ma sono sicuro che tutti mi capiranno), quando decisi di iscrivermi a Giurisprudenza, lo feci per una scelta politica: per potere difendere i compagni e le compagne, per potere essere un sostegno necessario a chi rischia la propria libertà per cambiare lo status quo, e per difendere tutti quei proletari che, è bene ricordarlo, ancora esistono.
Detto questo, mi sono chiesto: è giusto difendere quella persona che è portatrice dell’idea che dovrei invece combattere, in ragione dell’inviolabile diritto alla migrazione? Quanti di noi si porrebbero dalla parte di richiedenti asilo dichiaratamente fascio-nazionalisti?
Certamente il diritto alla migrazione è un diritto umano inviolabile, e pertanto dev’essere riconosciuto a tutti, ma l’idea secondo cui ogni migrante è inevitabilmente il nostro primo interlocutore per la costruzione di lotte che mettano in discussione il sistema delle frontiere è una falsa idea che non trova alcuna concretezza nella realtà dei fatti. Testimonianza ne sono le pochissime esperienze da cui sono nate delle vere e proprie rivendicazioni socio-politiche costruite unitamente a chi arriva in Italia, come ad esempio l’esperienza dell’accoglienza autogestita di Ventimiglia, il Coordinamento Migranti di Bologna e poche altre.
Pertanto, se vogliamo davvero riuscire a costruire delle lotte sociali, dobbiamo essere noi stessi capaci di leggere le migrazioni per quello che sono: migrano persone portatrici di idee (di cui spesso molto distanti da quelle che vogliono un mondo senza confini e frontiere), e non necessariamente nostri compagni e compagne. Fatto ciò riusciremo a dare un significato più giusto e onesto delle migrazioni, e credo questa debba essere un presa di coscienza necessaria per riuscire a costruire delle lotte sociali trasversali.
Nicholas Tomeo