Nuovi equilibri europei

In un precedente articolo si è discusso delle Zone Economiche Esclusive (ZEE), ora riprendiamo in un certo qual modo il discorso introducendo le Zone Economiche Speciali (ZES).[1] Chiariamo subito che sono due faccende con caratteristiche diverse ma che rispondono a logiche analoghe: massimizzare le risorse geo-territoriali, siano esse di terra o di mare. Nelle righe che seguiranno si intendono tracciare alcune ipotesi, che vedrebbero una stretta connessione tra le politiche espansionistiche asiatiche e la corsa alla definizione di aree speciali o esclusive in punti o ambiti strategici. La strategicità di questi ambiti risiede nel riuscire ad intercettare flussi economici o infrastrutture: essere sulla via principale del commercio con l’oriente è un vantaggio economico notevole. È un po’ la differenza che passa tra l’aprire un’area di servizio su una strada provinciale o su una superstrada.

Sebbene un po’ tagliata con l’accetta questa similitudine va tenuta in debita considerazione, dal momento che il vantaggio competitivo su scala globale si misura sulla posizione geografica e sull’abbattimento di tempi e costi (economicamente parlando tempo e costo sono quasi sinonimi). I vantaggi sono ovviamente per chi investe non tanto per chi ospita, dal momento che tanto le ZEE che le ZES sono predisposte per poter barattare condizioni vantaggiose per chi ha interessi in logistica o produzione in determinate aree geografiche. Si immagini una sorta di asta al ribasso, nella quale la spunta chi offre le condizioni di esercizio economicamente più vantaggiose, cedendo “sovranità territoriale” (termine odioso ma efficace). Per le ZEE si tratta di elargire concessioni a compagnie estere per la realizzazione di infrastrutture (oleodotti, gasdotti, piattaforme di perforazione) o per la pesca e svariate alte attività marittime, compreso il transito di flottiglie militari.

Altro discorso è quello delle ZES, di per sé lievemente più complesso in quanto sotto la dicitura di Zone Economiche Speciali vi è una serie di sub-categorie di aree. Una ZES è un’area di un paese soggetta a normative economiche diverse rispetto ad altre regioni all’interno dello stesso paese. I regolamenti economici della ZES tendono a favorire ed attrarre investimenti diretti esteri (IDE). Ogni ZES è costituita da diverse sottozone che si trovano in luoghi diversi, non necessariamente adiacenti. Quando un paese o un individuo conduce affari in una ZES, ci sono in genere vantaggi economici aggiuntivi per questi, inclusi incentivi fiscali e l’opportunità di pagare tariffe di varia natura più basse (da quelle doganali a quelle per le forniture energetiche o dello smaltimento rifiuti). Le ZES sono quindi uno strumento di politica regionale dello Stato. Il loro compito principale dovrebbe quindi essere quello di accelerare lo sviluppo economico delle regioni colpite dalla stagnazione economica: più povere, meno sviluppate, scavalcate dagli investitori, colpite da un’elevata disoccupazione.

Sulla carta sembrerebbero una sorta di panacea e nella vulgata si a spesso riferimento al miracolo delle ZES cinesi che hanno consentito un impulso di crescita senza precedenti dal periodo del boom economico post bellico. Spesso non si tiene in conto che la Cina sostanzialmente se ne infischia di due fattori ben precisi, inquinamento e diritti dei lavoratori, insomma le due rogne nere per l’economia occidentale. Quindi negli anni passati, grazie alla “politica delle porte aperte” di Deng Xiaoping, molte big corporation ma anche piccole aziende hanno cominciato a trasferire parte della produzione nei nascenti distretti industriali nati per decreto con il solito pragmatismo cinese. I vantaggi erano costituiti dalla rapida crescita delle infrastrutture per il trasporto merci che stavano abbattendo i costi a ritmi tali che conveniva stipulare contratti di breve durata dal momento che ogni sei mesi i costi di trasporto per singolo container venivano ribassati. C’era inoltre da considerare l’agevolazione fiscale e tariffaria, ovviamente unita ad una forza lavoro praticamente infinita e a costi irrisori.

Cina: Altri tempi, altri luoghi ed altri tipi di azioni governative, le quali vengono tutt’ora attuate ricorrendo sistematicamente all’esercito. Nel caso del programma di industrializzazione a tappe forzate di Deng Xiaoping, si è fatto massiccio uso delle cosiddette Bonded Logistic Park (BLP), che rappresentano uno dei molti tipi di zona economica speciale. Gli accordi commerciali sono simili a quelli di un deposito doganale ma su un’area geografica specifica, a volte con capacità portuali internazionali o nei pressi di confini internazionali.[2] Le merci possono essere immagazzinate, lavorate o sottoposte a operazioni di trasformazione, pre-assemblaggio o confezionamento senza pagamento di dazi, quindi la produzione viene riesportata in base a specifiche normative. Dopo questo exploit cinese si è avuto, attorno agli anni ’90, una sorta di effetto imitazione, con gran parte delle nascenti democrazie post Unione Sovietica e con la liberazione degli stati cuscinetto dal patto di Varsavia: una corsa a creare ZES per attrarre mercati avidi di forza lavoro a basso costo e pronta a sgobbare senza lagnarsi troppo. Una delle prime nazioni a realizzare ZES su larga scala fu la Turchia, oggi ne conta ventuno ma le prime 17 furono realizzate fra il 1987 e il 1999 (con buona pace di chi si è accorto della voracità turca solo l’altro ieri).

È solo recentemente però che, vista la solidità delle tigri asiatiche, anche l’Unione Europa ha varato una serie di direttive per coordinare le attività economiche in un programma complesso di gestione integrata di scambi commerciali e transito di merci e materie prime. In realtà il tentativo era stato già fatto sempre negli anni ’90 con la messa a punto delle strategie dei corridoi di sviluppo, poi dimostratasi assai ambiziosa ma con risultati assai deludenti – a tutt’oggi comunque ci ritroviamo sul groppone il suo lascito infrastrutturale, operazioni balzane e inutili come i corridoi ad alta velocità (TAV-Torino Lione in primis). Dopo di ciò si è optato per gli hot-spot (cioè le ZES) e, una volta istituiti, ogni nazione cercasse da sé gli accordi migliori per collegarli. Si parte dalle aree portuali e dai principali snodi per la logistica: i paesi che si affacciano sul mediterraneo ne hanno almeno un paio fra snodi viari nell’entroterra ed aree portuali in via di potenziamento e riqualificazione.

La mappa delle ZES delinea una visione abbastanza chiara delle maggiori aree di transito di merci e flussi economici di ogni sorta. Lì dove i territori sono attraversati da importanti assi strategici si può esser certi di trovare un hub internodale o intermodale, o qualche sito produttivo o molto più semplicemente terreno vergine per attirare nuove attività. È il caso dell’Italia che, tra porti esistenti e nuove aree adibite a zona franca, si sta affacciando al mercato globale offrendo al minor prezzo pezzi ti territorio. Le ZES del Mezzogiorno nascono con l’emanazione del “Decreto Mezzogiorno” nel 2018, al seguito del quale il Governo italiano ha avviato la costituzione delle ZES nelle otto regioni del Mezzogiorno. L’obiettivo delle ZES è quello di favorire lo sviluppo economico della regione e di colmare i divari territoriali tra il Mezzogiorno d’Italia e il resto del Paese.

Finora sono state istituite quattro ZES. Gli incentivi alle imprese consistono in una tassa credito per investimenti del 10%-25% per le grandi, 15%-35% per medie e 20%-45% per le piccole, a seconda della regione in cui l’impresa è stabilita. Anche le imprese all’interno della ZES beneficiano di agevolazioni nelle procedure amministrative ed oneri amministrativi ridotti. Per poter accedere ai suddetti benefici, le aziende devono mantenere la propria attività nella ZES per almeno sette anni e non possono trovarsi in stato di liquidazione. Inoltre, le ZES devono essere collocate in una regione con almeno un’area portuale, indicando un obiettivo esplicito di promozione delle esportazioni (e delle importazioni di input produttivi). Le ZES del Mezzogiorno essendo state istituite molto di recente sono di difficile valutazione. Tuttavia, le regioni italiane hanno dovuto presentare un cosiddetto Piano Strategico di Sviluppo nella domanda per ottenere per parte del loro territorio lo status di ZES. Questo documento contiene un’analisi dell’impatto previsto dall’istituzione di ciascuna zona: pur essendo una stima ex ante, fornisce informazioni sulla metodologia utilizzata per la stima dell’impatto e sugli indicatori ritenuti pertinenti.

In un documento europeo derivante da ESPON 2020 si legge: “Le stime dell’impatto differiscono tra le ZES, ma vengono considerati diversi indicatori: l’impatto sulle esportazioni, l’occupazione, gli investimenti esteri, i trasferimenti di tecnologia, la produttività dell’economia locale e l’impatto sulle entrate pubbliche. La descrizione più dettagliata della metodologia per la stima è fornita nel piano strategico della ZES Calabria. Gli autori hanno utilizzato una serie di modelli economici per stimare l’impatto atteso diretto, indiretto e indotto sull’occupazione, l’impatto sulle esportazioni, e l’impatto sui legami economici tra le diverse regioni collegate all’interno della ZES. Gli autori forniscono anche una stima del costo di costituzione della ZES per il governo regionale. Per stimare le influenze positive sull’occupazione e sulle esportazioni della ZES calabrese, gli autori simulano l’andamento delle esportazioni delle imprese industriali nonché il numero di dipendenti che occupano su un orizzonte temporale di 10 anni (2018-2028). Le stime suggeriscono che, in un periodo di dieci anni, le esportazioni saranno più che triple per le società situate all’interno della ZES, mentre aumenteranno solo marginalmente per le società al di fuori della ZES o se la ZES non è affatto istituita. Gli autori stimano che ulteriori 16,000 posti di lavoro (diretti, indiretti e indotti) saranno creati dalla ZES, quasi sette volte di più che senza di essa.”[3]

Come spesso accade alle mirabolanti analisi e proiezioni, soprattutto nel Bel Paese, non fanno seguito risultati concreti e non credo che quanto letto sopra possa fare eccezione alcuna. Una ZES, come abbiamo già descritto, è appositamente ideata per agevolare il transito di merci e, alcune, hanno lo specifico obiettivo di agevolare l’export in quanto il prodotto che vi entra e vi riparte viene detassato o alleggerito dai dazi doganali. In particolare ciò è reso possibile dal fato che quei prodotti non escono dalla ZES se non per uscire dal paese. Ebbene è assai chiaro che una zona creata con lo scopo specifico dell’attività esportiva abbia come ricaduta principale quella di una visione di crescita proprio dell’export. Di là delle visioni future, quello che sappiamo in concreto è che l’Italia e l’Europa non sono la Cina. A quelle latitudini le ZES hanno funzionato (ovviamente in termini di crescita di PIL) in quanto erano inserite in un contesto nel quale lo Stato controlla e preordina tutto, non ha leggi interne che impediscono gli aiuti statali alle imprese essendoci una forte partecipazione statale all’attività produttiva.

Ciò che si può prevedere sarà un esborso pubblico per la creazione di infrastrutture, un saccheggio di forza lavoro e agevolazioni fiscali, contratti precari e tutto il solito canovaccio. Finite le agevolazioni, magari a pensar male tarate esattamente sul ciclo di vita previsto per quelle attività produttive, le care aziende faranno fagotto, come del resto sono abituate a fare. Forse ci sarà un po’ di tira e molla, la regione potrà concedere qualche altro annetto di agevolazioni e si ripeteranno i caroselli stile Pomigliano, Termini Imerese, ecc. Di là delle disgrazie nostrane, quello che appare chiaro però è che lungo le direttrici dello “sviluppo” si perpetueranno quelle dinamiche di svendita del territorio che hanno sempre caratterizzato il nucleo centrale di ogni strategia di attrazione di capitali: i famosi capitali stranieri, che per inciso può capitare che siano anche aziende nostrane con sede all’estero – vedi FCA. Quello che però è assai meno consueto sarà lo scontro fra stati per farsi attraversare dai flussi economici. Questo unito all’enorme quantitativo di fondi stanziati tra programmi green e recovery, per altro ampiamente anticipati nei programmi Horizon e Next-Generation ancor prima della pandemia, costituisce la risposta europea alle politiche di espansione cinese. Fermo restando le conflittualità in atto, si pensi all’asse Libia-Turchia per il controllo della parte orientale del Mediterraneo ma anche a tutto ciò che si affaccia in quella parte di mare, gli scenari che si presentano sono di ulteriori inasprimenti degli attriti in una bagarre nella quale ognuno vuole accaparrarsi un posto lungo la grande arteria economica che dalla Cina, attraversando il Medioriente, si insinua fin nel cuore dell’Europa.

J. R.

NOTE

  1. Cfr. JR, “La ZEE italiana nella complessità del mare nostrum”, in Umanità Nova, n° 23, 2021, https://umanitanova.org/?p=14426
  2. Cfr. “Sourcing in China? Give BLPs a VIP Role”. Inbound Logisitics. 2005. Retrieved 9 May 2014.
  3. European Special Economic Zones Research spin-off project of “The World in Europe: Global FDI flows towards Europe (ESPON FDI)” Policy Brief November 2020 | https://www.espon.eu/sites/default/files/attachments/Policy%20Brief%20SEZ%20corr%2003-12.pdf

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