«Dappertutto urla e lamenti di chi ritrova i corpi dei suoi cari.
Bambini che erano riusciti a sfuggire dai cortili ed erano morti sui gradini di casa.
La schiena di un uomo e il viso di un neonato sotto il braccio.
Sono tutti morti, dice il mio vicino.
Vuole farmi vedere la sua famiglia.
Ci sono giornalisti che scattano fotografie , e uomini che derubano i cadaveri.
Il cielo è limpido. Tutto è morto ora, non può più essere ucciso».
(Halabja: 16 marzo 1988, Choman Hardi, poetessa curda)
Trentaquattro anni. Tanto è il tempo trascorso da quando il regime Ba’athista di Saddam Hussein, nel pieno dellla guerra Iraq-Iran, sferra un attacco chimico alla pianura di Koi, ai villaggi di Guptara e Askar nel Kurdistan Iracheno (Iraq settentrionale). Halabja, la città più colpita, quel 16 marzo 1988 si sveglierà con 5mila vittime e un numero imprecisato di feriti (7 mila/10 mila) mentre decine di sopravvissuti, nel tempo, si ammaleranno di cancro. A trent’anni dal genocidio di Halabja Saddam Hussein non c’è più, ma il Bashur (Kurdistan Iracheno) resta ancora nel mirino delle armi chimiche. Ora come nel 1986, qui la Turchia continua ad attaccare il movimento di liberazione curdo con agenti letali. «L’esercito turco usa ogni tipo di armi: bombe, aerei da combattimento, droni per colpire le aree occupate popolate dai curdi, del Rojava (Siria settentrionale) e del Bashur. Video e intercettazioni telefoniche accertano come negli ultimi due mesi 17 guerriglieri siano stati uccisi dalle armi chimiche» denuncia Devriş Çimen, uno dei rappresentanti in Europa dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli). «La comunità internazionale dovrebbe invitare la Turchia a porre fine all’oppressione che da 38 anni porta avanti contro il popolo curdo, dentro e fuori dai confini turchi», aggiunge Ҁimen. «Chi si oppone al governo di Ankara viene arrestato. Ultimamente, Erdogan ha fatto imprigionare Sebnem Korur Fincanci, presidente Associazione Medica Turca (TTB) e 11 giornalisti curdi; rei di aver indicato la Turchia come responsabile degli attacchi chimici verso i curdi», conclude Ҁimen. Le armi chimiche sono state vietate dal Protocollo siglato a Ginevra nel 1925 che entra in vigore nel 1997 con l’istituzione dell’OPCW (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche); un organo che, così come l’Onu, continua a tacere davanti ai crimini compiuti dalla Turchia. Alcuni giorni fa le Forze Popolari di Difesa hanno fatto sapere che fra aprile e ottobre, la Turchia ha colpito le postazioni di guerriglia per 2476 facendo ricorso ad armi proibite (gas mostarda, lacrimogeni). Gli attacchi non si limitano solo alle aree di combattimento, ma spesso colpiscono anche zone residenziali. Lo scorso luglio, un resort di un villaggio nei pressi della città di Zakho, è stato attaccato da colpi dell’artiglieria turca che ha ucciso 9 persone fra le famiglie riunite nei pic-nic di una calda giornata d’estate. Ancora, sabato 29 ottobre, un drone turco ha centrato un’abitazione nel villaggio di Xanesor, nel distretto di Sinjar, dove la popolazione ezida scampata al genocidio dell’Isis del 2014 ha proclamato un l’autonomia democratica. Le continue incursioni turche aggravano le condizioni di instabilità economica, sociale e politica del Bashur, da cui nell’ultimo anno sono fuggite circa 38mila persone.
All’emigrazione è costretta anche la popolazione del vicino Rojava, che resta senza alcun tipo di rifornimento quando il governo Barzani (Bashur-Kurdistan iracheno) decide di chiudere la frontiera con la Siria.
Beni primari che mancano, come l’acqua che proviene dal fiume Eufrate e dalla stazione di Alouk, nel distretto di Al-Hassake, che il governo turco blocca per sfiancare la popolazione. Gli accordi siglati fra Usa e Turchia nel 2019 (per un cessate il fuoco seguito all’operazione turca “Sorgente di pace”) e la tenace resistenza della guerriglia, non permettono ad Erdogan di invadere facilmente il Rojava, che di conseguenza intensifica le aggressioni sul territorio curdo.
«Non sono bombardati solo i fronti, come quello di Tel Tamir. I droni colpiscono la società civile, le strutture politiche dell’amministrazione autonoma della Nord e dell’Est della Siria (AANES) per sfaldare la solidarietà al movimento. Le istituzioni dell’AANES e le donne continuano ad educare la popolazione affinché non si abbandoni la lotta », spiega una internazionalista.
«C’è una pesante infiltrazione del MIT- servizi segreti turchi-, che tenta di corrompere le famiglie del Rojava trasformandole in spie ed assassini delle persone legate al movimento di liberazione; mentre Daesh si sta rafforzando in combutta con la Turchia. Tutta la zona al confine con la Turchia è curda, ma Erdogan vuole trasferirvi i rifugiati siriani operando un cambio demografico». La città di Afrin- dal nome di uno dei tre cantoni che formano il Rojava e occupato dalla Turchia con l’operazione “Ramoscello d’ulivo” nel 2018- è diventata teatro degli scontri tra il gruppo jihadista di Hayat Tahir Al Sham (ex Al Nusra) e il Syrian National Army. La Turchia non interviene perché, come afferma Ciya Kurd, co-presidente del dipartimento per le relazioni estere dell’AAMNES, «Erdogan vuole liquidare i gruppi a lui ideologicamente contrari e quindi, nell’ambito degli accordi tra Ankara e Damasco, ha come obiettivo che HTS combatta contro le SDF (Syrian Democratic Forces)». Nei primi sei mesi del 2022 migliaia di alberi d’ulivo sono stati sradicati da Afrin. La popolazione che vive ancora in città e nelle campagne circostanti subisce violenze e rapimenti, mentre le donne vengono stuprate dagli occupanti. Secondo una fonte del media Anf english, nel mese corrente HTS ha torturato e ucciso nella pubblica piazza un ragazzino di 17 anni; mentre nell’ennesimo bombardamento turco nel distretto di Afrin, a Sherawa, sono stati feriti due bambini di 3 e 4 anni.
La Turchia continua ad espandere la propria occupazione costruendo due basi militari nei pressi del valico di Al-Ghazawiya (Aleppo) e di Deir Bawut (Idlib), gestite con HTS.
«Le forze internazionali non rispondono alla richiesta del Rojava di chiudere lo spazio aereo violato dai droni turchi che uccidono anche civili», aggiunge la internazionalista. «Cinque ragazzine, ad agosto, sono morte dopo un attacco al centro educativo aperto dall’AAMNES in collaborazione con le Nazioni Unite». Nel mirino di Erdogan ci sono obiettivi politici, ma soprattutto donne. Sulaymannyya (Bashur), nell’ultimo anno è stata insanguinata da cinque omicidi politici. L’ultimo è avvenuto il 4 ottobre quando alcuni colpi di pistola hanno ucciso Nagihan Akarsel giornalista, componente dell’Accademia di Jineoloji e attivista curda del movimento di liberazione. Akarsel muore nei giorni in cui il Rojhelet (Kurdistan Iraniano) si infiamma per la morte della 22enne curda JÎna “Mahsa” Amini, assassinata dalla polizia morale iraniana perché indossava male il velo. Nel Rojhelet scoppiano violente proteste tutt’ora in corso, nonostante un elevato numero di vittime (oltre 200). Con la morte di JÎna, i curdi iraniani si ribellano alla repressione che il governo dell’ Ayatollah perpetra verso di loro, mentre il KJAR (movimento delle donne curde del Rojhelet), attivo clandestinamente, vuole unire i gruppi di opposizione al regime iraniano e ribaltare il dittatore. Al grido di “Jin, Jiyan, Azadi: donna, vita, libertà”, slogan nato con il movimento di liberazione femminile curdo nel 2013, la ribellione al regime di Khomeini si è estesa al resto dell’Iran in una rivolta guidata dai curdi.
Alessia Manzi