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Moneta e dominio. La crisi del dollaro spinge verso la guerra.

Moneta e dominio. La crisi del dollaro spinge verso la guerra.

Gita Gopinath, primo vicedirettore del Fondo Monetario Internazionale, ha affermato, in un’intervista pubblicata il 31 marzo sul Financial Times, che le sanzioni alla Russia erodono l’egemonia del dollaro USA sulla finanza mondiale.

Secondo l’economista indiana, le sanzioni imposte alla Russia hanno accelerato una campagna in corso dal 2014 per ridurre la dipendenza del governo di Mosca dal dollaro. Nonostante ciò, la Federazione Russa aveva ancora circa un quinto delle sue riserve estere denominate in dollari appena prima dell’invasione, con una quota notevole detenuta all’estero in Germania, Francia, Regno Unito e Giappone. I governi di quei paesi si sono ora uniti agli USA per isolare Mosca dal sistema finanziario globale.

A questo si aggiunge l’azione del governo cinese. Pechino stava internazionalizzando il renminbi (la valuta nazionale cinese meglio conosciuta come Yuan) anche prima dell’attuale crisi ed era già in vantaggio rispetto ad altre nazioni nell’adozione di una valuta digitale della banca centrale: circa un quarto del calo della quota del dollaro può essere spiegato da un maggiore utilizzo del renminbi cinese. È bene ricordare che la Cina considera le sanzioni alla Russia come “illegali”.

Per ora però il pericolo per il dollaro USA non sembra venire da una contrapposizione Ovest-Est, quanto da una diversificazione delle riserve in valute diverse dai “magnifici quattro” – dollaro USA, sterlina UK, euro UE, Yen giapponese – come ad esempio il dollaro australiano o la corona svedese. A questa tendenza si aggiunge la tendenza dei governi di paesi che non hanno riserve valutarie, come El Salvador e il Nicaragua, a rivolgersi alle cripto valute.

La crisi del dollaro si sviluppa dalla fine della ricostruzione postbellica. Dagli anni ’60 del secolo scorso, gli stati dell’Europa occidentale ed il Giappone hanno iniziato ad accumulare enormi riserve in dollari che potevano utilizzare per acquistare asset statunitensi. Le riserve di dollari in Europa ed in Giappone erano ora così grandi che se quei paesi acquistassero oro con i loro dollari sotto il gold standard, potrebbero esaurire le scorte auree statunitensi in un istante. Alla fine del 1965, il volume di oro detenuto dal Giappone ha superato per la prima volta gli Stati Uniti nel dopoguerra.

All’inizio degli anni ’70 le partite correnti hanno registrato un disavanzo. Gli Stati Uniti hanno iniziato a perdere dollari a livello globale non solo a causa degli investimenti all’estero ma anche per un eccesso di importazioni – insomma i produttori nazionali hanno perso terreno rispetto a quelli esteri. Per far fronte a questa situazione, nell’agosto del 1971 il presidente Nixon annunciò la fine della convertibilità in oro del dollaro, facendo venir meno uno dei pilastri degli accordi di Bretton Woods che, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, avevano regolato il sistema monetario internazionale. Insieme alla convertibilità del dollaro in oro, ad essere scardinato è il sistema di cambi fissi fra principali valute.

Nel corso degli anni ’70 la bilancia commerciale degli Stati Uniti ha beneficiato meno dell’esportazione di beni e servizi reali e più della domanda globale di attività finanziarie e della liquidità che hanno fornito. Negli anni ’80, gli Stati Uniti hanno accumulato passività esterne nette, che sono salite al 70% del PIL nel 2020. Nel 1985, in una riunione al Plaza Hotel di New York, alla quale hanno partecipato banchieri centrali e ministri delle finanze delle allora grandi 5 economie, fu deciso di vendere dollari e acquistare altre valute per deprezzare la valuta USA. L’accordo del Plaza è stato un’altra pietra miliare nel relativo declino dell’imperialismo statunitense: tuttavia, il dollaro continua a dominare e rimane la valuta rifugio nei momenti di crisi.

In realtà, anche dopo la fine della convertibilità il dollaro continuava ad essere agganciato all’oro, perché il mondo rimaneva diviso in blocchi e i paesi che non aderivano al blocco controllato dagli Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina e loro alleati, scambiavano le loro merci con il blocco controllato dall’imperialismo angloamericano sulla base del baratto, contro altre merci o contro oro. I prezzi che venivano fissati sulla base del corso forzoso all’interno di ogni blocco dovevano poi essere convertiti in oro sul mercato mondiale, provocando periodiche crisi finanziarie nei paesi che adottavano il dollaro come moneta internazionale.

In realtà il principale strumento di controllo dei flussi finanziari mondiali è il Fondo Monetario Internazionale, in cui gli Stati Uniti godono della maggior parte dei diritti di voto. Anche se dopo il 1971 il Fondo ha perso il ruolo di controllo della politica monetaria degli Stati membri, continua a svolgere un ruolo fondamentale per favorire la cooperazione monetaria internazionale, cioè evitare svalutazioni competitive delle monete. Oltre a ciò il FMI si occupa di concedere prestiti agli Stati membri in caso di squilibrio della bilancia dei pagamenti e di ristrutturazione del debito estero per gli Stati sull’orlo della bancarotta.

Il ruolo del dollaro, quindi, più che dal ruolo economico, finanziario e monetario della valuta, dipende dal ruolo degli Stati Uniti all’interno del Fondo Monetario Internazionale e, inoltre, dal fatto che, dopo la caduta del Muro di Berlino, anche la Cina, gli stati che facevano parte del Comecon e quelli nati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica uno dopo l’altro sono entrati nel Fondo Monetario Internazionale e nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, riconoscendo l’egemonia degli Stati Uniti e del dollaro, ponendo di fatto fine al mercato mondiale.

La crisi del dollaro quindi non viene dalla concorrenza delle altre monete ma, viceversa, la concorrenza delle altre monete si avvantaggia della crisi del dollaro che ha motivi interni.

Gli Stati Uniti esercitano un controllo sovrano sulla propria moneta visto che anche il controllore, il Fondo Monetario Internazionale, è controllato dagli Stati Uniti. La moneta in regime di corso forzoso, cioè di inconvertibilità in oro come avviene oggi, non è più rappresentante di valore ma simbolo di valore, quindi il governo nazionale può imporre, all’interno dei propri confini, un valore convenzionale alla propria moneta. Quando poi entriamo nel mercato mondiale, però, la moneta nazionale dovrà misurare il proprio valore con quello delle altre monete e allora i vincoli ritornano, in termini di riserve, bilancia dei pagamenti, indebitamento ecc. Tutto questo gli Stati Uniti lo aggirano grazie al controllo che esercitano sul FMI e, indirettamente, sulla politica monetaria e finanziaria mondiale.

Il controllo che gli Stati Uniti esercitano sul FMI deriva dal loro ruolo alla fine della Seconda Guerra Mondiale – di “Stato guida del mondo capitalistico” come si diceva allora: questo ruolo gli Stati Uniti continuano a svolgerlo grazie alla spesa militare più alta al mondo. Secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), aggiornati ad aprile 2021, il governo di Washington spende 778 miliardi di dollari, pari al 39% dell’intera spesa militare di tutte le nazioni mondiali (1.981 miliardi di dollari).

I marxisti spesso dimenticano il feticismo che si nasconde nelle relazioni capitalistiche e dimenticano che i rapporti monetari, anche quelli fra Stati, sono rapporti di dominio e il dominio si basa sulla violenza, di cui la spesa militare è una forma di espressione. In altre parole, il dominio del dollaro cammina sulla base del dominio militare degli Stati Uniti.

In fondo però questa è anche la ragione della crisi del dollaro: nel biennio 2019-2021, il budget per la guerra certificato dal Congresso degli Stati Uniti è cresciuto del 9,75%, mentre il prodotto interno lordo degli USA, sempre nello stesso periodo, è cresciuto del 7,32. Questo vuol dire che beni e servizi prodotti per gli investimenti o per il consumo finale sono stati distrutti dalla spesa per la guerra.

Ha un bel dire l’attuale presidente Biden che le spese graveranno sui più ricchi, i più ricchi sono anche quelli che hanno più possibilità di scaricare i loro costi, compresi gli oneri fiscali, sui ceti popolari attraverso l’aumento dei prezzi e degli affitti. In questo quadro, il fatto che la maggiore spesa militare sia finanziata attraverso maggiore liquidità ha un’importanza relativa: non è mai successo che l’aumento della massa monetaria in circolazione si traduca rapidamente in un aumento dei beni e servizi a disposizione dei ceti popolari.

A lungo andare, il costante aumento delle spese militari se, da una parte, consente agli Stati Uniti di mettere a tacere i possibili concorrenti al dominio mondiale, dall’altra si traduce in crescenti squilibri finanziari che minano la fiducia nel dollaro. Il recente aumento dei prezzi delle fonti energetiche può essere anche un riflesso della sfiducia nel dollaro e nella stabilità monetaria e finanziaria internazionale. D’altra parte gli Stati Uniti non hanno più tempo: nel 2030 il prodotto interno lordo cinese eguaglierà quello USA e, da quel momento, la spesa militare cinese potrà eguagliare quella degli Stati Uniti. È credibile quindi che nella mente dei pianificatori del Pentagono assuma sempre più concretezza l’idea di una guerra preventiva contro la Cina.

Una possibile soluzione alternativa è quella prospettata da Kevin Gallagher e Richard Kozil-Wright, economisti di sinistra dell’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo). In un nuovo libro, The Case for a New Bretton Woods, sostengono che all’indomani del COVID, i governi hanno l’opportunità di attuare misure radicali, riforme per “riscrivere (coraggiosamente) le regole per promuovere un ordine economico mondiale post-Covid prospero, giusto e sostenibile – una Bretton Woods per il 21° secolo”, oppure “rischiamo di essere inghiottiti dal caos climatico e dalla disfunzione politica”.

Gli autori si rifanno ad un’immagine di Bretton Woods apologetica, secondo cui l’accordo stabiliva regole internazionali per scambi armoniosi e flussi di capitali che i paesi avrebbero seguito. Sembra i due decenni di ricostruzione e crescita successivi al 1945 non siano causati dalle immani rovine provocate dalla guerra ma da Bretton Woods. Gli autori ritengono che l’accordo sia stato un seguito internazionale del programma di grande successo del New Deal per l’occupazione e la crescita istituito dal presidente degli Stati Uniti Roosevelt per porre fine alla Grande Depressione del 1929. Gallagher e Kozul-Wright osservano: “Il programma del New Deal non solo ha abbandonato il gold standard, ma ha anche rotto con la più ampia agenda internazionale liberale affrontando l’élite finanziaria sia in patria che all’estero e ha aperto le porte a una narrativa alternativa a sostegno di un’agenda di politica pubblica attivista”. Gli autori affermano che d’ora in poi questo è il modello su cui occorre tornare per realizzare un’espansione armoniosa e uniforme dell’economia mondiale: “Fornisce un progetto per il cambiamento che nessuno interessato al futuro del nostro pianeta può permettersi di perdere”.

Quello che gli autori si dimenticano di dire è che Bretton Woods ha segnato il predominio degli Stati Uniti prima fra i paesi capitalistici in conseguenza della guerra e la stessa crescita e lo stesso “successo” del New Deal non ci sarebbe stato senza la guerra, tanto è vero che la disoccupazione di massa negli Stati Uniti è finita solo quando, dopo Pearl Harbour, è stata introdotta la coscrizione obbligatoria ed è stata introdotta l’economia di guerra. Insomma, non si può pensare ad una nuova Bretton Woods senza richiamare alla mente la guerra che l’ha preceduta. Da destra e da sinistra, le contraddizioni della finanza internazionale spingono rapidamente verso la guerra.

Tiziano Antonelli

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