Quando viene meno la capacità analitica di una vasta parte del corpo sociale la deriva è sempre disastrosa. Evocando il quadro di Goya “Il sonno della ragione genera mostri” (El sueño de la razón produce monstruos), questi ultimi cinque lustri hanno visto un progressivo venir meno della stessa. Quella ragione utile ad investigare il presente e comprenderne tanto le contraddizioni profonde quanto ad anticipare l’esito dei processi dominanti. Difficile in queste poche righe descrivere tutta la parabola discendente che ha portato il movimento di opposizione extraparlamentare in tutte le sue sfaccettature, da posizioni di reale avanguardia sociale e rivoluzionaria a quelle di mero inseguitore dei processi socio-economici e delle varie agende finanziarie e governative. È però possibile estrarre un dato macroscopico dall’osservazione degli ultimi venti o venticinque anni. Si è osservata una sistematica perdita di capacità analitica dovuta senza dubbio a svariati fattori, ma tra i tanti ve ne sono alcuni che meritano di essere almeno enunciati. In prima istanza, il movimento non è sembrato immune dal tracollo delle grandi ideologie novecentesche che hanno trascinato con sé anche la struttura analitica tipica di quel novecento gravido di conquiste. Ebbene, per molto tempo molta parte della costellazione della cosiddetta sinistra extraparlamentare ha addirittura abbandonato la visione anticapitalista. Il grosso problema è che quando ci si allena a non pensare più in un certo modo poi si finisce col farci l’abitudine. Le grandi linee di pensiero riuscivano a cogliere in maniera organica le dinamiche che conformavano il periodo storico e a immaginare gli scenari futuri. Oggi quella capacità sembra venuta meno e appare imbarazzante il cicaleccio su problemi secondari o collaterali alla crisi in atto. Quel che veramente imbarazza è la trasformazione della militanza in tifoseria da stadio, il dibattito trasfigurato in polemica che denuncia una visione grottescamente manichea della realtà. Mancando una base analitica attraverso la quale interpretare il presente e aggiungendo lo scivolamento verso visioni complottarde, può cominciare a delinearsi con un certa chiarezza la condizione nella quale siamo finit*. Questa premessa è necessaria per evitare fraintendimenti nelle righe che seguono, nelle quali si tenterà di delineare ed esemplificare la distorsione introdotta da quasi venticinque anni di volontaria astinenza dal pensiero realmente critico. La prima evidenza è la quasi totale mancanza di autocritica; a dirla tutta, solo di recente sembra far capolino qualche articolo o pubblicazione che comincia a fare i conti con la storia recente, ma non è ancora un processo maturo. Questa mancanza riverbera pesantemente nello strenuo e caparbio ricorso a pratiche e parole d’ordine oramai orfane di senso. Non perché inutili in sé, ma perché non supportate o non più conseguenti ad una strategia che abbia come orizzonte un’istanza realmente rivoluzionaria. La seconda evidenza, facente eco alla prima, riguarda l’incapacità oramai conclamata di individuare le linee di tendenza del capitale e di immaginarne gli esiti. Ci si chiude spesso nella contingenza di un processo, lasciando insondato il processo stesso; un esempio su tutti potrebbe essere il reddito di cittadinanza. Un provvedimento che pur uscito da un’area politica che definire ridicola sarebbe un complimento, non è farina propriamente grillina. Chi si ferma a questa lettura non ha contezza di cosa sta accadendo nel resto del mondo. Il reddito di cittadinanza va letto all’interno della fase storica, altrimenti sfugge completamente il suo significato. È una semplice misura che coglie due piccioni con una fava, ossia agisce da calmiere per gli strati meno abbienti del corpo sociale e sostiene la domanda di beni e servizi. Una grossa operazione di “pompieraggio”. Non ci si può comunque limitare a questa considerazione; la questione del rdc va inserita in una chiave di lettura assai più ampia, sistemica e strategica, che solo un punto di vista squisitamente anticapitalista può fornire. Il reddito di cittadinanza è essenziale al sistema per tenere a bada quello che una volta si chiamava “esercito industriale di riserva”. Ora questo “esercito”, magari non serve direttamente l’industria, ma funge da leva per ribassare i salari e far digerire il precariato, alimentando la lotta orizzontale tra impoverit*. Invece di impaludarsi fra reddito di cittadinanza si o no, sarebbe stato più proficuo porsi la domanda: reddito di cittadinanza, perché? Analogo discorso per l’invasione dell’Ucraina. Forse qui la visione manichea ha raggiunto l’apoteosi; o stai con l’uno o stai con l’altro. Non è ammessa una visione altra che non sia il pro Putin o il pro Ucraina. Delirante! Mancano anche qui una lettura più attenta dei fatti e della fase storica, nonché la capacità di comprendere i vari piani della problematica. C’è ovviamente un piano internazionale che sta vedendo il blocco occidentale arretrare sotto il peso di quella che qualsiasi economista definisce stagnazione secolare (crescita del PIL minore del 3%), con l’Europa che arranca con una media del 2% negli ultimi due lustri, fatti salvi i contraccolpi del COVID. Si badi bene che questa situazione permane dalla fine degli anni ’90. All’interno di questo scenario, il traino economico è negli anni mutato e con esso la struttura stessa della globalizzazione, che, per inciso, quando vestiva a stelle strisce, era già bella che sul viale del tramonto nei giorni in cui ci si scornava a Genova. Si affacciano nuovi soggetti che sgomitano per accaparrarsi tutto quello su cui ancora è possibile mettere le mani, dal landgrabbing cinese ai contratti energetici russi fino alle strategie di svalutazione della rupia per attirare la produzione in India. È in questo bel quadretto che si inserisce il conflitto russo-ucraino, una prova di forza fra opposti imperialismi. Certo, va compreso anche il piano locale, con una popolazione ucraina in costante tensione dal 2009, che ha visto i primi scontri nel 2014 e adesso vive l’orrore della guerra conclamata, avendo vissuto l’alternarsi di governi proni alle oligarchie interne o a quelle russe, fino all’ultimo governo assai più aperto ad occidente, per non dire di peggio. È chiaro che in questo quadro di successivi scossoni e crisi economiche, vedersi arrivare addosso bombe e missili, costringe chiunque non abbia vie di fuga a fare delle scelte e a prendere una posizione qualunque essa sia, purché dia la possibilità di salvare la pelle o di avere una parvenza di utilità per difendersi. Ora, quante panzane e quanti sproloqui siamo costantemente costrett* a leggere su questa ennesima guerra tutta interna al capitale? E si potrebbe andare avanti con altri “casi” anomali fino a scoperchiare il bubbone della spesa sociale sanitaria, dove si sono viste le più assurde scaramucce tra chi giustamente si oppone alle spese militari a scapito di un servizio sanitario realmente efficiente tanto per chi ci lavora quanto per chi ne usufruisce, mentre alcuni pezzi di movimento addirittura sconfessavano il Servizio Sanitario Nazionale, in quanto foriero degli interessi delle multinazionali e funzionale alla casta dei medici. Se da un lato le ingerenze aziendalistiche di stampo neoliberista e i tentacoli del mercato hanno effettivamente ridotto la sanità ad una sorta di nastro trasportatore di fondi pubblici verso le tasche private, dall’altro è assai più imbarazzante voler buttare via il bambino con l’acqua sporca. Eppure, nel processo di progressiva perdita di contatto con la realtà, interi pezzi di movimento hanno preso derive di questo tipo. È innegabile che in queste condizioni, sia assai difficile far fronte ad una delle fasi storiche più complesse degli ultimi cinquant’anni; per una totale incapacità di far presa sui territori e di distinguere le ombre dalla realtà; per il fatto di preferire i complotti alla realtà della sussunzione totale al capitale. Siamo ai minimi storici cha ci piaccia ammetterlo oppure no. Le tanto sbandierate reti di solidarietà e mutualismo, tanto in voga agli inizi degli anni duemila, sono morte e sepolte, schiacciate da leaderismi e dalla sete di egemonia di questo o quel pezzo di movimento. Il precariato ha talmente indebolito anche i legami politici da causare delle lacerazioni nel tessuto movimentista, creando arcipelaghi con isolette di autoreddito o nicchie di mercato, depotenziando l’impegno militante fino a renderlo effimero e sempre più simile al volontariato. Ciclo dopo ciclo, anno dopo anno, manifestazione dopo manifestazione, siamo spariti senza più far paura a nessuno. Abbandonando i fondamentali che chiarivano i conflitti insiti nell’esistenza stessa del capitale, abbiamo confuso il conflitto capitale-lavoro con il conflitto orizzontale per accaparrarsi un lavoro o peggio, sentirsi “sulla stessa barca” dei padroni. Il conflitto capitale-natura è stato storpiato fino a giungere alla narrazione melensa dell’ecologismo più pingue, finendo per lottare “abbracciati agli alberi”. Il conflitto tra capitale e riproduzione sociale è diventato la lotta interna fra piccola borghesia proletarizzata e chi ancora sta a galla, rivendicando la perduta capacità reddituale. In tutto questo strano mondo c’è bisogno di riprendere il bandolo della matassa e di fare chiarezza. Recuperare la facoltà raziocinante della dialettizzazione dei problemi e della comprensione dei processi che stritolano individui e comunità in funzione del vero unico e solo nemico esistente, il modo di riproduzione capitalista.
JR