Cominciamo con una cronaca spicciola, ad immediato ridosso della scrittura di queste righe (domenica 25 ottobre 2020). L’ineffabile governatore della Regione Campania, Vincenzo De Luca, annuncia agli inizi della settimana che, dati i numeri epidemiologici, lui porrà immediatamente la Campania in lockdown, stile 9 marzo. A differenza del lockdown nazionale scorso, però, di una qualsiasi forma di assistenza al reddito perduto da attività e dipendenti, già minimale ed insufficiente all’epoca, nessuna traccia. In pratica, la condanna alla miseria più nera, al fallimento di moltissime imprese e conseguenti licenziamenti di decine di migliaia di dipendenti.
Un dato spesso non approfondito dalle cronache ma neanche dalle analisi “movimentiste” è quello relativo al mutamento delle attività commerciali nelle aree urbane. Fino a circa 20-30 anni fa le attività nelle zone densamente abitate annoveravano botteghe artigiane per produzione o riparazione di oggetti d’uso, dal calzolaio all’elettrotecnico passando per falegnamerie e sartorie. Nel tempo queste attività sono state man mano soppiantate da negozi di elettrodomestici, di telefonia o elettronica, da attività legate alla ristorazione o alle attività ricreative (vedi le palestre spuntate come i funghi).
È chiaro, cioè, che interi settori produttivi sono stati assorbiti nella grande distribuzione o addirittura annichiliti dalla stessa, è però altrettanto chiaro che alcuni di questi settori non hanno trovato più ragion d’essere visto il cambiamento strutturale della produzione industriale, fatta per durare il minimo indispensabile e per essere buttata in quanto la riparazione sarebbe più onerosa dell’acquisto di un nuovo bene: questo vale dal vestiario alle apparecchiature elettroniche.
Tale cambiamento di paradigma che ha visto la chiusura progressiva di esercizi di piccolo cabotaggio per la produzione di beni a supporto delle attività domestiche o residenziali, ben radicate nel contesto urbano tanto da costituire il tessuto capillare della circolazione economica a piccola scala, ha reso più fragile l’economia urbana. Attività ludico-ricreative e di ristorazione hanno un grosso svantaggio: sono le prime a soffrire per impennate di costi (inflazione o tasse) o per sofferenze generalizzate nella creazione di reddito; inoltre, senza un flusso sostenuto di avventori e clienti, viste le spese fisse di queste attività spesso in gestione conto terzi o in franchising o in locazione, basta un anticipo di chiusura per rendere inutile l’apertura.
Quello che allora spesso non viene preso in considerazione è ciò che comporta la trasformazione di grosse parti del tessuto urbano in clusters di ristorazione e affini: esporre una grossa componente dell’economia locale alle “intemperie” del caso, come crisi economiche o, in questo caso, pandemie. Il caso napoletano è poi emblematico: nel giro di due lustri l’economia del distretto ha subito un cambiamento profondo, ricalibrandosi sul business del turismo, anche con notevole successo ma questa macchina veloce dell’estrazione di valore dal processo di turistizzazione del territorio ha mostrato tutta la sua debolezza in questa fase critica. Il discorso, però, è valido in generale.
Tornando alla cronaca, venerdì 22 viene indetta da un circuito di commercianti e ristoratori – seguiti dai loro dipendenti e con l’adesione di una serie di realtà di movimento napoletano legate soprattutto ma non solo ad un “meridionalismo di sinistra” – una iniziativa di protesta, il cui sentire comune è sintetizzabile nello slogan “De Luca tu ci chiudi, tu ci dai da mangiare”. L’iniziativa si trasforma subito in un corteo notturno che sfocia, sotto la sede della Regione Campania, in vivaci scontri con le forze dell’ordine, messi in atto soprattutto da persone legate al tifo calcistico. Il giorno dopo, inoltre, una manifestazione di protesta sotto la sede di Confindustria – indetta dall’area SI-COBAS, ma alla quale partecipa mezzo movimento napoletano – viene caricata immediatamente quando cerca solo di accennare ad un corteo, portando per alcune ore lo scompiglio nelle zone “bene” della città. Allo stato attuale delle cose, domenica 25 ottobre 2020, l’ineffabile governatore ha rinunciato all’ipotesi lockdown, lanciando al contempo una minaccia verso la metropoli ribelle: quella che potrebbe dichiarare la città metropolitana di Napoli “zona rossa” – reinnescando per essa le stesse problematiche che hanno condotto ai disordini precedenti.
Un breve inciso. A differenza di quanto scritto sui giornali, insomma, chi c’era non ha visto la presenza di elementi organizzati di destra nella manifestazione e tanto più ovviamente in quella del sabato; inoltre, da un lato, di là del giudizio sulla validità o meno del loro comportamento, il fatto che i “facinorosi” del venerdì fossero ultras non implica di per sé che fossero “infiltrati” nel senso di persone non direttamente colpite dal provvedimento annunciato, dall’altro che la camorra avrebbe tutto l’interesse a fare un simile lockdown, potendo così appropriarsi di un bel po’ di aziende in crisi.
La cosa però davvero importante è stato il vedere come il governo vuole affrontare quella che, a tutti gli effetti, appare come una “rivolta per il pane”: come un problema di ordine pubblico, da affrontare manu militari. In effetti, i governi di tutto il mondo hanno messo, chi più chi meno, in allerta e talvolta in operatività le forze armate in appoggio alle operazioni di controllo del territorio conseguenti ai vari lockdown. L’uso è stato massiccio nei paesi estremamente poveri, dove il lockdown aveva immiserito a tal punto una popolazione già stremata che doveva scegliere tra morire letteralmente di fame o di covid-19.
Anche negli altri paesi l’uso dell’esercito è stato comunque presente perché – il caso italiano è indicativo – da tempo lo si è cominciato a utilizzare in funzione di supporto alla operazioni di polizia di controllo del territorio e poteri, appunto, di polizia gli sono stati gradatamente concessi. Nelle città italiane, come in molte europee, oggi si vede regolarmente in piazza una tale presenza dell’esercito in funzione di ordine pubblico che, pochi decenni fa, avrebbe fatto pensare a preparativi in atto di un golpe militare ed oggi, invece, ci appare quasi come un dato naturale delle cose. In un paese come gli Stati Uniti, poi, il ruolo della Guardia Nazionale nella repressione dei conflitti interni è da tempo prassi comune.
Il caso napoletano potrebbe indicare il futuro. Un secondo lockdown, che tutti i vari governi dichiarano di non volere ma che non è affatto detto che non faranno, volenti o nolenti, porterà ad una situazione disastrosa. Già all’epoca del primo, ci si aspettava unanimemente una crisi di enorme impatto: un secondo non potrà che esasperarne la portata, innescando una serie di rivolte di persone esasperate, spaventate e furiose allo stesso tempo, che non sapranno letteralmente come mangiare, avere un tetto sulla testa, ecc. avendo perso ogni forma di reddito ed esaurite le risorse, anzi spesso con enormi debiti gravanti sulle spalle.
Uno scenario del genere ovviamente, in linea di principio, sarebbe perfettamente evitabile tramite un processo di redistribuzione della ricchezza nemmeno eccessivo dal punto di vista della stragrande maggioranza di noi – ma questo, per i governi di tutto il mondo, è come dire ad un cattolico integralista di bestemmiare in chiesa l’intero calendario dopo aver sputato nell’acquasantiera. Di conseguenza, la strada del controllo manu militari della situazione, compreso l’uso dell’esercito in funzione sempre più estesa di polizia territoriale, è sicuramente all’ordine del giorno, di là delle dichiarazioni ufficiali.
In quest’ottica, ci inquieta una notizia passata un po’ sotto silenzio. Il Presidente della Repubblica ha convocato per il 27 ottobre 2020 il Consiglio Supremo di Difesa con all’ordine del giorno “- conseguenze dell’emergenza sanitaria sugli equilibri strategici e di sicurezza globali, con particolare riferimento alla NATO e all’Unione Europea. Aggiornamento sulle principali aree di instabilità e punto di situazione sul terrorismo transnazionale. Prospettive di impiego delle Forze Armate nei diversi teatri operativi; – prontezza, efficienza, integrazione e interoperabilità dello Strumento Militare nazionale. Bilancio della Difesa e stato dei programmi di investimento in relazione alla fluidità del contesto di riferimento e agli obiettivi capacitivi di lungo periodo.”[1]
Diceva mia nonna, e non solo Andreotti, che pensar male è cosa brutta ma ci azzecchi quasi sempre. A farci pensar male è, in riferimento a quanto detto prima, quel “conseguenze dell’emergenza sanitaria sugli equilibri strategici e di sicurezza globali”: al momento le uniche cose che si vedono all’orizzonte, in collegamento con la citata pandemia, sono appunto possibili rivolte popolari. Nel caso, come si vede – “con particolare riferimento alla NATO e all’Unione Europea” – il dibattito coinvolge i governi a livello mondiale: una simile frase indica un processo già in atto di riflessione intergovernativa nel quale quest’incontro si incornicia.
Enrico Voccia e J.R.