Molte piazze in Italia si sono riempite di colore e voglia di fare, cartelli fantasiosi e slogan hanno fatto da sfondo ad un momento di partecipazione genuino. Lo stesso si può dire per le piazze molto partecipate in Calabria nei capoluoghi di provincia e nei centri maggiori, anche qui molto colore e tanto entusiasmo.
Di là dei facili criticismi sterili sul senso complessivo di questo tipo di mobilitazioni, esse hanno il merito di aver indicato un nervo scoperto, una contraddizione insanabile della nostra contemporaneità, il fatto che il sistema Terra è un sistema chiuso e che lo sviluppo industriale, più votato alla crescita economica che al progresso sociale, ha prodotto disastri socio-ambientali oramai in ogni angolo del pianeta. Esse però non si sono limitate a ciò: stanno man mano indicando una serie di responsabilità collettive e, soprattutto, che i disastri ambientali non sono materia per i soli ecologisti o terreno per i soli ambientalisti. Su questi problemi si misura il livello di educazione delle collettività al rispetto per sé stessi, è un termometro che rileva il grosso problema dell’individualismo spinto di questa sciagurata contemporaneità.
Al di là della centralità del tema ambientale, quel che pare trasparire da molte piazze è una certa rivalsa generazionale, uno scatto d’orgoglio di una generazione spesso etichettata come dormiente, incerta, distratta e insensibile. Cadere nelle facili catalogazioni è sempre un rischio, soprattutto quando su tali catalogazioni ci si costruiscono improbabili impalcature pseudosociologiche.
Gli slogan scanditi in strada e gli interventi dai vari palchi, depurati da alcuni contrappunti stonati del solito ceto politico nel tentativo di rifarsi un’immagine, riportano il rifiuto di un’etichetta imposta da quella stessa generazione che ha creato il disastro ambientale che stiamo vivendo o che, nella migliore delle ipotesi, non ha potuto fare molto per frenarlo.
Quindi molta animosità ed entusiasmo, molta voglia di protagonismo e di rivalsa, per scrollarsi di dosso alcuni cliché, tanta voglia di fare che, si spera, riesca ad andare oltre la data, oltre il momento topico dell’appuntamento di piazza. In questo aspetto le piazze da Roma in giù non possono essere paragonabili a quelle del resto del Paese. In un territorio, quello meridionale, nel quale ormai non è più possibile parlare di migrazione dovuta ad uno specifico fenomeno, ma come di un meccanismo di riproduzione di forza lavoro (cognitiva, bracciantile e operaia) da esportare in altri luoghi; in questa latitudine diviene assai più arduo sperare che questi giovani possano perpetuare l’impegno preso in queste piazze.
È in questo elemento di crisi che si rafforza quel conflitto generazionale, enunciato in maniera genuinamente epidermica negli interventi dalle piazze. È in questa criticità devastante, in questa contraddizione esplosiva che bisogna affondare il conflitto. Uno scontro tra una generazione che ha deciso e ancora decide le strategie per il futuro, che ipoteca l’esistenza e precarizza la vita, ed una generazione che non solo la subisce ma che viene stigmatizzata per il suo tentativo di fuga da una realtà che non riconosce.
Cosa si può pretendere da un soggetto che non conosce il suo passato dal momento che gli è stato suggerito che il passato è barbarie, è arretratezza e colpa, che il presente è incerto e che il futuro, qualunque sia, non è qui ma sarà in un altrove, in un’altra città o in un’altra nazione. Come si può pretendere un’assunzione di responsabilità per “salvare” una terra che non fa altro che dargli una patente di conformità per l’estero. Sono questi i punti di crisi da analizzare, la visione di un futuro compatibile con la vita e l’esistenza, il benessere come equilibrio tra le esigenze sociali e quelle ambientali, rifiutare la schiavitù derivata dal ricatto del reddito, lo strumento preferito da un sistema economico che precarizza finanche l’equilibrio climatico.
J.R.