È noto il mito delle sirene: attiravano i naviganti con dolci canti e, giunti questi a loro, li scannavano. Il definirsi in conflitto bellico aperto della pluriennale guerra a bassa intensità nelle regioni russofone dell’Ucraina ha ridato fiato alle sirene dello stato. Di fronte alla crisi sistemica che scuote le società europee i “movimenti sociali” hanno mostrato tutta la loro incapacità. Siamo di fronte a un conflitto interimperialista. Non è niente di nuovo nella storia, semplicemente in Europa il fatto che la guerra è la continuazione della politica – e dell’economia – con altri mezzi è stato un fatto che è rimasto sotto il tappeto per qualche decennio.
Ai ripetuti shock economici originatisi nella finanziarizzazione dell’economia, altro aspetto non nuovo, si sono sommati le crisi nelle supply chain di beni materiali e lo shock economico dovuto alla sindemia. L’energia, si sa, raggiunti certi valori, viene rilasciata. L’impero statunitense, di cui molti ciclicamente si illudono di predirne una fine imminente, talmente vicina che la si aspetta da decenni, riesce ad approfittare della situazione per tendere maggiormente all’imposizione di un proprio ordine sui riottosi alleati europei. Se alcuni di questi avevano costruito una politica di appeasement con la classe dirigente russa, altri cercavano un legame stretto con gli USA. La guerra ha imposto una ridefinizione delle alleanze, con anche il famigerato gruppo di Visengrad che ne esce mutilato grazie al governo Orban che decide di non aderire alle sanzioni anti-russe. Facilmente si potrebbe dire: tra fascisti russi e ungheresi si intendono. Ma l’ultra anti-russo governo polacco è così tanto differente a livello di politica interna, di militarizzazione della società, misoginia, omotransfobia e di trattamento dei profughi non bianchi, dall’odioso governo ungherese?
Sono paesi dalla democrazia giovane, devono ancora assestarsi, dicono taluni ma le famigerate democrazie mature, Italia, Germania e Francia in testa, sono differenti? Vi è una reale differenza tra il governo polacco che respinge i profughi mediorientali usati dall’infame governo bielorusso facendoli crepare di freddo nei boschi e lo stato italiano – perché non è questione dei singoli governi che si sono alternati – che ha dato in outsourcing la regolamentazione dei flussi migratori a bande di tagliagole in Libia?
Dicevamo: le sirene dello stato. Di fronte a una tale situazione in cui i conflitti tra stati causano decine di migliaia di morti e il peggioramento delle condizioni di vita di milioni di individui, non abbiamo poi ancora visto che cosa accadrà nei paesi della sponda sud del Mediterraneo con la diminuzione delle forniture di grano unita a un devastante cambiamento climatico, molti si vorrebbero rifugiare sotto uno stato che pensano li possa in qualche modo proteggere. Certi vorrebbero lo stato nazionale, forte, solido, dirigista, centralizzato. Altri, tra cui pezzi dei movimenti sociali, si reinventano “matrioti”, per dare un tocco femminista-essenzialista alle giravolte europee. Il tutto a fronte di una crisi pluriennale che mostra esattamente quanto gli stati siano la causa della situazione corrente.
Questo però non basta: allora certi vogliono inventarsi gli Stati Uniti d’Europa con un’opzione confederalista-democratica. Un po’ di sano “riformismo dal basso” per l’eterna reinvenzione di sé stessi, del solito stantio opportunismo di certi ceti politici di movimento che nel mondo para-istituzionale hanno trovato le loro fonti di reddito.
Mentre costoro preparano la loro ennesima trasformazione, gli stati, quelli veri, non quelli fantasmagorici presenti nella testa di chi si è bevuto un frullato biologico di troppo, affilano le loro armi. L’incremento della spesa militare, la devastazione ambientale data dai combustibili fossili che alimentano un’economia irrazionale, l’accaparramento delle risorse alimentari e idriche sono un fatto.
Già in questi mesi, siamo pronti a scommetterci, c’è chi inizia a ragionare su quali cordate di imprese formare per accaparrarsi gli appalti per la ricostruzione di un paese che uscirà da questo conflitto con le infrastrutture distrutte e una fertile terra nera da vendere per ripagare i propri debiti. Magari tra queste cordate imprenditoriali si troverà qualche fondo per qualche progetto di “responsabilità sociale d’impresa” per alimentare i “matrioti”.
O magari vincerà l’altro fronte, il progetto politico europeo ne uscirà spappolato e certi si dovranno reinventare filo-cinesi: lo stesso governo russo, qualunque esso sarà, finirà per legarsi in posizione subordinata a Pechino, qualunque sia l’esito sul campo del conflitto. Se la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi è anche vero il contrario.
Intanto il gigantesco costo di questa crisi si sta abbattendo sugli sfruttati. Le tempistiche dell’operazione bellica non hanno permesso di apprezzare a pieno che cosa significa una crisi energetica. Se le pipeline del gas si chiuderanno davvero nei prossimi mesi e non si dovessero riaprire per l’autunno diremo: fortunato chi ha una stufa. Perché si, arriveranno anche le famose gasiere dagli USA – pagate come? – ma mancano le infrastrutture, per altro estremamente impattanti da un punto di vista ambientale, per immettere quel gas in rete. Possiamo poi stare pur certi che tra alimentare l’industria e alimentare i consumi domestici la scelta andrà in favore della prima. Si dirà: e certo, altrimenti magari non avremo freddo ma moriremo di asfissia economica.
Ed è questo il punto. L’affidarsi pluridecennale allo stato ha creato delle società di monadi: tutte sole davanti allo stato. Questo ti fornisce: sicurezza, energia, sanità. In cambio tu deleghi, attivamente o passivamente, tutto. Nessuna autonomia. Solo il rapporto totale con il capitale che innerva ogni relazione, solo il dominio della sua organizzazione territorialista.
In mancanza di reti di mutuo soccorso, in grado di produrre beni necessari alla vita, di difendere le proprie conquiste, di coordinare compiti complessi, perché le filiere sono complesse e vorremmo sinceramente evitare di crepare di malattia perché mancano antibiotici e le pratiche di profilassi sono andate gambe all’aria, la miseria è ciò che si prospetta.
Chi oggi si lascia incantare dalle sirene dello stato altro non farà che riprodurre costantemente questa situazione. Il problema non è la forma da dare allo stato – stato nazione caro ai sovranisti o qualche accrocchio multistatale o super statale, europeista progressista – ma l’esistenza stessa dello stato.
La struttura che vogliamo darci è il cuore del problema. Riprodurre le strutture statali in una forma che appaia più progressista significa tornare punto a capo. Significa eludere ancora una volta il problema e nasconderlo sotto il tappeto. Se vogliamo la libera associazione dei produttori, l’autogestione, l’autonomia di individui e comunità dobbiamo iniziare a praticare questa strada ora. Con la consapevolezza che tutto questo andrà difeso ed espanso. L’emancipazione sociale richiederà come prezzo la continua vigilanza contro ogni tensione autoritaria, interna ed esterna, ammesso che la distinzione abbia senso.
La capacità di costruire comunità e reti di comunità, realmente internazionaliste e autogestionarie è la sfida del futuro. Reti che siano costituite da quella molteplicità di tensioni all’emancipazione che esistono – in forma embrionale – nelle nostre società. Il nodo sarà il risultato della tessitura di queste tensioni affinché si supportino l’un l’altra, sfuggano la capacità normatrice e legislatrice degli stati che tentano di imbrigliare queste tensioni entro nuove leggi per raccogliere la scommessa di un mondo che faccia realmente a meno di stati e capitale e di gerarchie sociali.
Il modello di governance liberal-progressista è quello di porre lo stato come protettore di gruppi sociali che fino a ieri discriminava. Per farlo richiede però il loro giuramento di lealtà e al contempo non avrà mai interesse a fare cessare del tutto le minacce verso questi gruppi. Se le tensioni rimangono isolate finiranno giocoforza per essere catturate dalla macchina-stato nel suo moto espansivo.
Fuori dal nostro – necessario ma non bastante – volontarismo vogliamo ricordare come finì la Prima Guerra Mondiale. L’impero tedesco si trovava attestato in profondità nel territorio francese, a Est l’impero zarista era stato macinato via dalla vittoriosa rivoluzione. Grandi erano, nonostante questo, le difficoltà del Kaiser: gli USA immettevano uomini e mezzi sul fronte europeo, gli alleati austriaci non sfondarono mai la linea del Piave. Occorreva dare un colpo decisivo: una grande offensiva che avesse il suo fulcro nel Mare del Nord per annientare in scontro frontale le marine britannica e francese. Vennero preparati i piani di battaglia, vennero emanati gli ordini. Successe però quello che nessuno si aspettava: gli equipaggi della Kriegsmarine di stanza a Kiel decisero che occorreva tirare “alzo battuta zero e fuoco a volontà” contro i propri comandi. I soldati al fronte li imitarono, le fabbriche insorsero. Non ci fu nessuna grande offensiva, il Kaiser dovette riparare all’estero e uscì dal palcoscenico della storia, vennero le Repubbliche dei Consigli, poi represse dall’apparato statale sopravvissuto all’Impero ma questa è storia successiva. Intanto, grazie all’insubordinazione di massa quattro anni di guerra finirono, grazie alla sconfitta, avvenuta per mano dei suoi stessi governati di una delle più potenti macchine statali del suo tempo. Se gli eserciti di molti paesi europei sono costituiti da professionisti legati da contratti economici con lo stato, sul fronte Est vediamo eserciti di coscritti, strappati dalle loro vite e mandati combattere a maggior gloria della loro classe dirigente. Chissà se le insubordinazioni e le diserzioni che si sono viste come fenomeni isolati, anche se numericamente non esigui, su ambo i fronti diventeranno qualcosa di più.
Gli stati contemporanei sembrano eterni, così come volevano essere eterni i re e gli imperatori. Non è così. Dalla situazione attuale potrebbero venire tempi di sconvolgimenti su grande scala. Resistere alle sirene degli stati diventerà un fatto riguardante la possibilità di vita stessa.
Giuseppe Casey e Thomas O’Malley