Ad uccidere il piccolo Alan (Aylan è la “turchizzazione” ad opera delle autorità di Ankara), il bimbo siriano di tre anni che ha perso la vita insieme alla madre e a Gabin, il fratello di due anni più grande, nel tentativo di raggiungere i territori europei, è quell’inumano modello di accoglienza per cui esistono soggetti regolari e clandestini. Nulla di più. Non a caso infatti, quando si parla di accoglienza, si fa unicamente riferimento a quella ristretta cerchia di persone che rientrano all’interno della casistica sviluppata dalla Convenzione di Ginevra 1951 sullo status di rifugiato, e dal Protocollo addizionale di New York del 1967. Ma di certo, un’accoglienza che guardi solo a coloro a cui potrebbe essere riconosciuto lo status di rifugiato secondo le convenzioni internazionali, le quali tra l’altro sono vincolanti sono per gli Stati aderenti, altro non è che la causa delle centinaia di vittime migranti che ogni anno perdono la vita nel tentativo di oltrepassare i confini statali. Così, ad esempio, la soluzione non potrebbe di certo essere l’instaurazione di un regime comune europeo in materia di asilo del quale il consiglio europeo ne iniziò a discutere nel Vertice di Tampere del 1999 e ancora tanto voluto dagli Stati membri. Così altrettanto la soluzione non potrebbe mai essere la creazione del CEAS (Sistema Europeo Comune di Asilo) al quale l’UE sarebbe dovuta arrivare, stando a quanto stabilito dal Programma di Stoccolma del 2009 e il suo relativo Piano d’Azione del 2010, entro il 2012. Infatti, a ben guardare, dietro una finta accoglienza europea a cui le istituzioni fanno quotidianamente riferimento, si cela invece un rafforzamento dei confini comunitari, e di conseguenza di quelli statali, a discapito di milioni di persone e comunità. Non a caso, è lo stesso TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) a parlare della creazione di un territorio europeo come uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, laddove la libertà e la sicurezza altro non sono che la traduzione giuridica-politichese dell’eliminazione delle frontiere interne per i cittadini comunitari, e il rafforzamento dei controlli delle frontiere esterne e del contrasto dell’immigrazione giuridicamente irregolare. È in questo spazio di libertà e sicurezza che si inserisce il diritto d’asilo europeo, e la struttura di questo si basa su presupposti altamente discriminatori e militarizzati in cui si radica la distinzione tra soggetti giuridicamente regolari e irregolari. A tal proposito, basti considerare l’importanza strategica che le agenzie e i sistemi europei per il controllo dei territori e delle frontiere hanno avuto, e continuano ad avere, in questo percorso di costruzione del CEAS. Così primaria importanza è stata data al Sistema d’Informazione Shengen (ora SIS II) in cui vengono registrati tutti i dati dei soggetti a cui è vietato l’ingresso nell’area Shengen, al Sistema EURODAC, una banca dati per il confronto e il controllo delle impronte digitali tra i richiedenti asilo e soggetti giuridicamente irregolari per la piena applicazione del regolamento di Dublino, quello per cui la richiesta del riconoscimento dello status di rifugiato va presentata allo Stato di primo approdo; stesso dicasi per alle agenzie militari e di polizia quali EUROPOL, EUROJUST e FRONTEX che, tra le altre cose, vengono impiegate anche per il controllo delle frontiere esterne.
Nella stessa direzione, inoltre, va la dichiarazione a conclusione del consiglio europeo straordinario del 23 aprile scorso riunitosi a seguito del capovolgimento, a largo delle coste libiche, dell’imbarcazione su cui navigava un migliaio di persone dirette verso la fortezza Europa e dove persero la vita oltre 700 migranti. Ebbene, in quel consiglio straordinario, i capi di Stato e di governo europei decisero che per salvare vite umane era necessario, ancora una volta, rafforzare il controllo delle frontiere esterne così da fronteggiare quell’immigrazione considerata clandestina. Infatti, il primo punto del programma d’intervento, ha visto il triplicarsi delle risorse finanziarie, e l’aumento dei mezzi a disposizione, per le operazione militari Triton e Poseidon di FRONTEX le quali hanno come unico scopo hanno quello di respingere gli ingressi irregolari via mare. In aggiunta, il consiglio straordinario ha previsto una collaborazione degli Stati membri con i Paesi africani e medio-orientali per il monitoraggio e il controllo delle frontiere. Ed è in questo ambito, ossia al fine di “prevenire i flussi migratori illegali” avvalendosi delle operazioni PSDC (Politica di Sicurezza e Difesa Comune) attraverso il dispiegamento delle cosiddette EUROFORZE, il consiglio, con un punto specifico, ha deciso di “intensificare la cooperazione con la Turchia in considerazione della situazione in Siria e in Iraq”. Il tutto, è bene sottolinearlo, al fine del “recepimento rapido ed integrale nonché effettiva attuazione del sistema europeo comune di asilo da parte di tutti gli Stati membri partecipanti”.
Da ciò si capisce come il sistema d’asilo europeo, così come pensato e voluto, e tutti i piani attuati dall’UE per arrivare ad una completa operatività dello stesso, oltre ad essere altamente repressivo e discriminatorio, non va in alcun modo a sradicare la radice delle morti dei migranti in viaggio. Anzi, dev’essere considerato come una delle concause dello sterminio che quotidianamente si consuma sulle “tratte della speranza”.
In tale contesto, per il controllo delle frontiere e degli Stati, giocano un ruolo fondamentale anche e soprattutto le strutture di detenzione per migranti, ambito in cui l’UE in prima linea ha spinto per la totale applicazione di politiche e legislazioni volte all’espulsione e respingimento, e basate sulla detenzione amministrativa interna agli Stati membri dei soggetti giuridicamente irregolari. Basti pensare che la direttiva 2008/115/CE, meglio conosciuta come “direttiva rimpatri”, ha previsto il trattenimento ai fini dell’espulsione dal territorio europeo anche per un periodo totale di diciotto mesi. Per capire meglio come il sistema europeo comune di asilo fortifica il concetto di clandestinità, prevedendo la diversificazione tra regolari e irregolari, nonché la detenzione nei CIE per questi ultimi, si può dire che lo Stato italiano ha iniziato il recepimento della direttiva rimpatri con il decreto-legge 11/09, poi convertito in legge 94/09, ossia con il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza” del governo Berlusconi il quale, nella stessa legge, oltre a portare a diciotto mesi la durata massima del trattenimento nei CIE, ha anche inserito il reato di clandestinità.
È chiaro quindi che laddove si parli di accoglienza, includendo solo quei soggetti considerati meritevoli di tutela e protezione internazionale, questa diventa essa stessa causa del problema.
La vera accoglienza è quella che passa per il pieno riconoscimento del diritto umano e naturale alla migrazione e allo spostamento, nonché di dimora, qualunque sia il motivo di tale viaggio. Pertanto non è pensabile un’accoglienza così saldamente repressiva, discriminatoria e militarizzata la quale, a pensarci bene, è l’ovvia conseguenza dell’idea di Stato fatto di confini da proteggere ad opera di copri militari e di polizia, legittimati da leggi, decreti e direttive, e disseminati di galere e CIE dove rinchiudere, attraverso la pronuncia di giudici e tribunali, coloro i quali sono considerati irregolari.
Nicholas