La Turchia sta attraversando una delle situazioni economiche più disastrose della sua storia repubblicana. Non è solo un dato congiunturale dovuto a strascichi della grande recessione o alla tempesta finanziaria dell’agosto del 2018:[1] la Turchia sta pagando lo scotto di un struttura economica interna, molto debole, giocata su “drivers di sviluppo” resi labili tanto dalla stretta autoritaria quanto dal flagello del Covid-19. Si ravvedono similitudini con la struttura socio economica libanese, una governance praticamente sovrapponibile ai maggiori interessi economici del paese, una gestione molto allegra dei meccanismi monetari ed un legame ufficioso Lira-Dollaro. Mentre però il Libano speculava e ammonticchiava capitali con un gigantesco schema Ponzi che lo ha condotto al collasso economico,[2] la Turchia rischia un tracollo senza precedenti a causa di una sorta di doppia valuta interna. In questa trattazione farò riferimento ad alcuni parametri economici solo a scopo esemplificativo, per fornire un quadro della situazione comprensibile ai più, con l’ausilio di indicatori tipici dell’economia di mercato. Cercherò di chiarire le motivazioni di base dell’aggressività Turca degli ultimi anni in politica estera e le ragioni della sua visione espansionistica tanto via terra che via mare.
I dati di un’economia al collasso.
Le magagne strutturali partono da una carenza industriale che caratterizza la Turchia fin dall’inizio della sua nascita come repubblica, un’economia che ruota attorno all’esportazione di prodotti agricoli, ortaggi e frutta in genere. Le relazioni commerciali con l’UE, seppur regolati dalle tariffe preferenziali concordate con i paesi “vicini” all’Unione ed al suo mercato, non riescono a garantire entrate sufficienti a riequilibrare la bilancia commerciale turca. I prodotti che la Turchia potrebbe piazzare non sono esclusivi, di nicchia o a grande valore aggiunto – sono prodotti di fatto già presenti in quel mercato e addirittura in eccedenza. Gli unici prodotti che riescono ad avere uno sbocco di vendita sono frutta secca ed olio da taglio.
Unico o comunque il più importante acquirente per la Turchia è la Russia, alla quale riesce a vendere derrate alimentari dopo le sanzioni comminate a quest’ultima da Stati Uniti e UE a seguito dell’invasione ed annessione della Crimea. Per il resto quindi la Turchia importa la gran parte del suo fabbisogno di beni di largo consumo, presentando quindi una bilancia economica commerciale (rapporto import/export) fortemente negativa con un eccesso di importazioni. Questo implica che la Turchia ha bisogno di forti ingressi di capitali per sostenere le sue importazioni ma, in assenza di ciò, deve erodere le riserve valutarie e nello stesso tempo indebolire il cambio.
Un asset produttivo sul quale la Turchia – o meglio la sua governance – ha investito molto è costituito dal turismo, sotto forma di edificazione di nuovi quartieri e resort. Asset che quindi giustifica un’espansione immobiliare sostenuta e prolungata nonché una serie di azioni spericolate su grandi opere – metropolitana di Istanbul e ponte sul Bosforo in primis. Non è un mistero per nessuno che i primi investitori si trovino in parlamento e nei ministeri, come ad esempio GAP İnşaat (Costruzioni GAP), società del gruppo Çalık Holding, presieduta dal genero di Erdoğan.
La megalomania della governance Turca, personificata nel suo presidente come emanazione di grossi interessi economici, si è palesata con innumerevoli cantieri che hanno cambiato i connotati dei maggiori centri urbani del paese, innanzitutto Ankara ed Istanbul. L’aeroporto, fuori Istanbul, costato 29 miliardi di euro, è una immensa colata di calcestruzzo di 77 km quadrati con 53mila metri quadri destinati a duty free, praticamente una sorta di ZES nell’aeroporto. L’ultima impresa riguarda, nel caso venisse finanziata e realizzata, la più grossa operazione immobiliare per l’accoglienza migranti della storia. Il governo turco sta cercando finanziamenti per circa 25-30 miliardi di dollari allo scopo di costruire alloggi per i due milioni di rifugiati siriani, da allocare nella zona cuscinetto conquistata con l’offensiva della scorsa primavera.
Resort, villaggi vacanze, metropolitane, neon e movida poco però hanno potuto contro due grossi problemi. Da un lato abbiamo la stretta autoritaria dopo il tentativo di colpo di stato nel 2016, la quale ha spalancato le porte della maggioranza parlamentare dell’ultra destra nazionalista con forti componenti islamiste, dall’altro c’è stata la pandemia.
Negli scorsi quattro anni la Turchia ha visto progressivamente venir meno uno dei suoi punti di forza economici, XXXXX, che permetteva assieme alla svalutazione controllata della Lira di compensare in parte le perdite dovute alla bilancia commerciale negativa. Il resto lo facevano tanto i captali investiti nelle opere faraoniche quando nella loro finanziarizzazione. Questo è l’ultimo caposaldo economico sul quale sta puntando Erdogan: la finanziarizzazione del debito attraverso grossi investimenti esteri.
A fronte di questa struttura economica sbilanciata su investimenti pubblici, speculazioni immobiliari e turismo, nel corso degli ultimi due anni o più, la Lira turca ha subito una svalutazione folle, dell’ordine del 45%.[2] Ovviamente siamo ben distanti dalla disastrosa inflazione a cavallo fra gli anni ’90 ed i 2000, nella quale il cambio col dollaro è passato da 1 a 43.000 lire turche nel ’95 ad 1 a 1.350.000 nel 2005.[4] Crisi economica che non rischiava però di prosciugare la riserva aurea e di valuta straniera ben protette nei forzieri della banca centrale; crisi che ha consentito ad Erdogan di salire al potere nel 2003 come primo ministro e dal 2014 come presidente.
Ovviamente, come una crisi ha potuto decretare l’ascesa di un partito dall’altisonante nome “Partito della giustizia e dello sviluppo” (AKP), una crisi ben più grossa può riportarlo giù, forse anche con un certo fragore. La congiuntura economica che sta letteralmente polverizzando le riserve turche è infatti molto simile ad un tempesta perfetta. Contrariamente ad altri casi di default, (vedi Grecia) in Turchia sembra che ci sia una anomalia: la maggior parte del debito estero in scadenza, si parla di circa 146 miliardi di dollari, è stato accumulato dal settore privato, in particolare dalle banche. Il governo turco ha in scadenza o in rinnovo solo 4,3 miliardi di dollari, briciole per uno Stato. L’indebitamento di molte delle imprese più grosse che letteralmente muovono quel poco di economia industriale sono sul ciglio del baratro. J.P. Morgan in una nota del 2018 già tracciava un futuro incerto per le imprese e le banche turche, “poiché gli istituti finanziari internazionali probabilmente ridurranno almeno in parte la loro esposizione alla Turchia, il rinnovo delle scadenze del finanziamento del capitale potrebbe essere difficile per alcune società”. Quindi non siamo di fronte ad un debito pubblico impazzito ma ad uno spropositato indebitamento privato contratto con creditori esteri.
La svalutazione galoppante della Lira non fa che ingigantire il debito contratto in valuta forte (dollari soprattutto): da qui lo slancio del governo per stabilizzare la Lira, polverizzando le riserve di valuta pregiata prima e forse quelle auree a breve – 583 tonnellate d’oro senza le quali il paese sarebbe spacciato. Difatti nel 2018, prima che intervenisse la cosiddetta “Erdoğanomics” con l’ordine alla Banca Centrale Turca di intervenire per sostenere la lira, le riserve ammontavano a circa 130 miliardi di dollari ma, già a novembre 2019, si erano sensibilmente assottigliate, scendendo a 104,8 miliardi di dollari, per arrivare a 86,3 miliardi del giugno 2020 per finire agli attuali 46 miliardi.
Quindi, in sintesi, abbiamo un vortice d’inflazione che polverizza miliardi di Lire ad ogni decimale d’aumento, un debito contratto quasi interamente in dollari che aumenta di giorno in giorno, una riduzione drastica di capitali provenienti dall’estero ed uno Stato che sta letteralmente cercando di tappare una voragine con uno zerbino. In tutto questo Erdogan si oppone strenuamente al rialzo dei tassi d’interesse che potrebbero rallentare la caduta rovinosa. A suo dire i tassi non si devono toccare per il bene del popolo, ma il bene del popolo non ci risulta abbia mai anche solo sfiorato l’anticamera del cervello del Sultano, quindi deve sicuramente esserci qualcos’altro a motivare la strenua opposizione ad un ritocco dei tassi che potrebbe bruciare un po’ di debito.
La moneta occulta
In un interessantissimo articolo[5] si chiariscono alcuni punti oscuri delle beghe turche. Se, come dicevamo in apertura, ci sono delle similitudini tra crisi turca e crisi libanese, questa sta nella gestione dell’economia interna in modi che definire allegri sarebbe oltremodo riduttivo. Quello che sta tirando dentro ad un buco nero la Turchia è l’esistenza di una doppia valuta di fatto, costituita da una valanga di assegni postdatati. Stiamo parlando di centinaia di miliardi di lire debito immobilizzati in assegni incassabili con una dilazione finanche di due anni.
In Turchia, come in molti altri stati mediorientali, gli assegni postdatati non solo sono legali ma svolgono il ruolo di una vera e propria valuta parallela, vengono emessi, accettati e soprattutto scambiati con una facilità estrema – unica pecca che queste transazioni sono controllabili solo quando l’assegno è incassato una volta che è reso esigibile (salvo ovviamente sorprese). In altri Paesi, (Stati Uniti o Regno Unito), l’assegno postdatato costituisce un titolo che può essere negoziato in banca, il debito è quindi “monitorabile”, si sa cioè quanto debito privato sarà convertibile e quando. In Turchia, non solo non si ha contezza immediata di quanto debito privato sia in circolazione ma addirittura l’assegno può essere girato creando una catena debitoria che connette tutta una serie di soggetti intermedi. Molto spesso poi l’assegno giunto alla data d’incasso non viene convertito ma rigirato ulteriormente come un normale assegno, rimanendo in circolazione anche parecchio tempo. Si ha quindi un sistema nel quale gli assegni postdatati costituiscono una vera e propria valuta occulta, che crea debito privato parallelo al sistema bancario.
Le cose si complicano ulteriormente nel momento in cui si prendono in considerazione altri due fattori: oltre al già noto ancoraggio (seppur ufficioso) della lira al dollaro, la caratteristica volatilità della Lira unita all’assenza di limitazioni della propria convertibilità internazionale. Controllando i dati forniti dell’Associazione delle Banche Turche, il dato totale dei pagamenti avvenuti durante il 2017 tramite assegni era di 784 miliardi di lire (208 miliardi di dollari) – è più che probabile che buona parte di questi assegni fossero per l’appunto postdatati.
Se consideriamo che l’export nel 2017 era stato di circa 150 miliardi di dollari, si può facilmente immaginare che il volume degli scambi tramite assegni posdatati avesse molto probabilmente superato il volume delle entrate commerciali. Se quindi si dovessero ritoccare i tassi di interesse al rialzo, è ragionevole pensare che molti operatori economici correrebbero in banca per incassare gli assegni (esigibili) in modo da poter iniziare a guadagnare l’interesse maggiorato. Questo porterebbe ad una grossa crisi di liquidità unita ad una di solvibilità vista e considerata l’enorme esposizione accumulata per giunta su una valuta parallela sulla carta inesistente. Quindi né i singoli istituti bancari, né la Banca Centrale Turca, né la gente comune e né tanto meno gli imprenditori vorrebbero un rialzo dei tassi d’interesse. Ecco il “popolo” che Erdogan ha in mente quando è disposto finanche ad estromettere il governatore della Banca Centrale, che proponeva soluzioni da manuale per frenare la caduta libera della Lira.
Da qui l’incattivirsi della Tigre anatolica, che pare ruggire per fame più che per rabbia. La sua fame di finanziamenti rischia però di scatenare una serie di conflitti in una delle aree più instabili del pianeta – le coste orientali del mediterraneo. Da questa ricerca per attrarre investimenti di ogni sorta o soggetti paganti di ogni risma nasce la politica aggressiva Turca degli ultimi anni. Un tentativo di controllare territori strategici che possano portarlo a contrattare protettorati, servitù di passaggio o aprire cantieri o semplicemente elargire concessioni per trivellazioni alle compagnie di chi ha “gentilmente” elargito miliardi di prestiti, Cina e Russia in primis.
Il tentativo della Turchia è di allargare le sue aree di influenza: prima lo fece tra i Balcani, poi fu la volta del Bosforo e per ultimo il Mediterraneo con la strategia “Madrepatria Azzurra”, una ZEE di circa 462.000 kmq di mare minacciati però dalle acque territoriali greche attorno all’isoletta di Megisti che sta portando ad uno scontro diplomatico due nazioni appartenenti alla NATO. La strategia è chiarissima:[5] la Turchia vuole, e pretende, di poter accaparrarsi diritti esclusivi su una serie di territori chiave, sui quali dovranno passare la Via della Seta, le varie pipelines per il GAS, le rotte commerciali che hanno bisogno di porti capienti con collegamenti veloci verso l’entroterra, ecc.
L’aver ripreso le prepotenze a Cipro, l’aver conquistato un passaggio nella zona cuscinetto Siriana, l’aver stipulato accordi con la Libia sulle estrazioni in mare e le vie di comunicazione finanziate e costruite nei Balcani la dicono lunga su come la Turchia abbia intenzione di “turare” la crisi economica interna, cercando nel contempo di tenere buoni i finanziatore dell’AKP.
JR
NOTE
[2] Cfr. JR, “Libano: Una Metafora del Capitalismo Moderno”, in Umanità Nova, 2020, https://www.umanitanova.org/?p=12788
[3] Cfr. “Così l’Erdoğanomics Sta Portando al Collasso l’Economia Turca”, in Huffington post, 2020, https://www.huffingtonpost.it
[4] Cfr. GASPARDO, Andrea, Paolo Silvagni, “La Bomba ad Orologeria dell’Economia Turca” – https://www.difesaonline.it/geopolitica/analisi/la-bomba-ad-orologeria-delleconomia-turca
[5] Cfr. JR & LORCON, “Libia e Dintorni”, in Umanità Nova, 2020, https://www.umanitanova.org/?p=11453