“Se io avessi un mondo come piace a me, là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe com’è perché tutto sarebbe come non è, e viceversa! Ciò che è non sarebbe e ciò che non è sarebbe!
Lo scriveva Lewis Carrol nel 1865 nel libro Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie: un viaggio nell’assurdo, nel non luogo del linguaggio, all’interno di un mondo visionario dove tutto diventa possibile attraverso il potere dell’immaginazione, attraverso il pensiero creativo che può ampliare i perimetri razionali e condurre ad un cambiamento, migliorare la realtà per poterla godere appieno; un processo che aiuta ad agire nella realtà non a subirla o passivamente accettarla, nel quale solo attraverso l’immaginazione ci si può avvicinare all’immaginazione ovvero al restauro del pensiero e ad una accurata riorganizzazione mentale. Questo è in parte quello che occorre per essere liberi.
Il contrario di un pensiero libero e creativo è un pensiero paralizzato, rinchiuso dentro una cultura rigida, manipolatrice, improntata sulla dicotomia “bene male/giusto sbagliato” e niente altro. È un pensiero limitato che non ammette la diversità, la stonatura o l’eccezione e che non ha nulla a che fare col pensiero razionale, in altre parole con la capacità di discernere ciò che avviene all’esterno da ciò che invece avviene dentro di noi.
Yodorowsky diceva che il mondo è quello che noi vogliamo che sia, che ognuno vede ciò che vuole o riesce a vedere, vale a dire che la realtà che abbiamo intorno subisce la nostra proiezione inconscia, i condizionamenti interiori e l’elaborazione dovuta ai nostri trasmettitori, ovvero i sensi. Gli animali per esempio captano una realtà molto diversa dalla nostra perché i loro sensi sono sviluppati diversamente. La proiezione si potrebbe definire un vero e proprio trasferimento di materia dall’interno di noi stessi all’esterno e viceversa, quindi, se riusciamo a migliorare i nostri pensieri ed affinare i nostri sensi, facciamo già una grande rivoluzione dentro e fuori di noi. Bisogna evitare la pratica involutiva del pensiero “ovvio” perché rappresenta uno degli errori più clamorosi che possiamo compiere durante la nostra vita. Se ci pensiamo bene tutta l’informazione mainstream e la cultura dominante si basano su pensieri assoluti e scontati, sull’ovvietà, ossia evitare il più possibile le complicanze dell’analisi affinché la comprensione da parte del fruitore avvenga senza alcuno sforzo dell’intelletto.
Per far si che il nostro intelletto non si atrofizzi, oltre al pensiero creativo, sono essenziali due cose: l’educazione alla libertà, cioé la capacità e la possibilità di mettere in relazione pensiero ed azione, e la cultura, in altre parole l’esercizio di raccolta di conoscenze ed informazioni pratiche per la nostra formazione individuale e collettiva. Entrambe le cose rappresentano la tecnica necessaria a realizzare l’opera che è la nostra vita, a tirare il colore sulla tela. La conoscenza serve ad avere più punti di vista ed una visione più globale di ciò che abbiamo intorno. Senza di essa saremmo degli individui ciechi in balia degli eventi. Se all’interno di questa società, attraverso l’insieme di riferimenti, non ci creiamo un’identità culturale che ci aiuti a chiarirci e ad avere una visone dell’insieme quanto più ampia possibile, perderemo.
Allo stesso modo in cui ogni individuo riflette se stesso all’esterno attraverso la sua identità individuale, così l’esterno si riflette dentro di lui ed in parte lo modifica creando una identità di gruppo.
Uomini non modificati dalle usanze di luoghi particolari non esistono, non sono mai esistiti e, cosa assai importante non potrebbero esistere per natura stessa del caso.[1]
Il disfacimento dei cervelli attraverso la diffusione di una cultura dominante del tutto inquinata e basata sull’ ’ovvio’, avviene con un meccanismo simile al domino, un condizionamento a catena che si comporta esattamente come fa un virus: contagia, anestetizza l’individuo riducendo al minimo la sua attività cerebrale e quindi di comprensione, allena all’accettazione ed indebolisce importanti pratiche di cambiamento sia collettive che personali.
Il movimento individuale in questi casi avviene solo se azionato dalle correnti di massa ma dura giusto il tempo di un flash-mob. È stato mercificato tutto. La stessa libertà è percepita in maniera direttamente proporzionale alla quantità di denaro posseduto, alla sicurezza del posto fisso anche se alienante, alla possibilità di acquistare ciò che non siamo stati neanche noi a decidere se ci serva davvero bensì il mercato. La volontà di chiarirsi è stata sostituita dall’abitudine alla non conoscenza, alla supposizione; dalla pigrizia del pensiero incline al sospetto verso l’altro che nella maggior parte dei casi diventa il soggetto da escludere.
La politica stabilisce, struttura ed inquina il dibattito quotidiano attraverso la stampa, i social network ed ogni mezzo di informazione. Quello di cui dovranno parlare oggi milioni di persone connesse alla rete è deciso da degli algoritmi che creano degli infiniti pensieri clone i quali, persi in uno spazio di rigida dualità riescono a crearsi delle identità illusorie nel momento in cui trovano un posto a sedere in una delle due parti opposte; questo breve esercizio di pensiero è sufficiente a far sentire liberi. L’automatismo del pensiero “ovvio”, oltre a dare sicurezza, spinge ad organizzare la vita di ognuno in maniera prevedibile proprio perché le scelte radicali si riducono al minimo. Uscire dalla dicotomia “bene male/giusto sbagliato” generando scelte ed idee incompatibili con entrambe le parti opposte genera incertezze e potrebbe rendere impopolari, cosa che non è accettabile.
Mi sono addormentata nel viaggio di ritorno e ho sognato che era in atto una guerra sociale dove ogni necessità primaria era dimenticata, la libertà schiacciata, e dove l’unico salvagente era lo “sballo”.
Sono lontani i tempi in cui le sostanze psicotrope, dette anche psichedeliche, venivano utilizzate come strumento per la liberazione dalle imposizioni sociali, per ampliare la visione dell’insieme ed affinare la percezione di esso. A proposito di questa espansione del pensiero voglio riportare i bellissimi versi che il poeta Riccardo Mannerini, autentico libertario e per questo pieno di guai con la giustizia, diceva all’amico De André, un vero viaggiatore anarchico: “Sarò citato di monito a coloro che credono sia divertente giocare a palla col proprio cervello riuscendo a lanciarlo oltre la riga che qualcuno ha tracciato ai bordi dell’infinito.”
Del rapporto sottile tra droga, coscienza e parte inconscia, sono rimaste pochissime eccezioni che per lo più appartengono a culture indigene della foresta amazzonica come Brasile, latino-America più alcune culture sciamaniche del Messico e dell’Africa centrale. In occidente l’utilizzo ormai negativo delle sostanze stupefacenti e la diminuzione della qualità delle stesse ha avuto il suo inizio quando, negli anni settanta, la gran parte delle sostanze che prima erano legali è stata inserita nella lista nera delle illegali e quindi la criminalità organizzata ha spazzato via il cosiddetto “commercio artigianale” conquistandosi su larga scala la vendita dell’hashish, della marijuana e della nuova arrivata: l’eroina.
I primi consumatori di eroina non sapevano neanche che provocasse assuefazione.
L’introduzione delle sostanze che creano dipendenza, prima fra tutte appunto l’eroina, che riscosse grande successo anche per via del nome che ne glorificava gli effetti, ha prodotto a livello sociale un individuo passivo che, impegnato nella quotidiana ricerca della sostanza e del denaro necessario a procurarla, ha azzerato di fatto il suo spirito disobbediente, l’urgenza di un’alternativa e qualsiasi pratica di progetto rivoluzionario, incominciando col mettere fine ai sogni e ai tentativi di rivoluzione pacifista del movimento hippie.
“If you remember the sixties you really weren’t there” ovvero se ricordi gli anni sessanta in realtà non eri lì, è una testimonianza di Timothy Francis Leary ricercatore di psicologia di Harvard e grande sperimentatore delle sostanze psichedeliche come l’acido lisergico (principio attivo dell’LSD), la psilocibina (un alcaloide contenuto in alcuni funghi allucinogeni) e la mescalina (alcaloide contenuto nel peyote). Leary sosteneva che queste sostanze fossero un dono della natura e, se utilizzate in contesti protetti e nelle giuste dosi, potessero servire ad esplorare la mente, ad allenare l’immaginazione e quindi attuare un restauro del pensiero, a trovare delle soluzioni piuttosto efficaci in problematiche quali l’alcolismo e le dipendenze in generale ed a correggere comportamenti criminali.
“Chiaramente, non è la droga a produrre l’esperienza trascendentale. Essa funge solamente come chiave chimica-apre la mente, libera il sistema nervoso dagli schemi e dalle strutture ordinarie” diceva. Diffuse anche alcuni manuali che spiegavano come doveva avvenire l’utilizzo delle stesse nella massima sicurezza. Una volta sperimentato il loro aspetto curativo, sosteneva che queste sostanze non dovessero essere illegali né gestite e controllate esclusivamente dai governi. Le sue ricerche e tali dichiarazioni gli costarono svariati processi, uno dei quali finì con una condanna a trent’anni per possesso di marijuana; evase però dal carcere nove mesi dopo.
Le sostanze stupefacenti sono entrate di diritto nel processo evolutivo della specie in quanto ne influenzano da sempre il proprio sviluppo. Anche per questo, per un’analisi esatta di un’epoca storica è necessario valutare il suo aspetto “tossico”, insomma la quantità di tossicodipendenti, il tipo di sostanze utilizzate maggiormente e la gestione di esse da parte delle mafie, dei governi e delle loro leggi. Come tutte le grandi distribuzioni, anche il narcotraffico è fondamentale al mantenimento della catena del capitalismo e del libero mercato. Più è forte la presenza mafiosa in una città e maggiore la corruzione politica, quanto più grosse saranno le piazze di spaccio e di conseguenza il consumo perché, il guadagno che tutto ciò ne deve trarre dovrà essere abbastanza da mantenere entrambe le forze conniventi.
Il consumo deriva sempre dalla quantità di stupefacenti presenti in strada, non il contrario. È questo meccanismo a creare individui contribuenti e dipendenti.
Quello che si produce si deve vendere, è il concetto cardine del neo-liberismo e del narcotraffico che ne fa parte. È importante creare il bisogno e dei consumatori che poi si adatteranno alle sostanze in circolazione.
Se la mafia è un sistema di controllo di un territorio, dell’economia e dello Stato, di conseguenza la droga attuale è il perfetto strumento per praticarlo nella maniera più veloce, arricchirsi e creare generazioni dal basso profilo. Ad oggi i leader più rappresentativi di tutto questo scenario di industrializzazione della vita sono la cocaina e la sua sintesi: il crack.
Se prima non era reperibile già pronto in strada bensì necessitava una personale preparazione casalinga, da un po’ di anni invece le piazze di spaccio hanno stabilito la vendita delle piccole dosi già pronte, bassissimo costo e distribuzione massiccia; quindi, diffusione a macchia d’olio del consumo. In questo modo e grazie alla velocità di assuefazione quasi immediata dalla sostanza ed all’effetto effimero che lascia il consumatore in un continuo stato di insoddisfazione, lobotomizzazione e perenne ricerca di altro, il giovane crack è riuscito più di sua madre cocaina, a prendere piede anche nei ceti sociali più poveri proprio per l’economicità delle piccole dosi (criterio ormai usato per la vendita di tutte le sostanze) ed alla bassa qualità per via del taglio.
Le piazze di spaccio si trovano sempre nei quartieri più periferici e poveri delle città, tra i grandi complessi dell’edilizia popolare, stigmatizzati e mantenuti da quest’unico business possibile. Prima lo sfruttamento e poi la stigmatizzazione dello spaccio da parte della società, sono usati in questi casi come mantenimento dello stato di povertà, come mezzo di ghettizzazione e segregazione.
Secondo i dati della “Relazione annuale al parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia” (le relative stime dell’anno 2019 sono soggette ad un margine di errore in quanto le attività illegali non sono tutte note alle forze dell’ordine) la spesa attuale per il consumo di stupefacenti ammonta a circa 15,3 miliardi di euro annui; di questi il 42,5% (6,5 mld) è attribuibile alla spesa per il consumo di cocaina; il 28,8% (4,4 mld) circa per i derivati della cannabis; il 16,3% (2,5 mld) per l’eroina; il restante 12,4% (1,9 mld) per altre sostanze. Quindi al primo posto per quanto riguarda la spesa c’è la cocaina, mentre la cannabis è al primo posto per quanto riguarda il consumo. Il 63,7% dei sequestri è per l’hashish, il 31,8% per la marijuana, solo il 2,9% per la cocaina.
Il 35,2 % della popolazione carceraria si trova in carcere per reati droga correlati. Il traffico di cocaina in Italia è rifornito per lo più dal mercato colombiano che passa via aerea grazie a ’ndrangheta e camorra attraverso paesi dell’America latina; l’hashish arriva su rotte marittime principalmente dal Marocco, Spagna e Francia fino ai porti occidentali italiani grazie alla criminalità laziale, pugliese e siciliana; la marijuana arriva dall’Albania e dalla Grecia mentre l’eroina dal mercato afghano in accordo con la criminalità organizzata campana e pugliese. Negli anni ’80 si diceva che per ogni mille lire investite Cosa Nostra guadagnasse circa 80 milioni, un rapporto enorme che continua a tenere in pugno la maggior parte delle attività finanziarie nel mondo: infatti gli enormi capitali in contanti del mercato mondiale del narcotraffico, secondo solo a quello delle armi, vengono reinvestiti anche in importanti movimenti finanziari degli Stati.
È il business più potente, controllato principalmente dalla criminalità organizzata italiana e dai cartelli della droga del centro e del Sud America. Nel momento in cui, a causa della produzione, il numero dei tossicodipendenti, delle vittime da sostanze e degli iscritti al SERT cresce in maniera sostanziale, viene da sé che la soluzione dell’illegalità appare piuttosto contraddittoria. Il consumatore così viene derubato tre volte: la prima quando su strada è costretto a pagare la criminalità organizzata; la seconda quando rischia la libertà nel caso in cui viene trovato in possesso di stupefacenti in quantità definibile a spaccio; la terza quando deve pagarsi le spese legali e le sanzioni correlate.
Favorire il narcotraffico, generare spaccio e dipendenze, poi cercare di “curarle” attraverso servizi pubblici (tipo SERT) creando di fatto altri tipi di dipendenze, in questo caso da farmaci stupefacenti, è uno dei più grandi paradossi di questa società. In medicina talvolta si cura la malattia spostando il sintomo da un organo all’altro senza capirne la causa, nei SERT si applica lo stesso principio ovvero spostare la dipendenza da una sostanza illegale ad una legale con l’obbiettivo di tenere sotto controllo i tossico-dipendenti ed anche con quello di far guadagnare tutte e due le parti al potere a discapito della terza, il consumatore.
La passività dell’individuo provocata dalle dipendenze, la rinuncia della possibilità di infrangere un sistema e le sue leggi al fine di mettere in atto delle modifiche, e l’accettazione di ogni condizione e di ogni sostanza da consumare, sono la fine dell’individuo e dell’intera tenuta sociale. Il tossico, insieme al povero, è il cittadino numero zero, quello dai diritti vaghi, evanescenti, quello al quale quasi mai nessuno si gira quando gli vengono negati. Nel caso emblematico di Stefano Cucchi ci sono voluti dieci anni per riconoscerlo un minimo come essere umano con dei diritti e non come tossico.
“Solo un idiota può fregarsene quando un tossico muore. Non c’entra la pietà, è un fatto di mercato. Ogni tossico morto è una fonte di guadagno che si spegne. Quei due disgraziati erano morti per aver cambiato fornitore. È così che schiattano i tossici: passando da un tipo di roba ad un’altra senza badare alla quantità. Succede perché i tossici non pensano. I tossici sono animali. Qualcuno deve pensare per loro.”[2]
In sintesi possiamo dire che il nostro pensiero è fondamentale perché si trasforma in azione, fa da filtro insieme ai sensi alla nostra percezione e alla nostra proiezione, ed è lo strumento più efficace per una trasformazione sociale. Dopo gli anni sessanta le rivolte sono sempre state illusorie, si sono sempre sviluppate in un dualismo confuso, rivolte tra poveri, tra le ultime classi dello stesso errore di sistema, gli sfruttati, gli emarginati e la polizia. In questo paese le lotte di classe e le vere rivoluzioni non ci sono perché gli scontri si sono sempre organizzati e poi consumati in assenza dei veri poteri, proteggendoli e conservandoli.
Laura
NOTE
[1] GEERTZ, Clifford, Interpretazione di Culture, Bologna, Il Mulino, 1998.
[2] DE CATALDO, Romanzo Criminale, Torino, Einaudi, 2002.