La lotta economica

L’oppressione che più direttamente preme sui lavoratori, e che è la causa principale di tutte le soggezioni morali e materiali cui i lavoratori sottostanno, è l’oppressione economica, vale a dire lo sfruttamento che i padroni ed i commercianti esercitano su di loro, grazie all’accaparramento di tutti i grandi mezzi di produzione e di scambi.

Per sopprimere radicalmente e senza pericolo di ritorno questa oppressione, occorre che il popolo tutto sia con-

vinto del diritto che esso ha all’uso dei mezzi di produzione, e che attui questo suo diritto primordiale espropriando i detentori del suolo e di tutte le ricchezze sociali e mettendo quello e queste a disposizione di tutti.

(…)

La prova che il popolo non è ancora capace di espropriare i proprietari sta nel fatto che non li espropria. Che cosa bisogna fare nel mentre che arrivi il giorno dell’espropriazione?

Compito nostro è quello di preparare il popolo, moralmente e materialmente, a questa necessaria espropriazione; e di tentarla e ritentarla, ogni volta che una scossa rivoluzionaria ce ne presenta l’occasione, fino al trionfo definitivo. Ma in che modo possiamo preparare il popolo? In che modo preparare le condizioni che rendono possibile, non solo il fatto materiale dell’espropriazione, ma l’utilizzazione, a vantaggio di tutti, della ricchezza comune?

Abbiamo detto che la sola propaganda, parlata o scritta, è impotente a conquistare alle nostre idee tutta quanta la grande massa popolare. Occorre una educazione pratica, la quale sia a volta a volta causa ed effetto di una graduale trasformazione dell’ambiente.

Occorre che a mano a mano che si sviluppano nei lavoratori il senso di ribellione contro le ingiuste ed inutili sofferenze di cui son vittime, ed il desiderio di migliorare le loro condizioni, essi, uniti e solidali tra loro, lottino

per il conseguimento di quel che desideriamo. E noi, e come anarchici e come lavoratori, dobbiamo provocarli ed incoraggiarli alla lotta e lottare con loro. Ma sono possibili, in regime capitalistico, questi miglioramenti? Sono essi utili, dal punto di vista della futura emancipazione integrale dei lavoratori?

Qualunque siano i risultati pratici della lotta per i miglioramenti immediati, l’utilità principale sta nella lotta stessa. Con essa gli operai imparano ad occuparsi dei loro interessi di classe, imparano che il padrone ha interessi opposti ai loro e che essi non possono migliorare le loro condizioni, ed anche meno emanciparsi, se non unendosi e diventando più forti dei padroni. Se riescono ad ottenere quello che vogliono, staranno meglio: guadagneranno di più, lavoreranno meno, avranno più tempo e più forza per riflettere alle cose che loro interessano, e sentiranno subito desideri maggiori, bisogni maggiori. Se non riescono, saran condotti a studiare le cause dell’insuccesso ed a riconoscere la necessità di maggiore unione, di maggiore energia, e comprenderanno infine che a vincere sicuramente e definitivamente occorre distruggere il capitalismo. La causa della rivoluzione, la causa dell’elevamento morale del lavoratore e della sua emancipazione non possono che guadagnare dal fatto che i lavoratori si uniscono e lottano per i loro interessi.

Ma, ancora una volta, è possibile che i lavoratori riescano nell’attuale stato di cose, a migliorare realmente le loro condizioni?

Ciò dipende dal concorso di una infinità di circostanze. Malgrado ciò che dicono alcuni, non esiste una legge naturale (legge dei salari), la quale determina la parte che va al lavoratore sul prodotto del suo lavoro; o se legge si vuol formulare, essa non potrebbe essere che questa: il salario non può scendere normalmente al disotto di quel tanto che è necessario alla vita, né può normalmente salire tanto da non lasciare nessun profitto al padrone. E chiaro che nel primo caso gli operai morrebbero e quindi non riscuoterebbero più salario, e nel secondo i padroni cesserebbero dal far lavorare e quindi non pagherebbero più salari. Ma tra questi due estremi impossibili vi sono una infinità di gradi (…). Il salario, la lunghezza della giornata e tutte le altre condizioni del lavoro sono il risultato della lotta tra padroni e lavoranti. Quelli cercano di dare ai lavoranti il meno che possono e di farli

lavorare fino a esaurimento completo; questi cercano, o dovrebbero cercare, di lavorare il meno e guadagnare il più che possono. Dove i lavoratori si contentano di tutto, o, anche essendo scontenti, non sanno opporre valida resistenza ai padroni, sono presto ridotti a condizioni animalesche di vita; dove invece essi hanno un concetto

alquanto elevato del modo come dovrebbero vivere degli esseri umani, e sanno unirsi e, mediante il rifiuto di lavoro e la minaccia latente o esplicita di rivolta, imporre rispetto ai padroni, là essi sono trattati in modo relativamente sopportabile. In modo che può dirsi che il salario, dentro certi limiti, è quello che l’operaio (non come individuo, s’intende, ma come classe) pretende.

Lottando dunque, resistendo contro i padroni, i lavoratori possono impedire, fino ad un certo punto, che le loro

condizioni peggiorino ed anche ottenere dei miglioramenti reali. E la storia del movimento operaio ha già dimostrato questa verità.

Bisogna però non esagerarsi la portata di questa lotta combattuta tra operai e padroni sul terreno esclusivamente economico. I padroni posson cedere, e spesso cedono, innanzi alle esigenze operaie energicamente espresse fino a quando non si tratti di pretese troppo grosse; ma quando gli operai incominciassero (ed è urgente che incomincino) a pretendere un tale trattamento che assorbirebbe tutto il profitto dei padroni e riuscirebbe così ad un’espropriazione indiretta, è certo che i padroni appellerebbero il governo a loro soccorso e cercherebbero di costringere colla violenza gli operai a restare nella loro posizione di schiavi salariati.

Ed anche prima, ben prima, che gli operai potessero pretendere di ricevere in compenso del loro lavoro l’equivalente di tutto ciò che han prodotto, la lotta economica diventa impotente a continuare a produrre il miglioramento delle condizioni dei lavoratori.

Gli operai producono tutto e senza di loro non si può vivere: quindi sembrerebbe che rifiutando il lavoro essi potessero imporre tutto ciò che vogliono. Ma l’unione di tutti i lavoratori, anche di un sol mestiere, anche di un sol paese, è difficile ad ottenere; ed all’unione degli operai si oppone l’unione dei padroni. Gli operai vivono alla giornata e se non lavorano presto mancano di pane, mentre i padroni dispongono, mediante il danaro, di tutti i prodotti già accumulati, e quindi possono tranquillamente aspettare che la fame abbia ridotti a discrezione i loro salariati. L’invenzione o l’introduzione di nuove macchine rende inutile l’opera di un gran numero di operai ed accresce il grande esercito dei disoccupati, che la fame costringe a vendersi a qualunque condizione.

L’immigrazione apporta subito nei paesi dove gli operai riescano a star meglio, delle folle di lavoratori famelici che, volendo o no, offrono ai padroni il modo di ribassare i salari. E tutti questi fatti, derivanti necessariamente dal sistema capitalistico, riescono a controbilanciare il progresso della coscienza e della solidarietà operaia: spesso camminano più rapidamente di questo progresso e lo arrestano e lo distruggono. Presto dunque si presenta per gli operai che intendono emanciparsi, o anche solo di migliorare seriamente le loro condizioni, la necessità di difendersi contro il governo, la necessità di attaccare il governo, il quale, legittimando il diritto di proprietà e sostenendolo colla forza brutale, costituisce una barriera innanzi al progresso, che bisogna abbattere colla forza se non si vuole restare indefinitamente nello stato attuale e peggio.

Dalla lotta economica bisogna passare alla lotta politica, cioè alla lotta contro il governo; ed invece di opporre ai

milioni dei capitalisti gli scarsi centesimi a stento accumulati dagli operai bisogna opporre ai fucili ed ai cannoni, che difendono la proprietà, quei mezzi migliori che il popolo potrà trovare per vincere la forza con la forza.

Errico Malatesta

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