In memoria di Gianni Furlano

25 dicembre 2018, ore 21. Ieri notte è morto Gianni Furlano, un compagno anarchico di 90 anni, un uomo buono, appassionato di libri, poesia, piante, politica e libertà. Un uomo originale e, come molte persone originali, ostinate, rette e corrette, molto solo.

Scrivo queste poche righe perché il luogo e le condizioni della sua morte hanno prevedibilmente un solo esito: che della vita di quest’uomo resti memoria in poche persone, che il suo passaggio terreno non lasci traccia, che la sua partenza non abbia alcun fazzoletto, nero, rosso o bianco, a sventolare.
Una partenza silenziosa nel molto rumore, senza nemmeno un abbraccio. Nato a Caserta, emigrato a Milano, per quanto poco potesse definirlo il suo lavoro precedente era stato un impiegato. In realtà, da fiero anarchico, ateo convinto, libertario militante, aveva dedicato la sua vita allo studio. La sua casa era una libreria, libri alle pareti, pareti di libri, scatole di libri, libri impilati sul tavolo, sui comodini, sul letto, libri in cucina, libri ovunque. Una forma liberatoria e ossessiva di passione totale per i libri. Libri di storia, di filosofia e politica, di archeologia di ogni disciplina e lingua, di ogni età e qualità, parole su parole, e altre parole ancora.

Il suo maggior segno di amicizia e dedizione, il segno di fiducia e amore era regalare un libro. Uno o più libri. Ne ricevetti molti ma fra gli altri ricordo: un libro di entomologia, per confrontare l’idea di comunità degli insetti e quella umana, una specie di Città del Sole realizzata da api e formiche; un’edizione in busta plastificata del Tallone di ferro di Jack London, del 1928, pubblicata dalla casa editrice Monanni di Milano – che Dio lo abbia in gloria, lo imparai a memoria; un saggio di Arturo Labriola, Giovanni Bovio e Giordano Bruno, della Società editrice Partenopea di Napoli, una lira; Giovanni Bovio nella vita intima, con lettere e documenti inediti, della società editrice Avanti!, di Corso Bovio, senza data ma che in apertura riportava: “A te non oro, a te non il divino riso dei campi e il sole: a te la lieve luce d’una stanzetta e il pan breve: Te stesso a te: così disse il Destino” (G. Bovio).

Sapeva tutto, in un modo fitto, disordinato e incomunicabile, come accade ad alcuni eruditi; ma in un modo umano, curioso, sociale e socievole, che per abbreviare il discorso non avresti mai tagliato una frase, ma l’avresti piuttosto abbracciato e supplicato di rimandare a domani il capitolo successivo. Per parlare, poteva partire da ogni abbrivio e comunque sarebbe arrivato al Vero Senso, al Senso di tutto, e infatti con lui potevi parlare di tutto.

Non stupisce, quindi, ed anzi conferma, che fosse stato amico di Marco Pannella. Come alcuni anarchici di quel tipo, e altri no, oltre ai dibattiti, a tutti i molti e lunghi e più lunghi dibattiti nei circoli, attraversò la lunga marcia dei radicali e di Pannella, parlando, pensando, provocando e poi traendo ispirazione da tutto questo per proseguire.

La libertà di un uomo così educato, così dolce, così nelle regole, così per bene, così al capezzale della mamma minuscola e durissima ultracentenaria, così sempre disponibile per ogni vivente sulla faccia della terra, non poteva che essere libertà di pensiero: l’essenza stessa della libertà di pensiero; la libertà dei propri pensieri.

Scriveva poesie, oltre a donare libri. Poesie agli amici, sugli amici, per gli amici, poesie sui momenti belli, sui pensieri felici, sulla natura, sul tempo che passa, sulla libertà e la guerra e la lotta e i piccoli momenti, poesie, che io ricordi, anche a mia mamma. Le leggevi un po’ sorridendo, e pensando che uomo dolce e sociale egli fosse. Un uomo a cui donare piante, frutta, fiori.

Passo infatti tanti degli ultimi anni della sua vita, a coltivare un lungo balcone che era un giardino settecentesco di fiori simbolici, di foglie cascanti, di un verde smisurato con getti di colore sorprendenti. Vicini di casa ferirono le piante, gli tagliarono dei rami cascanti. Il modo giusto per definire il confine di quel che è umano e che si mischia, ogni giorno, con la feccia fangosa.

Lo conoscevo da trenta anni,e se qualcuno avesse trascritto i discorsi tra noi, alcuni lunghi, alcuni aggrovigliati come un filo di lana, avrebbero rinchiuso pure me, certamente; so di avere in alcuni momenti preso la via più breve del discorso, come accade a volte quando si incontrano momenti e velocità diverse della vita. So, lo ammetto con una certa sofferenza, di avere in qualche momento evitato l’impatto tra la corsa verso un treno e la filosofia che si snoda lungo sentieri imprevedibili. Come so che lo sapeva e mi perdonava con altri libri, altre richieste di notizie, altri messaggi di affetto, come accade tra fratelli libertari lontani, al confino.

Gli mandavo ogni cosa che scrivevo, la leggeva, mi diceva che l’aveva letta,e conosco il sacrificio perché non erano, mediamente, passi avanti verso il Sol dell’Avvenire.

Il paragrafo prosaico, in sintesi, riguarda questi ultimi anni, la solitudine senza parenti, con pochi amici, mio padre all’esselunga con la lista della spesa, i giorni che si mescolano con le notti, la richiesta di qualcuno di inviarlo in un luogo protetto, senza visite, per un mese; un mese fa.

Un uomo libero di novant’anni che accusa i sanitari di essere fascisti che lo tengono al carcere. Giuro, che se non avesse detto a mia mamma: “sei mia amica, non avere rimpianti, io so che tu hai fatto tutto per me”, sarei ancora meno loquace.

Ma tolti questi particolari che non fanno la storia, la Storia è che è morto un compagno anarchico, un fratello libero fino a che ha potuto.

Era un uomo di un altro secolo, e in un altro secolo, quando per essere uomini d’azione e rivoluzionari occorreva scrivere, sarebbe stato certamente un vero rivoluzionario, un carbonaro, un mazziniano, il braccio destro di Pietro Gori sul confine con la Svizzera.

Non voglio che un domani non resti, a vagare nel vuoto, una parola di ricordo sul suo passaggio; faccio finta che sia morto così, con una palla di piombo della sbirraglia reale a punire il suo ultimo articolo pieno di simboli sovversivi, il suo ultimo foulard nero a minacciare l’Impero (e non da solo, la notte di Natale, senza l’abbraccio fraterno). Caro Gianni, questo è il mio pensiero: “Te stesso a te: così disse il Destino”.

Mattia Granata

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