Il 16 febbraio è apparso sull’Huffington Post un articolo
http://www.huffingtonpost.it/marina-calculli-/quel-sapore-complottistico-in-certe-ricostruzioni-della-morte-di-giulio-regeni_b_9241074.html . Un articolo ancora più analitico in merito è poi quello di Lorenzo Declich “Nessuno tocchi il Pinochet d’Egitto, ovvero: fuffa e depistaggi sulla morte di Giulio Regeni” (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=23881 ). molto interessante il quale ha fatto velocemente il giro della rete, che sintetizzo brevemente nella sua parte iniziale. L’uccisione di Regeni ha messo in una qualche difficoltà sia il governo egiziano sia quello italiano, timorosi entrambi che la cosa potesse incrinare i loro rapporti; sono partite allora in Italia una serie di notizie infondate sull’appartenenza di Regeni ai nostri servizi, seguite da quelle che vedevano il giovane ricercatore italiano ucciso non dai servizi segreti turchi ma dai fratelli islamici infiltrati in questi ultimi (sic) e, infine, che Regeni fosse una spia, ma non nostrana, bensì dell’MI6 britannico. Notizie tutte che riprendevano fandonie simili giunte da fonti egiziane e che, per qualunque persona dotata di un minimo di conoscenza delle dinamiche dei servizi segreti, come dovevano essere in linea di principio gli estensori dei vari articoli, non avevano alcun senso. La prima e la terza perché l’appartenenza ad un servizio di un paese amico sarebbe stato un viatico per la sua liberazione immediata di Regeni e non certo per la sua tortura ed assassinio; l’improbabilità della seconda sfiora i limiti dell’impossibilità materiale.
L’articolo è interessante anche per il resto che dice. Qui, però, ci interessa notare come, in questo caso, i propalatori delle tesi “complottiste” sono stati i governi – egiziano, italiano, forse quello britannico – e non i “complottisti” solitamente intesi. Infatti, più che dal giro “complottista”, questa volta la bufala è stata messa in circolazione dai principali media di potere. Il che dimostra due cose, solo apparentemente contraddittorie:
1. le tesi del complotto infondate, gettate lì senza un minimo di riflessione critica, fanno solo il gioco del potere, tant’è vero che, quando il complottista cretino manca, i governi se lo inventano;
2. che i complotti esistono davvero, perché questa operazione governativa/mediatica rientra perfettamente nel genere.
I cosiddetti “complotti” – personalmente preferisco il termine “provocazioni” – sono uno strumento di potere molto diffuso, usato dai governi contro le popolazioni proprie ed altrui (nel caso specifico, qui pare che i servizi italiani ed egiziani si siano accordati per una strategia comune contro la diffusione di una verità scomoda). Si tratta di diramare, come in questo caso, notizie false o, nei casi più eclatanti, effettuare in prima persona o tramite l’utile idiota di turno azioni scellerate da attribuire al nemico politico e/o di classe (le cosiddette “operazioni false flag” – sotto falsa bandiera – di cui il caso in Italia più noto ed accertato è la Strage di Stato del 12 dicembre 1969). Dati questi termini della faccenda, è ovvio che è di fondamentale interesse per ogni militante e, in genere, per le classi subalterne, darsi gli strumenti per riuscire a individuare e denunciare queste azioni del potere, senza cadere in una irrazionale pregiudiziale “anticomplottista”. Pensate, per tornare all’esempio fatto prima, se avessimo assunto questo atteggiamento il 12 dicembre 1969: avremmo dovuto prendere per buona la versione del potere che la strage l’avevano fatta gli anarchici e che Pinelli, scoperto, si era suicidato gridando “è la fine dell’anarchia” lanciandosi a tradimento dalla stanza d’interrogatorio nonostante il tentativo di salvataggio dei poliziotti. All’epoca, per fortuna, il problema non si pose nemmeno ed il movimento partì da subito con una campagna di controinformazione che risultò alla fine vincente. Allo stesso tempo, non bisogna cadere nella visione paranoide che pensa che qualsiasi cosa facciano o dicano i governi sia un complotto: le provocazioni sono azioni sempre un po’ complicate e talvolta impegnative, per cui, se le cose accadono da se stesse, le possono semplicemente sfruttare.
Oggi, invece, il problema è che il dibattito sul tema della provocazione e del complotto è polarizzato a livello mondiale e locale su due posizioni del tutto e specularmente irrazionali: da un lato il “complottista” che crede per partito preso a qualsiasi ipotesi di cospirazione, anche la più bislacca e palesemente infondata, dall’altro il debunker che dedica la sua esistenza al tentativo di smontare qualsiasi supposizione in merito, anche la più evidente e fondata. Il che per un qualunque movimento di opposizione è un grosso e non secondario problema: da un lato i complottisti bufalari annegano le situazioni reali in mezzo ad un mare di stronzate senza rimedio, facendo ricadere la nomea di bufala anche su quelle cose che effettivamente sono il risultato di azioni provocatorie, dall’altro i debunkers per altrettanto partito preso contribuiscono alla confusione, attaccando pregiudizialmente anche le notizie fondate o, comunque, non inverosimili. Alla fine il dominio dei rettiliani e le Stragi di Stato diventano parti più o meno equipollenti di un unico mare magnum, dove le poche perle sono avvolte in un mare di spazzatura.
Come si è giunti ad una simile situazione? Per capire il primo corno della questione – come si sia formato e si consolidi il fenomeno del complottista boccalone e bufalaro – è assai utile l’ottimo e recentissimo articolo di Walter Quattrociocchi “L’Era della (Dis)Informazione”,
QUATTROCIOCCHI, Walter, “L’Era della (Dis)Informazione”, in Le Scienze, 570, febbraio 2016, pp. 30-39. L’articolo, come dicevo, è assai buono: se posso fare un solo appunto, l’autore cade talvolta nel pregiudizio per cui le informazioni nella rete non sono controllate e quelle della comunicazione mainstream invece sì, estendendo arbitrariamente le caratteristiche della largamente minoritaria comunicazione scientifica a quelle della comunicazione dei grandi media e della carta stampata in generale. Per esemplificare la questione con una battuta, la principale rubrica cartacea ed audiotelevisiva che dice quasi sempre la verità (e, quando non lo fa, l’errore è involontario) sono le previsioni del tempo. che qui provo a sintetizzare nei punti che ci interessano. La diffusione della rete – e dei social network in particolare – ha portato con sè un aspetto negativo: la proliferazione di notizie false e di ipotesi di complotto che definire bislacche è dir poco, le quali si consolidano grazie al fatto che la rete porta a fenomeni di aggregazione omofila, dove le persone dagli interessi e dalla visione del mondo simile si rinchiudono in una sorta di nicchia ecologica digitale (echo chamber), con pochi rapporti con altre nicchie dove sono presenti impostazioni differenti se non antagoniste. In queste echo chamber da un lato i processi di confirmation bias – meccanismo per cui si tende ad evidenziare le informazioni che vanno a favore della nostra visione del mondo, per quanto deboli, ed a rimuovere quelle contrarie, per quanto forti – già presenti nel singolo in partenza si amplificano e lo portano, mano mano, ad accettare l’intera ecosfera ideale del gruppo. Insomma, uno parte, per esempio, dall’idea che esistano extraterrestri che non hanno di meglio da fare che tracciare cerchi nel grano sul nostro pianeta e, piano piano, comincia a credere nei rettiliani, poi nella archeologia “alternativa” e via di questo passo. Si forma e si mantiene così la figura del complottista boccalone e bufalaro, del tutto refrattario alle smentite, per quanto autorevoli e fondate, della sua visione del mondo.
Per capire però l’altro corno del problema, l’esistenza del debunker ad ogni costo, che spesso arriva a credere alla folle, ma assai diffusa affermazione popperiana per cui i complotti non esisterebbero in quanto impossibili materialmente, occorre applicare l’analisi di Quattrociocchi – cosa che lui non fa – allo stesso mondo dei debunkers, dove i processi di confirmation bias non sono meno forti e le nicchie ecologiche ideali non meno pervasive ed escludenti. Si forma perciò la tipologia umana speculare a quella del boccalone, che ad una provocazione non crederebbe nemmeno se le istituzioni ne confessassero la paternità.
Come uscire da questa situazione? Aiutando la crescita numerica di una tipologia culturale umana che fondi in sè il meglio del “complottista” e del debunker – che, in altri termini, da un lato non abbia alcuna cieca pregiudiziale verso l’esistenza effettiva delle azioni provocatorie, ma, allo stesso tempo, applichi rasoio di Occam ed un metodo scientifico di ricerca della verità effettuale delle cose alle ipotesi di una provocazione in atto, per scartare da subito le bislaccherie e concentrarsi sulle cose effettivamente meritevoli di attenzione ed indagine. Né boccaloni né ciechi, insomma.
Enrico Voccia