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Il caso spagnolo

Il caso spagnolo

La maggior parte delle persone nel sentire il termine “falso autonomo” visualizzano mentalmente un ragazzo su una bicicletta con un enorme scatolone sulle spalle, o quel taxista con un’auto nera. La nuova platform economy, guidata da aziende come Uber o Glovo, ha reso di moda nel dibattito pubblico e nelle decisioni giudiziarie la figura del falso lavoratore autonomo che lavora per questo tipo di multinazionali. La recente sentenza della Corte di Cassazione, che sostiene la denuncia di un fattorino contro Glovo e costringe l’azienda a riconoscerlo come lavoratore dipendente, si riferisce direttamente a queste aziende della cosiddetta new platform economy. Ma sono queste le uniche professioni in cui la figura del falso lavoratore autonomo viene utilizzata per negare i diritti dei lavoratori?

Basta fare una ricerca su Internet col termine “fake freelancer” per scoprire che il fenomeno va ben oltre l’economia delle piattaforme ed ha una storia più antica di quelle stesse aziende e delle loro applicazioni digitali. In quella lista ci sono lamentele da parte degli infermieri dell’ospedale di Fátima a Siviglia, di agenti assicurativi di Adeslas, avvocati assunti a ore in famosi uffici che fatturano milioni, cameraman in società di produzione televisiva pubblica, fotoreporter di El Mundo assunti come dipendenti, cameriere d’albergo che vengono pagate per la pulizia delle camere o la presentatrice di un programma della TV SER che, licenziata, denunciava di essere stata una falsa autonoma per 15 anni nell’emittente televisiva.

Di là di quello che troviamo su Google, ci sono anche sentenze della Corte Suprema più vecchie di quelle contro Glovo o Deliveroo. Nel 1984, un gruppo di addetti alle consegne di giornali denunciò la propria azienda perché anche se si consideravano lavoratori totalmente dipendenti, erano obbligati a inquadrarsi come liberi professionisti apparentemente indipendenti.

Nel febbraio 1986, la Corte Suprema ha stabilito che quei fattorini erano da considerare totalmente dipendenti della società e che dovevano essere assunti come salariati e godere di tutti i diritti del lavoro stabiliti dalla legge. Non è stata l’unica volta. La recente sentenza della Suprema Corte contro Glovo fa riferimento a un’altra del 2017 in cui traduttori e trascrittori denunciavano un’azienda esterna che presta i propri servizi ai tribunali.

Inoltre, ci sono sentenze di altri tribunali per un’infinità di professioni. “Quando un motociclista è venuto nel nostro ufficio per la prima volta, abbiamo capito chiaramente che si trattava di un caso di falso lavoratore autonomo perché la normativa e le sentenze della Corte Suprema sui falsi lavoratori autonomi esistono dal 1986”, ha detto a periodico El Salto Esther Comas, avvocato del lavoro presso l’ufficio del collettivo Ronda. Spiega che hanno seguito casi di ogni genere, dai cameraman agli annunciatori radiofonici, passando per i fattorini ed i risultati sono chiari: “Gli operai che hanno fatto causa, l’hanno vinta”.

È facile pensare che, se il problema non ti tocca, la cosa non ti riguarderà. Se sei un dipendente o un libero professionista di tua spontanea volontà, è probabile che percepirai la precarietà come qualcosa lontana da te. Se sei un imprenditore che rispetta la legge, penserai che queste pratiche non ti influenzeranno. In un mercato competitivo, però, non pagare le tasse è un vantaggio e può garantire il successo – se ce l’hai – o farti chiudere i battenti in caso contrario. Il professore di diritto del lavoro all’Università di Valencia e autore del blog Argumentos del Derecho Laboral, Adrián Todolí lo descrive come una palla di neve che si autoalimenta: “Se tutti i tuoi concorrenti risparmiano denaro grazie a questa pratica, allora lo fai anche tu per sopravvivere”, si lamenta. Per questo sostiene che il falso lavoratore autonomo “è un problema che riguarda tutti i lavoratori e tutte le aziende”.

Il fattore tecnologico, caratteristico delle società di piattaforme, ha seminato dubbi nel Potere Giudiziario per un certo periodo, secondo Comas, la sentenza della Corte di Cassazione, che fa riferimento direttamente ai distributori di giornali e agli interpreti durante i processi, unita al rifiuto da parte del tribunale di sollevare la questione presso le autorità europee, dimostra però che è la stessa situazione e crea un precedente giurisprudenziale che mette in pericolo il modello Uber.

Paese di falsi imprenditori

Secondo un rapporto della Banca di Spagna sui lavoratori autonomi in Spagna rispetto ai nostri vicini europei, pubblicato nel giugno 2019, il 26% dei lavoratori autonomi è tale “perché non hanno altra scelta”. Una cifra superata solo da Austria, Portogallo e Lettonia. Se guardiamo alle persone con un basso livello di istruzione, la percentuale sale al 30% ma il dato più allarmante si percepisce se guardiamo alle fasce di età più basse: il 60% dei giovani sono lavoratori autonomi per necessità e non per scelta. Il testo dell’organismo di regolamentazione ha anche indicato un fattore chiave che smantella il mito della moderna imprenditorialità di successo: tra questi liberi professionisti, i settori dei trasporti, del commercio, dell’agricoltura e dell’ospitalità hanno un peso enorme. Contrariamente all’immagine di un giovane imprenditore che indossa la felpa di una università privata e che ha avuto successo con la sua “app” innovativa, viene alla luce una realtà di contadini precari, camerieri, commessi di negozio e autisti di furgoni che non hanno altra scelta che passare attraverso il cerchio di fuoco che li priva dei diritti del lavoro stabiliti dallo Statuto dei Lavoratori.

Sia Comas che Adrián Todolí sottolineano però che il problema non ha a che fare solo con i lavori precari e poco qualificati. Elencano casi di categorie di liberi professionisti come architetti, giornalisti, grafici o dottori in ospedali privati. “Il concetto è sempre lo stesso, il titolare dell’azienda è sempre l’azienda e il lavoratore svolge il suo lavoro a ore o a prestazione”, chiarisce il docente.

Non tutti decidono di farlo per obbligo ma ciò non significa che sia corretto o legale, contrariamente a come viene giustificato da settori liberali che sostengono la libertà di scelta che rasenta o trascende direttamente la legislazione fiscale.

Succede che in lavori altamente qualificati le due parti si accordino su questa specifica forma di contratto”, spiega Todolí, “poiché l’unico a perdere è la previdenza sociale”. Fa l’esempio degli avvocati, non quelli che vengono pagati 600 euro per una giornata di lavoro infinita, ma quelli che possono permettersi di negoziare con l’azienda: “Non vogliono sottostare ai contratti di lavoro dipendente perché si trovano in una situazione di potere contrattuale dove, ad esempio, possono farsi le vacanze quando vogliono e in definitiva tutto ciò che vogliono è pagare meno tasse”.

Il docente afferma che si tratta comunque di una frode anche se c’è un accordo consensuale tra le due parti: “non puoi scegliere se pagare o meno le tasse, così come non puoi scegliere se pagare l’IVA o no” e insiste che è complesso evidenziarlo rispetto al discorso classico liberale della libera scelta.

50 anni di Uberizzazione

L’uberizzazione dell’economia, il fenomeno dell’atomizzazione dei dipendenti e dei processi produttivi, può sembrare una novità ma ha una lunga storia alle spalle. Secondo Víctor Riesgo, professore e ricercatore dell’UNED sulle trasformazioni contemporanee del lavoro in contesti di capitalismo digitale e sharing economy, i suoi inizi risalgono alle crisi petrolifere e ad altre turbolenze economiche degli anni ’70, quando “una crisi di produttività del capitale dà il via all’espansione culturale del neoliberismo”.

In ambito imprenditoriale, afferma Riesgo, “le nuove idee di new management favoriscono la frammentazione dei processi produttivi fino ai suoi minimi termini, favorendo la concorrenza all’interno dell’azienda, sia tra le maestranze che fanno parte di questi processi produttivi sia tra aziende”. La nuova cultura imprenditoriale neoliberista ha promosso processi che, aggiunti alla globalizzazione e alla delocalizzazione delle aziende, “portano a una maggiore esternalizzazione, precarietà e flessibilità del lavoro”. Il termine flessibilità, che il Partito Popolare ha reso di moda quando ha approvato la riforma del lavoro e fatto diventare il licenziamento più economico, “è diventato da allora una specie di termine feticcio”.

Sia il ricercatore UNED sia il docente dell’Università di Valencia concordano sul fatto che la crisi precedente ha fatto da acceleratore e motore di questi strumenti tecnologici. “Nella crisi precedente, dove il capitale ancora una volta ha avuto difficoltà nel trovare nicchie di redditività, si è investito molto denaro nella digitalizzazione e ciò che queste tecnologie ottengono è che tutti i processi già in atto vengono accelerati, poiché gli consente una maggior frammentazione, esternalizzazione e trasferimenti produttivi ” lamenta Riesgo. “Dal 2008 al 2012 ne sono avvenute tante e si sono diffuse praticamente in tutti i settori”, sottolinea Todolí, “sebbene le aziende continuassero ad avere bisogno di lavoratori, questi sono stati licenziati e riassunti come liberi professionisti”.

Falsi regolamenti

Nessuna delle fonti consultate ha avuto accesso a questo futuro regolamento che il ministero del Lavoro ha annunciato e che ha riempito così tanti titoli. Ma il semplice fatto che se ne parli già suscita sospetti, come afferma Comas: “Continuo a sentir dire che il regolamento è già pronto e questo mi indigna, perché la Corte Suprema ha detto chiaramente che si tratta di lavoratori (dipendenti) e che deve essere applicato lo Statuto dei lavoratori”. Sia lei sia Todolí insistono sul fatto che non c’è nulla da regolamentare e che non sono necessarie normative specifiche: “Le aziende devono essere costrette ad inquadrarli e riconoscere il loro rapporto come quello di lavoratore dipendente”. L’avvocato si chiede il perché sia necessario un nuovo testo: “Serve per limitare i diritti al lavoratore? Perché di certo non tende ad espandere i diritti e avere più posti di lavoro, quindi si capisce che la regolamentazione va in direzione tale che il lavoratore perda diritti a beneficio dell’azienda”.

Tutto ciò dove ci porta?

Sia Todolí sia Comas concordano: “Questo modello ci porta direttamente alla scomparsa dei diritti dei lavoratori”. Il docente invita a riflettere su come funzionavano le cose alla fine dell’Ottocento ed all’inizio del Novecento, quando non esisteva il diritto del lavoro. “Se tutto ciò non viene fermato e si ammette che tutte queste persone non sono lavoratori ma autonomi, significa che non hanno diritti come accadeva prima che esistessero le norme sul lavoro e lo stato di diritto”, avverte Todolí. Con la perdita di diritti si fa riferimento al fatto che “non c’è salario minimo, pensioni inesistenti o molto basse, che non ci sono ferie, giornate di lavoro senza orario massimo ovvero lavoro di 14 o 16 ore come avveniva oltre un secolo fa”.

In caso di regolamentazione – dice Riesgo – questa deve andare nella direzione del lavoro, applicando l’attuale legislazione sul lavoro, perché quei diritti sono stati il baluardo per costruire lo stato sociale e la mancanza di regolamentazione mette lo stato sociale maggiormente in crisi a causa della mancanza di gettito fiscale”. In questo senso, Comas è ottimista. Sostiene che in questo momento c’è un enorme bisogno di recupero fiscale da parte della previdenza sociale per cui l’Ispezione del lavoro si è prevalentemente concentrata su questo tema. Prova di ciò sono gli 11.000 motociclisti Glovo ed i 4.000 distributori Amazon Flex che le aziende hanno dovuto inquadrare come dipendenti dopo i reclami di vari sindacati e lavoratori e l’ispezione che ne è seguita.

Come abbiamo visto finora, però, non sono solo questo tipo di professioni a risentire del fenomeno della precarizzazione che abolisce diritti ottenuti dopo decenni di lotte. “Tutta la Spagna è piena di falsi lavoratori autonomi”, lamenta Comas. A scongiurare l’effetto valanga a cui fa riferimento Todolí si aggiunge quello della necessità di un gettito fiscale importante in questa emergenza covid, come sottolinea l’avvocato: “Se tutto questo emergesse avremmo un aumento dei contributi per la previdenza sociale e un enorme aumento nelle casse del tesoro”.

Yago Álvarez Barba

Testo originale su : https://www.elsaltodiario.com/falsos-autonomos/uber-glovo-otras-sentencias-explotacion-laboral

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