Il caso Piney Point negli Stati Uniti

La cifra stilistica del capitalismo del nostro tempo, il suo tratto distintivo in un certo senso, è il disastro, la catastrofe annunciata che travolge tutto come un fiume in piena. Eppure gli esseri umani della nostra epoca possiedono tutte le conoscenze e i mezzi tecnici per far fronte alle catastrofi.

Si sa però che per il capitale i bisogni umani sono riduttivi e disprezzabili, una mera voce di bilancio nota come “costi di manutenzione”. Più manutenzione significa meno profitti. Succede allora che gli Stati Uniti, la più grande democrazia del mondo, cominci a scricchiolare per via della pressione interna; a furia di risparmiare sui costi di manutenzione sta iniziando a perdere fiducia presso una fetta rilevante della popolazione (e la gestione del post-Kathrina in tal senso fu paradigmatica).

Recentemente i texani ci hanno sbattuto il muso contro, trovandosi nel mezzo di un crollo delle temperature mai viste a quelle latitudini e di un collasso di un sistema di rifornimento di energia elettrica raffazzonato ed ultra-liberista. Il risultato è stato di milioni di persone senza luce e con il culo al freddo, che hanno formato code considerevoli davanti ai supermercati di tutto lo stato per rifornirsi di beni di prima necessità e vestiti più pesanti. Il bello, si fa per dire, di tutto ciò è che l’infrastruttura elettrica non poteva essere collegata a quella degli altri stati federali, cosa che invece avrebbe permesso di tamponare il problema ed evitato il collasso.

Sono diverse le immagini arrivate a testimonianze di quanto successo: le stalattiti di ghiaccio nelle case, le città illuminate a metà (ovviamente la metà ricca e non quella povera), i tweet deliranti della classe dirigente locale che invitavano i cittadini a smetterla di lamentarsi perché lo stato e le autorità non devono niente a nessuno e, dunque, bisogna solo smettere di essere pigri, alzare il culo e mettersi in gioco per trovare un modo di… sopravvivere.

È in situazioni come queste che l’ottusità e la stupidità dei governanti e delle gerarchie si manifestano con idiota brutalità. Veniamo ad un caso ancora più recente. Primo Aprile, nella Contea di Manatee (Florida) scatta un piano di evacuazione che coinvolge 316 abitazioni. La diga contenente le acque reflue a Piney Point, presso l’impianto di fosfato, ha una breccia e l’acqua si sta riversando fuori da essa. Il worst-case scenario prevede che un’onda alta 20 piedi (circa 6 metri) travolga case, negozi, e tutto ciò che trova sul suo passaggio.

Lo stato di emergenza viene dichiarato solo durante il periodo pasquale, ma i giornali riportano che le perdite della diga erano già state scoperte nel weekend precedente (27-28 marzo) e che le autorità erano informate del fatto che la situazione fosse critica già martedì 30 marzo. Il volume di acqua contenuta nella diga, secondo le fonti del Florida Prisoner Solidarity, si aggira tra i 400 e gli 800 milioni di galloni americani. Giacché agli statunitensi il Sistema Internazionale non è mai garbato molto, occorre fare una conversione: se un gallone americano corrisponde a 0,00378 metri cubi, le cifre riportate in precedenza corrispondono tra 1,5 milioni e 3 milioni di metri cubi (quindi 1,5 miliardi-3 miliardi di litri).

Detto questo, in che modo le autorità locali hanno deciso di gestire l’emergenza? All’atto pratico, si è fatto ricorso al pompaggio e sversamento delle acque nell’ambiente circostante, evacuando la popolazione residente. Questo ammesso e non concesso che la diga non crolli prima (e per fortuna delle autorità al momento così non è stato). Fin da subito, dunque, si è proceduto a sversare nell’ambiente circostante e nel mare milioni di galloni di acqua al giorno, il tutto nella speranza di alleggerire la pressione sulle mura della diga ed evitare il peggio. Nel frattempo la popolazione si è dovuta arrangiare perché le autorità avevano annunciato che “non ci sono rifugi disponibili”. Parole del genere, nella vulgata comune, suonano più o meno come “non ci importa dove andiate né come ve la caverete. Levatevi di torno e sbrigatevela da soli, pezzenti.”

Sabato 3 aprile, in particolare, il crollo della diga e l’inondazione conseguente erano dati per “imminenti”. Come in ogni disastro che si rispetti, l’idiota brutalità gioca un ruolo di primo piano. Nell’ultimo anno abbiamo visto come ci siano delle vite in particolare che i governanti credono non siano meritevoli di essere ritenute tali: la popolazione carceraria.

Anche se qualsiasi barlume di buonsenso (non dico coscienza civile o politica) suggeriva che, per far fronte ai contagi in spazi molto ristretti come quelli delle prigioni ci fosse bisogno di far tornare a casa un po’ di detenuti/e, si è tolta ogni possibilità di contatto con l’esterno. In America Latina, così come in Italia, labbiamo vista bene questa prassi. Secondo quanto riportato sui propri profili social del gruppo Florida Prisoner Solidarity, precedentemente sezione locale dell’Incarcerated Workers Organizing Committee, circa duemila detenuti del Manatee County Jail sarebbero rimasti in carcere mentre tutto il resto della popolazione veniva evacuato.

Il gruppo ed i solidali hanno avviato una campagna di pressione per l’evacuazione dei detenuti (e qualche sparuto membro del Party for Socialism and Liberation Florida ha manifestato per strada per chiedere l’evacuazione) ma si sono scontrati con le risposte piuttosto evasive della dirigenza. È stato chiesto se esistesse un piano di evacuazione in caso di eventi simili, ottenendo risposte che in Italia non esiteremmo a definire “democristiane”, dicendo che sì, il piano esiste, però no, non è disponibile al pubblico e “non vi preoccupate la situazione è sotto controllo.

La dirigenza della prigione decide magnanimamente di lasciare i detenuti nella struttura, facendo però spostare tutti al piano superiore. Quindi anche se non li avesse colpiti l’inondazione, si sarebbero trovati per giorni dentro un edificio circondato da acque contaminate. C’è del genio nell’idiozia, va riconosciuto.

La campagna di pressione continua, e il 4 aprile si riesce a far evacuare 345 detenuti.
Tuttavia, il 6 aprile
, il Florida Prisoner Solidarity riportava che nell’edificio ci fossero ancora altri 700 detenuti in attesa di essere evacuati. Lo stesso giorno viene sospeso il piano di evacuazione perché la situazione sembra essere rientrata. Tutto bene quindi? Non proprio.

Come detto prima, si è proceduto a sversare nell’ambiente circostante e in mare milioni di galloni di acqua contaminata al giorno. Il 3 aprile le autorità riportavano che dalla breccia nella diga uscivano tra i 2 e i 3 milioni di galloni di acqua ogni giorno e che ulteriori 32 milioni di galloni venivano sversati “in maniera sicura” in mare. Il dipartimento per la protezione ambientale dichiara che l’acqua non è tossica, né radioattiva, solo un po’ più acida del dovuto e che lo sversamento in mare rispetta i criteri di qualità per le acque marine.

Certo, se le cose vanno male, precisa il Dipartimento, i livelli di ossigeno potrebbero abbassarsi con conseguente morte delle specie marine, ma pazienza. È poi anche vero che questi stagni d’acqua si trovano su pile di fosfogesso, un sottoprodotto solido radioattivo derivante dalla produzione di fertilizzanti. Precisiamo cosa si intende per acqua contaminata: parliamo degli scarti di acqua tossica con minerali pesanti, neutroliti e fosfogesso prodotti dalle industrie cementifere e/o di fertilizzanti. Alla preoccupazione dei cittadini per le riserve di acqua potabile, le autorità hanno risposto che il sistema idrico è un sistema chiuso, che ci sono “pochi o zero rischi” e che, nel caso, fango e terra faranno da filtranti. Sono risposte che infondono fiducia nei residenti, non c’è che dire.

Per concludere, non può mancare la ciliegina sulla torta. La HRK Holdings, proprietaria della diga, fin dall’inizio della crisi si è resa irreperibile e i suoi portavoce hanno rilasciato dichiarazioni in cui dicevano di essersi accorti della falla e stavano cercando di porvi rimedio. HRK Holdings aveva acquisito il sito di Piney Point nel 2006, dopo che il precedente proprietario era andato in bancarotta nel 2001. La missione dell’azienda era, ufficialmente, quella di ripulire il sito acquisito ma, all’atto pratico, ha fatto tutto l’opposto, permettendo lo sversamento di acque di scarto nel sito.

Nel 2011 ci fu uno sversamento di acque tossiche di circa 170 milioni di galloni nella baia di Tampa a causa di un buco nel rivestimento del sito, cosa di cui l’azienda era a conoscenza.
HRK ha presentato istanza di fallimento dopo la fuoriuscita del 2011, dicendo che non poteva permettersi di pagare i costi di pulizia.

Il principale proprietario della società è William “Mickey” F. Harley III, un investitore di Wall Street le cui altre imprese includono un franchising Hooters, una miniera di uranio in Namibia e un business di marijuana medica. Ora, il governatore della Florida DeSantis vuole far pagare il conto all’HRK Holdings ma, viste le premesse, è molto probabile che la cosa si risolverà in un nulla di fatto. Infatti, al momento della dichiarazione di fallimento, la società aveva incluso un documento in cui affermava di aver bisogno di soldi per riparare e monitorare la struttura. Nel documento si legge: “Se i materiali non sono adeguatamente monitorati e mantenuti, o se si verifica un guasto alle pile di fosfogesso, i materiali possono rappresentare un rischio per l’ambiente in futuro”.

Durante e dopo il caso di bancarotta, la HRK Holdings ha continuato a prendere in prestito milioni da una banca ma, secondo una causa di pignoramento presentata alla Manatee County Circuit Court lo scorso novembre, l’azienda non ha mai ridato indietro i soldi. Non è difficile capire dove siano andati a finire.

Francesco M.

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