In questi anni abbiamo scritto molto sui rapporti tra ricerca ed apparato industriale militare e sull’università come perno attorno al quale questo sistema ruota. Riteniamo che vi sia un esempio concreto, già verificato da anni, ovvero lo Stato di Israele. L’osservazione di tale modello ci permette di comprenderne il funzionamento e di trarne le debite osservazioni, tali da definire Israele la più riuscita sperimentazione e realizzazione di sinergia tra ricerca militare con quella civile.
Sul suo territorio si sono sviluppati oltre 300 centri di ricerca privati, inclusi quelli di Apple, Microsoft, Alphabet, Amazon, Alibaba. Oltre l’8% della popolazione attiva israeliana lavora nei settori high-tech, che producono il 12% del PIL e il 43% dell’export. Il segmento dell’innovazione contribuisce al 15,3% del PIL e alimenta il 54% dell’export. Sono stati fatti investimenti in start-up innovative per 26 miliardi di dollari, ben più consistenti rispetto ai 12,5 della Gran Bretagna, ai 5,3 della Germania, ai 5,1 della Francia, agli 1,5 dell’Italia. Israele nella realizzazione di tali risultati ha fatto convergere diversi fattori tra i quali una curva demografica in crescita, una migrazione da tutto il mondo (dopo il crollo del muro sono immigrati oltre un milione di russi) e soprattutto una forte collaborazione tra università, esercito e industria. Innanzitutto è risultata decisiva l’istruzione, un tratto distintivo e storico della cultura ebraica. Lo stato israeliano ha una spesa per istruzione sul PIL pari al 9,2%, contro una media OECD (Organizzazione per lo Sviluppo Economico) del 5,7%, in Italia è del 5,0%.
Ricordiamo che sin dai primordi del sionismo la cultura ha avuto un ruolo di rilievo. Nel 1921 venne fondata la stazione agricola, che sarebbe poi divenuta l’Organizzazione per la Ricerca Agricola (ARO), oggi la maggiore istituzione di ricerca e sviluppo nel settore agricolo. La ricerca nel campo della medicina e della sanità pubblica ebbe il suo inizio prima della I Guerra Mondiale con la fondazione della Stazione per la Salute Ebraica, la base attorno alla quale nacque il Centro Medico Hadassa, la struttura di maggior spicco che svolge attività di ricerca medica. Pionieri nel campo della ricerca industriale sono stati i Laboratori del Mar Morto negli anni ’30, mentre i primi passi nelle scienze basilari e nella tecnologia furono compiuti dall’Università Ebraica di Gerusalemme (fondata nel 1925), dal Technion – l’Istituto di Tecnologia d’Israele (fondato a Haifa nel 1924). Uno dei punti di forza della ricerca è lo stretto collegamento tra università ed industria, ed Il technology transfer (applicazioni di nuove soluzioni di ricerca tecnologica al settore produttivo) dall’università all’industria garantisce lo sfruttamento economico delle innovazioni sviluppate in campo universitario, fornendo risorse per finanziare la ricerca e dando vita a un flusso costante di nuove aziende tecnologiche.
Il perno del successo è da ascriversi all’esercito, il vero protagonista di tutto il processo della ricerca. La media dei ragazzi si diploma a 18 anni, poi partono per 3 anni di servizio militare. L’esercito funziona da primo selezionatore di risorse, con una grande competizione per entrare nei corpi scelti. Per esempio, uno dei più ambiti è l’Unità 8200, incaricata della cybersecurity: da lì sono usciti moltissimi startupper di successo. L’unità è caratterizzata da una età media molto bassa, il personale viene selezionato direttamente dall’esercito già nelle classi d’età più basse, per poi essere chiamato nelle formazioni dell’intelligence, sulla base della conoscenza delle materie quali la matematica, l’informatica e le lingue straniere. I candidati dell’unità 8200 devono dimostrare doti di rapido apprendimento e adattabilità ai mutamenti. Non meraviglia che l’aver prestato servizio nell’unita 8200 è un biglietto da visita per una carriera di prestigio nel privato. La maggioranza delle innovazioni ed invenzioni ad uso civile sono di provenienza militare e massicce sono le risorse pubbliche e private nel settore bellico.
Lo Stato ha storicamente incentivato università, centri di eccellenza, forze armate e privati fornendo gran parte del capitale necessario alle loro attività di ricerca e sviluppo. Il risultato è stata la nascita di un’economia mista, in cui i settori pubblico e privato sono separati, ma si intersecano e collaborano congiuntamente ed attivamente. Da oltre un decennio Israele è saldamente presente nella classifica Unesco dei Paesi con la spesa più alta in ricerca e sviluppo. Nel 2018 si è posizionato secondo, dietro la Corea del Sud, con una spesa pari al 4,2% del prodotto interno lordo (Pil); ossia quasi il doppio rispetto alla media di Stati Uniti (2,7%). Israele ha il più alto numero di ricercatori pro capite del mondo: 8,250 ogni milione di abitanti. lo stato è a supporto dell’innovazione, con fondi e servizi. La ricerca civile è quasi doppia rispetto alla media OECD: 2,4 (in Italia è 1,4%). A questi numeri si aggiunge la ricerca militare, che pesa un ulteriore 5%. I settori in maggiore crescita: cyber, digital health, industria 4.0, mobilità, foodtech, fintech (innovazione finanziaria resa possibile dall’innovazione tecnologica).
Gli investimenti nella ricerca sono stimolati dallo strettissimo rapporto con gli USA, uno scambio costante di persone e aziende tra Tel Aviv e la Silicon Valley, tanto che Israele è il “supermercato dell’innovazione” per gli USA. Le corporate americane vengono a fare shopping di innovazione: acquistano start-up innovative, le integrano nel loro business, le portano negli Stati Uniti e da lì nel mondo. Il percorso tipico delle start-up israeliane di successo è di nascere intorno a un’innovazione tecnologica, a volte sviluppata a partire da un progetto militare, crescere fino a raggiungere un valore di 100-300 mln, per poi essere acquisita da una corporate americana. Nell’ultimo decennio il settore dell’alta tecnologia è cresciuto ad un tasso annuale dell’8%, arrivando ad impiegare quasi 310mila persone. Si tratta di una cifra enorme, che assume ulteriore significato considerando che nel paese vivono meno di 9 milioni di persone.
In tale contesto non poteva mancare l’interesse italiano: Leonardo ha concluso due accordi in Israele. Il primo è stato stipulato con l’Israel Innovation Authority (IIA), agenzia pubblica indipendente a supporto tecnico e finanziario di progetti innovativi promossi da start-up, aziende mature, multinazionali e università israeliane e internazionali. Il secondo è stato siglato con Ramot, Technology Transfer Company per la valorizzazione della proprietà intellettuale dell’Università di Tel Aviv, ateneo con oltre 30mila studenti, di cui 16mila impegnati in attività di ricerca. Le partnership, promosse da Leonardo e sostenute e coordinate dall’Ambasciata d’Italia in Israele, con il contributo dell’Ambasciata d’Israele in Italia e la Missione Economica d’Israele a Milano, mirano al potenziamento della cooperazione in materia di scouting e sviluppo start-up, facendo leva sull’esperienza registrata in tale settore da Israele, compresi quelli d’interesse strategico per il business di Leonardo, quali difesa, cybersicurezza, aeronautica, intelligence e spazio.
Se quelli sopra descritti sono i diversi fattori che hanno determinato lo sviluppo negli anni dello strettissimo e storico legame tra ricerca, università, mondo militare, riteniamo che uno dei fattori che ha contribuito a fare di Israele una potenza tecnocratica militare sia stato il fattore umano, più precisamente la specifica emigrazione dall’ex Unione Sovietica a partire dagli anni novanta. Il tema dello sviluppo economico e dell’assorbimento dei migranti in Israele, nel periodo dopo la caduta del muro di Berlino sono strettamente legati ed hanno contribuito in modo sostanziale se non decisivo alla “svolta digitale” del paese. In tale periodo, è ricominciata l’immigrazione verso Israele dalla Russia e dalle altre repubbliche dell’ex Unione Sovietica, quali l’Ucraina, ed ha inizio la seconda grande Aliyàh (salita verso Israele) dalla costituzione dello Stato di Israele. La grande Aliyàh dai paesi dell’ex Unione Sovietica ha portato nell’arco di 10 anni a circa 1 milione di immigrati da quei paesi, circa il 20% della popolazione israeliana dell’epoca. Si stima oggi che almeno il 40% della popolazione sia di origine russa o di altri paesi dell’ex URSS: la lingua russa è diventata praticamente la terza lingua del Paese dopo l’ebraico e l’arabo. Dal 1990 al 2000 poco meno del 90% degli immigrati proveniva dalle nazioni dell’ex URSS, percentuale poi gradualmente discesa al di sotto del 50% nel periodo 2001-2008, anni in cui invece riprendeva la migrazione dai Paesi OCSE, in particolare Stati Uniti e Francia. Nel 2019 il 73,8 % dei migranti proveniva dai Paesi dell’ex Unione Sovietica (principalmente Russia ed Ucraina), seguiti dagli Stati Uniti (7,6%) e dalla Francia (6,8%). L’immigrazione russa degli anni 1990 ha cambiato di molto la composizione sociale del Paese soprattutto sotto il profilo delle competenze. Il fenomeno è stato spesso trascurato ma riteniamo abbia inciso profondamente nella società israeliana. Nel periodo 1990-2009 la maggioranza degli emigrati dall’ex Unione Sovietica aveva completato 12 anni di istruzione ed uno su cinque aveva terminato un ciclo di studi di 16 anni, quindi era in possesso di diploma di educazione superiore o laurea primaria e secondaria. Secondo i dati del Ministero dell’Assorbimento, il numero di ingegneri arrivati in Israele nel periodo 1989-2009 è stato di 110.000, ben tre volte superiore agli ingegneri locali. Inoltre, Israele ha accolto più di 80.000 tecnici: 35.000 insegnanti; circa 17.000 scienziati, 40.000 tra medici dentisti ed infermieri oltre a 60.000 lavoratori industriali qualificati. La migrazione dall‘ex URSS, oltre ad aumentare la forza lavoro, ha contribuito ad accrescere i ranghi delle forze armate, molto spesso nei settori dell’intelligence e della tecnologia militare. La politica di assorbimento del governo ha contribuito all’integrazione dei migranti russi nei campi delle start-up tecnologicamente innovative. Nel periodo 1989-2007 sono arrivati dall’Est Europa più di 16.000 scienziati (63% circa in scienze matematiche e campi tecnici, il 23% circa nel campo della medicina e delle life sciences).
Se queste sono state le direttrici lungo le quali si sono avviati i percorsi che hanno costruito gli intrecci tra mondo militare e civile, la via tracciata è risultata sempre più, con il trascorrere degli anni, a senso unico quella di una società che si è inevitabilmente rivolta al conflitto. Se il meglio che Israele ha saputo esprimere in tema di sapere, competenze, investimenti, ha come committente ed allo stesso tempo cliente, utilizzatore finale, l’apparato militare, il risultato è una società che si consegna alla logica della guerra permanente (così come ormai appaiono pressoché “permanenti” gli oltre sessant’anni di guerre mediorientali) ed una classe dirigente che deve la sua posizione a tutto ciò che è utile alla cosiddetta “difesa”, dove i confini tra chi difende e chi offende ormai da tempo sono scomparsi. Il conflitto è la logica dell’intero impianto tecnocratico-scientifico israeliano e tale rimarrà sino al momento in cui l’esercito sarà il reale motore della ricerca e dell’innovazione. Si è costruito nel tempo un fitto intreccio di interessi tra mondo scientifico, accademico, industriale e militare. In Israele non vi è ricerca in laboratorio che prima o poi non trovi sperimentazione pratica nello scenario di guerra mediorientale. E’ altrettanto facile immaginare che non vi sia carriera privata nel campo delle conoscenze tecnologico – scientifiche che non dipenda direttamente o indirettamente dall’apparato militare e, specie in quel contesto perennemente conflittuale, dal suo impiego bellico. Possiamo affermare che la ragione, dal contesto e razionalità della scienza, è passata al servizio della irrazionalità della guerra o meglio del profitto.
Daniele Ratti