La guerra a Gaza, come tutte le guerre contemporanee, possiede più di una dimensione da analizzare per cercare di comprendere quello che sta avvenendo. Per molti versi la complessità delle guerre attuali può essere descritta come una struttura a cerchi concentrici in cui ogni cerchio è contenuto in un cerchio maggiore con il quale si interseca. Altri commentatori hanno utilizzato la metafora seduttiva della matrioska, la bambola russa che contiene al suo interno svariate altre bambole di dimensioni sempre minori. A mio avviso il paragone con i cerchi intersecanti contenuti all’interno della stessa figura geometrica è però più incisiva in quanto dà conto di come ogni dimensione dell’evento guerra sia in immediata relazione con gli altri.
Nello specifico della guerra tra Israele e la forza egemone tra la popolazione palestinese della striscia di Gaza, vede l’intersecarsi problematico di una questione locale, quella relativa al controllo dei territori contenuti in quello che fu il mandato inglese di Palestina dopo lo sfaldamento dell’Impero Ottomano, un’altra regionale che vede la sfida tra gli stati emersi dalla decolonizzazione per l’egemonia sull’area, tenendo anche conto delle rivalità etniche tra arabi, turchi, iraniani e di quelle religiose tra sciiti e sunniti (senza dimenticare le rivalità interne al fronte sunnita in cui non mancano differenti centri di potere insieme politici e religiosi), un’altra che vede contrapposti la stessa Israele, considerata non a torto come il frutto di un’operazione di colonizzazione occidentale e allo stesso tempo realtà ormai pienamente inserita in Medio Oriente, e gli stati post coloniali e un’altra dimensione ancora costituita dal conflitto mondiale in corso tra la potenza egemone, gli Stati Uniti, e la serie di potenze regionali con aspirazioni di proiezione mondiale, come la Cina, la Russia e gli altri paesi appartenenti ai BRICS.
In questo articolo quanto ci interessa è cercare di cogliere come la vera e propria azione militare effettuata dalle milizie appartenenti al partito politico religioso Hamas a ridosso dei confini tra la Striscia di Gaza e Israele abbia colpito in profondità anche elementi riferibili a dimensioni che vanno ben al di là del conflitto locale che conosciamo così bene.
Per farlo è necessario compiere un passo indietro e volgerci al processo di deglobalizzazione lentamente messo in piedi dagli Stati Uniti (che nel ventennio precedente avevano invece spinto fortemente nel senso della globalizzazione economica) a partire dalla seconda presidenza Obama e dal processo di sganciamento della stessa potenza dal Medio Oriente che data allo stesso periodo.
Gli Stati Uniti hanno utilizzato gli anni Novanta del Novecento e gli anni zero del Duemila in un’inutile offensiva insieme economica e militare allo scopo di affermare il loro controllo sulla politica, il commercio e la produzione mondiali. Le amministrazioni Clinton e Bush sono state protagoniste di un’avventura finalizzata alla costruzione di un impero mondiale passando dall’attrazione del nemico sconfitto e dell’avversario complice (la Russia e la Cina) all’interno degli organismi mondiali, al contenimento delle spinte nazionali africane e asiatiche, alla distruzione del potenziale devastante costituito dalle sollevazioni legate all’internazionale islamica. I passaggi sono stati da un lato l’ingresso di Russia e Cina nel WTO, le guerre in Serbia, Afghanistan e Iraq dall’altra, con la costante del conflitto isrealo-palestinese a fare da sfondo all’impossibile stabilizzazione del Medio Oriente, ancora oggi la principale fonte di energia dell’Occidente allargato.
La presidenza Obama, in modo diverso quella Trump e l’attuale presidenza Biden segnalano l’abbandono americano della prospettiva imperiale e il posizionarsi come parte in conflitto dentro la trasformazione del mondo in un nuovo multilateralismo conflittuale che sta man mano prendendo piede.
Lo sganciamento dal Medio Oriente per gli USA è centrale in questa prospettiva perché tuttora è il fronte della guerra sottotraccia che costa maggiormente in uomini e capitali a Washington. Sganciarsi vuole dire aver preliminarmente stabilizzato un’area, altrimenti lo sganciamento assomiglia tragicamente a quello effettuato dalle truppe a stelle e strisce da Kabul nel settembre del 2022. Una fuga grottesca, l’abbandono dei propri alleati locali alla ferocia dei combattenti Taleban estromessi dal potere per 20 anni e diventati nel frattempo dei combattenti per la libertà davanti a un popolo afgano che, fuori dalle città principali, non ha visto vantaggi dall’occupazione occidentale, e cancellazione della prospettiva di accerchiamento della Cina via terra con la costituzione di regimi filo americani nell’Asia Centrale.
Per questo motivo l’Amministrazione americana dopo aver cercato inutilmente di lavorare a un accordo con il nemico iraniano al tempo di Obama, finalizzato a pacificare l’area e a costringere il regime di Teheran e quello di Tel Aviv a riconoscersi sia pure a denti stretti, ha intrapreso la strada di quegli “accordi di Abramo” tra Israele e i paesi arabi appartenenti al gruppo dei paesi del Golfo, sunniti e nemici giurati dell’Iran.
La prospettiva degli accordi di Abramo è pienamente compresa nella strategia di deglobalizzazione denominata friend shoring e finalizzata a isolare la Cina o comunque a cancellarne i rapporti soprattutto economici con l’Occidente allargato. In questo senso la pandemia ha conciso con un’accelerazione evidente di questo processo che sta vedendo il raffreddamento dei rapporti Cina Usa e Cina Europa e lo svanire di progetti di commercio globale come quello della Via della Seta che non più di cinque anni fa riscuotevano successo anche alle nostre latitudini anche tra leader politici non sospetti come Salvini, il cui governo in condominio con Conte produsse l’unico memorandum di associazione di un paese europeo al progetto di restaurazione degli antichi tracciati commerciali tra Europa ed Oriente.
Il Friend Shoring si basa come concetto su una base estremamente semplice e rimanda al periodo della Guerra Fredda tra blocchi contrapposti: si tratta di ritirare investimenti, produzioni e rapporti commerciali dai paesi concorrenti e di spostarli verso paesi appartenenti al blocco occidentale. In parole semplici, tagliare i ponti con i nemici e favorire gli amici. A patto, evidentemente, che gli amici rompano a loro volta con i miei nemici. Altrimenti il rischio di finire tra i “cattivi” è sempre presente. Si tratta evidentemente di misure di massima perché non ci risulta che gli Stati Uniti rifiutino di vendere il proprio debito pubblico alla Cina e che la Apple (che anzi conduce ormai una propria politica estera parzialmente differente da quella di Washington) abbia chiuso tutti i suoi investimenti nel paese asiatico. Si tratta però di una tendenza forte che divide il mondo in due e che costringe ogni governo che voglia fare affari negli USA ad allinearsi a questi nelle proprie scelte di tipo politico e soprattutto economico.
La guerra in Ucraina è stata un ottimo affare per gli USA anche da questo punto di vista perché ha permesso a Washington di imporre ai paesi europei (e in primis alla Germania e all’Italia) la rottura dei rapporti energetici con la Russia che avevano fatto la fortuna delle due principali economie manifatturiere d’Europa e di precipitare la locomotiva del Vecchio Continente in una crisi verticale da cui probabilmente non sarà in grado di riprendersi. In questo modo gli Stati Uniti hanno legato a doppio filo l’intera Europa al proprio progetto di Occidente allargato a guida e conduzione americana lasciando indietro un trentennio in cui i paesi al di qua dell’Atlantico avevano rivendicato e praticato una politica estera non solo autonoma ma a volte conflittuale con i desiderata dell’alleato americano.
Dentro a questo quadro si inserisce la cosiddetta “via del cotone”, l’immaginifica alternativa al commercio eurorientale, sostituito con un rapporto diretto tra l’India, alleato infido ma necessario in funzione anticinese, e l’Europa. Peccato che per arrivare da un posto all’altro sia necessario costruire infrastrutture di una certa rilevanza che necessariamente (dovendo scartare Pakistan e Iran, paesi nemici) devono passare dai paesi arabi e da Israele per poter sboccare nel Mar Mediterraneo.
Gli accordi di Abramo erano la chiusura del cerchio e il colpo di genio che avrebbero portato alla soluzione dell’equazione, garantendo di legare l’India al carro occidentale, di consentire all’Europa di collegarsi a un mercato in espansione e sviluppo alternativo a quello cinese e di poter abbandonare lo scenario mediorientale infine pacificato da parte degli USA
Peccato per Washington che, mentre gli strateghi USA operano, gli altri attori sulla scena non dormano. A gennaio ha battuto un colpo la Cina permettendo il riavvicinamento tra Iran ed Arabia Saudita con la ripresa dei rapporti diplomatici e lo svanire di uno scenario che avrebbe dovuto vedere sauditi ed israeliani spalla a spalla a difendere l’ordine americano minacciato dai cattivoni di Teheran. Adesso l’azione militare di Hamas ha frantumato l’illusione perché è evidente che un attore politico messo alle strette e minacciato da una pulizia etnica lenta ma non per questo meno efficace non poteva che sentire l’accordo tra sauditi ed israeliani come lo stringersi definitivo del cappio attorno al proprio collo. Se a questo aggiungiamo che l’asse tra Turchia e Qatar (sponsor dei Fratelli Musulmani cui appartiene Hamas) non è certo stato a guardare e che Erdogan ha immediatamente appoggiato l’azione di Hamas (sia ben chiaro, senza nulla rischiare), ci troviamo in un quadro in cui le prospettive americane di pacificazione dell’area sono chiaramente andate in frantumi.
Le conseguenze di azioni locali in un quadro così complesso come quello palestinese, come abbiamo visto, hanno la potenzialità di frantumare i grandi progetti concepiti in spazi di laboratorio geopolitico e di complicare ulteriormente il quadro. In questo senso il 7 ottobre sarà probabilmente ricordato come una delle date fondamentali da ricordare all’interno della futura narrazione di una guerra mondiale evidentemente già esplosa e (per ora) combattuta su scenari locali ma la cui ferocia e potenzialità distruttiva è ormai evidente a tutte e tutti, come è evidente che solo un’azione radicale e decisa contro le politiche neo coloniali e di aggressione compiute dai governi occidentali e dai loro competitori emergenti potrà evitare il rogo di intere parti dell’umanità
Stefano Capello