Fuoco ai turbanti

Il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare con l’Iran, che barattavano la fine di decenni di sanzioni economiche e la distensione dei rapporti diplomatici con l’interruzione a tempo indeterminato del programma nucleare, ufficialmente civile ma nei fatti dual-use come tutti i programmi nucleari della Repubblica Islamica, ha visto il ritorno ed il rafforzarsi delle sanzioni economiche verso Theran.

Se alcuni paesi, come la Russia e la Cina, possono ignorare le sanzioni statunitensi continuando e rafforzando gli accordi commerciali, basati sull’export del greggio persiano, altri paesi come quelli dell’Eurozona si sono dovuti, obtorto collo, piegare ai diktat di Washington, riducendo gli acquisti delle materie prime petrolifere iraniane. Questo ha causato una contrazione economica in Iran che il governo islamista ha scaricato, ovviamente, sulle classi popolari. Il grande aumento, negli anni tra il 2015 e il 2017, delle spese militari iraniane, che supportano la politica di potenza degli Ayatollah e gli ingenti finanziamenti a quei gruppi militari filo iraniani, pensiamo ad Hezbollah in Libano, le milizie sciite in Iraq ed a quelle Houti in Yemen, hanno inoltre drenato ulteriori risorse verso l’imponente apparato militare agli ordini della borghesia religiosa di Theran. Il ritorno delle sanzioni ha imposto, nel 2018 e nel 2019, un relativo calo della spesa militare che comunque continua ad assorbire il 2.7% del PIL (nel 2012 era stato il 2.2% salito progressivamente verso il 3.1% del 2017 secondo i dati SIPRI).

La geopolitica aborre il vuoto: il progressivo disimpegno statunitense dall’Iraq a partire dal 2011 ha aperto ampie praterie per l’Iran. L’Iraq è diventato sostanzialmente uno stato cliente di Theran, le milizie finanziate da questa, l’impegno militare diretto delle forze speciali, delle “milizie di volontari” ed i finanziamenti al governo di Baghdad sono ciò che hanno garantito lo stop all’avanzata verso est dell’ISIS. Stesso ruolo è stato giocato, in joint-venture con la Russia, in Siria, permettendo la tenuta del regime di Damasco.

Colonizzare le praterie però ha un costo ed il ritorno non è sempre immediato. Fallita la normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti, bloccati gli investimenti dei paesi dell’Euro-zona, che in Iran potrebbero accedere a un paese con una grande riserva di manodopera altamente qualificata a relativo basso costo e con forti bisogni di rinnovamento delle infrastrutture e disponibile ad acquisire tecnologie di alto livello sia in ambito civile sia militare, investimenti e possibilità di commercio che fanno gola alle grandi industrie sia tedesche sia italiane sia francesi, la crisi economica è tornata a divorare i salari. L’export ha subito una disastrosa caduta dell’ottanta percento, l’inflazione viaggia intorno a valori del 35% di aumento su base annua, il Rial è svalutato e la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 30%.

La politica di assistenzialismo e di sussidi elargiti a larghe mani dal governo islamico tramite la sua rete di ricche fondazioni controllate direttamente dal clero sciita non basta più a tamponare la situazione.

La decisione, presa il 15 novembre, di aumentare del 300% il prezzo della benzina, in un paese che è tra i primi produttori mondiali di prodotti petroliferi, ha funto da detonatore della rivolta.

Banche, scuole coraniche, caserme sono state prese d’assalto e date alle fiamme. Gli slogan contro il governo e contro le sue politiche si diffondono e vengono ripresi in piazze di tutte le principali città del paese. La critica non travolge solo la politica antiproletaria del governo di Rohuani ma attacca direttamente il concetto stesso di Repubblica Islamica e la Guida Suprema Khamenei. La risposta è stata la stessa degli anni scorsi: spari ad altezza uomo e minacce di impiccagione ed alla repressione si affiancano parziali passi indietro negli aumenti del prezzo del carburante nella speranza di fare rientrare l’insurrezione.

Uno dei principali centri della rivolta è la provincia del Khuzestan, al confine con l’Iraq e abitata da popolazione araba, che è stata obiettivo, negli ultimi anni, di una forte repressione contro esponenti della società civile e contro i tentativi di sindacalizzazione dei lavoratori di raffinerie e campi petroliferi. Una zona colpita, per altro, da gravi problemi ambientali dovuti alla presenza dell’industria estrattiva.

Anche nel Kurdistan Iraniano vi sono state grosse mobilitazioni: oltre alla repressione contro la cultura kurda, l’oppressiva religiosità sciita e la compressione salariale che ha colpito i lavoratori in tutto il paese quest’area è stata colpita negli anni da diversi e disastrosi eventi sismici e, nella città di Kermanshah, capitale della provincia, migliaia di persone vivono in tendopoli da oltre un decennio in quanto i lavori di ricostruzione vanno a rilento.

Di fronte alle proteste la Guida Suprema Khamenei ha dichiarato che gli iraniani devono stringere la cinghia per il bene della nazione e che chi scende in strada è un teppista istigato dalle potenze straniere.

Negli ultimi anni il movimento dei lavoratori in Iran si è espanso, nonostante la dura repressione che ha visto decine di attivisti sindacali finire imprigionati, costretti a pagare pesanti cauzioni per tornare in libertà, condannati a pene corporali. Allo stesso modo il movimento femminista ha ripreso a criticare a volto scoperto il regime clericale, mobilitandosi contro la repressione di genere che colpisce le donne iraniane. La popolazione giovanile è in aumento demografico da decenni e difficilmente viene contenuta entro le strutture create dalla controrivoluzione islamica che sono alla base del paese. Non esiste più l’Iran rurale di Khomeini. Theran raggiunge i dieci milioni di abitanti, il tasso di scolarizzazione è altissimo così come sono enormemente aumentati i laureati. Le donne lavorano fuori casa da anni.

La decisione di interrompere i servizi internet in concomitanza con la rivolta per bloccare la comunicazione tra i rivoltosi e rendere difficile la diffusione di notizia sia all’interno che all’estero ha anche reso impossibile il lavoro a quelle centinaia di migliaia di abitanti di Theran che integrano il loro reddito tramite la gig economy. Con le relative aperture durante l’accordo sul nucleare in Iran si sono diffuse piattaforme digitali, alcune garantiscono un milione e duecentomila corse di taxisti privati al giorno ma, come riportato nell’articolo di Vincenzo Nigro uscito il 19 ottobre su La Repubblica, ve ne sono anche altre che garantiscono ogni sorta di servizio e sempre con maggiore diffusione. Con internet bloccato tutto questo settore si trova impossibilitato a lavorare e questo incide negativamente sul reddito di chi si è dovuto reinventare come taxista/fattorino in moto dato che con una laurea in ingegneria non trova lavoro. Difficilmente questo farà guardare con maggiore favore al regime. Per inciso questo blocco di internet ci insegna anche come sia necessario dotarsi di infrastrutture digitali resistenti al controllo centralizzato.

Ciclicamente il paese viene attraversato da ondate di proteste, sempre più ravvicinate tra di loro – l’ultima violenta insurrezione era avvenuta a fine 2017 – e radicali sia nelle pratiche di piazza sia nelle rivendicazioni. All’epoca della sconfitta elettorale dei riformisti e della riconferma di Ahmadinejad alla presidenza della repubblica molti di coloro che scendevano in strada speravano in un’ipotesi di riformismo politico interna alla Repubblica Islamica. Ora al potere ci sono i così detti moderati ma la crisi economica ha travolto ancora maggiormente i lavoratori e la repressione religiosa non si è allentata. Ora si assaltano le stazioni di polizia e si vuole la fine della ierocrazia sciita, si mette in discussione la politica di potenza voluta negli ultimi anni dalla classe dominante iraniana che ha portato a un aumento delle spese militari a discapito del welfare. Non è un cambio di poco conto, indica che le fasce giovanili del proletariato vogliono un deciso cambio di passo.

Non possiamo sapere, e non ci illudiamo, che questo cambio di passo sia in senso immediatamente rivoluzionario e permane comunque un certo nazionalismo di fondo, anche se magari laico, repubblicano, democratico e progressista, in molti settori che ora sono in piazza.

Sicuramente si apre una fase interessante che potrebbe scardinare dall’interno quella che è stata la potenza regionale a più rapida crescita, in termini di effettiva capacità di proiezione militare e politica oltre i suoi confini, dell’area. Se il progetto egemonico neo-ottomano della borghesia turca che si è legata all’AKP sembra essere finito in un’impasse, come abbiamo rilevato più volte, dovendo trovare un accordo con la Russia e, nei fatti, con la Siria assadista, correndo tuttora il rischio di impantanarsi in una lunga guerra nel Rojava, il progetto egemonico persiano ha riportato grosse vittorie: è riuscito ad occupare lo spazio lasciato vuoto dagli USA in Iraq, divenendo fondamentale per la coesione di un paese soggetto a spinte centrifughe, è riuscito a rompere il fronte delle petromonarchie della penisola araba, legandosi al Qatar, mettendo in crisi in Baherein, ponendo una propria stabile testa di ponte oltre il golfo persco in Yemen e facendo dissipare all’Arabia Saudita enormi risorse in tentativi infruttuosi di riprendere il controllo del vicino meridionale. È riuscito a portarsi ai confini settentrionali di Israele, grazie alla presenza militare in Siria e al legame oramai trentennale con Hezbollah in Libano.

Tutto questo in meno di dieci anni, e non è un risultato da poco per un paese che non è nemmeno di cultura araba, al contrario degli altri citati. Ma potrebbero essere state vittorie di Pirro, un’espansione che manca delle strutture necessarie a mantenerla.

Le ondate di protesta in Libano che si susseguono da anni mettono in discussione il ruolo di Hezbollah e del suo protettore iraniano così come la grande onda insurrezionale che sta attraversando l’Iraq, superando, pare, i settarismi religiosi si muove su due binari paralleli: rivendicazioni di classe dovute alla tragica situazione in cui versa il proletariato irakeno, che non è nuovo a grandi moti di insurrezione – si pensi all’esperienza delle Shoras, i Consigli Operai, nel 1991, con la diserzione di massa dell’esercito durante la Prima Guerra del Golfo, ripetutasi nel 2003, e la successiva insurrezione dei centri industriali, repressa nel sangue dal Baath, con la collaborazione del nazionalismo Kurdo e il beneplacito della Coalizione a guida USA – che dimostra ancora oggi la sua combattività, insieme alla rivendicazione della fine delle ingerenze Iraniane nel paese. L’inchiesta pubblicata sull’Intercept il 18 novembre 2019, basata su settecento pagine di documenti dell’intelligence iraniana e trafugati da una fonte anonima, dimostrano come questa abbia letteralmente comprato il network di spionaggio che gli Stati Uniti avevano abbandonato con il ritiro dal paese e posto sotto controllo buona parte della classe politica irakena, compresi prominenti membri degli ultimi governi.

La faglia geopolitica del Golfo da anni accumula tensioni che sono pronte ad esplodere. Fino ad ora si è fatto di tutto per evitare uno scontro militare diretto tra le due principali potenze, Arabia Saudita ed Iran, nonostante spesso si sia andati vicine al limite di rottura – si pensi all’attacco con droni che ha messo in grave crisi la capacità di produzione dell’Aramco, la compagnia petrolifera statale dei Saud. Probabilmente questo non è avvenuto in quanto nessuno dei contendenti si sente sicuro sul fronte interno: talvolta le guerre inter-imperialistiche si trasformano in guerre civili e a volte queste aprono scenari rivoluzionari. Gli Hohenzollern e i Romanov ne hanno fatto le spese di questa dinamica, i Savoia rischiarono di farle, più vicino nel tempo e nello spazio la già citata insurrezione irakena del 1991 vide una dinamica simile, forse sia i Saud sia la borghesia clericale persiana hanno imparato e temono quella lezione. Fronti interni troppo accesi non sempre consigliano di lanciarsi verso l’esterno.

Taluni probabilmente si metteranno a strillare dell’ennesimo complotto giudaico-atlantistico-massonico e si daranno alla difesa d’ufficio della ierocrazia di Theran in nome dell’antimperialismo. La geopolitica però è per noi interessante fintanto che ci permette di restituire un quadro di quanto accade nel mondo, non per farci affliggere dalla febbre tifoide del campismo e neanche per compiacerci di essere presunti custodi di una altrettanto presunta eterna, invariante e gloriosa scienza rivoluzionaria, bensì per sviluppare una linea d’azione coerente che ci permetta di individuare qui e ora i percorsi per l’emancipazione sociale. La rivolta contro un regime intrinsecamente antiproletario, misogino, clericale non può che essere guardata con favore e appoggiata.

lorcon

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