Nei giorni a ridosso del 10 febbraio, Giorno del ricordo – scadenza che ha attestato la narrazione della storia del confine orientale sulle posizioni dell’estrema destra – ogni anno non mancano discussioni e polemiche. Si tratta infatti di una ricorrenza che, pur propugnando una “memoria condivisa”, è di fatto un’occasione per celebrare le vittime fasciste della Seconda guerra mondiale.
A rinfocolare le solite polemiche quest’anno è l’uscita di un libro – ma sarebbe forse meglio definirlo un opuscolo – dello storico free lance e documentarista Eric Gobetti.
Laterza ha confezionato un testo che, più che a fare il punto sugli studi, punta a scalare le classifiche di vendita. Un autore già discusso e un titolo provocatorio che richiama lo sketch di Caterina Guzzanti che impersonava Vichi di “Casapau” sono elementi molto accattivanti. Si noti en passant che i titoli arditi sono parte del brand di Gobetti, come si è visto con il volume sull’occupazione italiana della Jugoslavia intitolato “L’occupazione allegra” e un articolo intitolato “Com’è bello far le foibe da Trieste in giù”.
Il libretto è proposto, con un termine alla moda, come il “fact checking” delle principali esagerazioni circolate negli ultimi anni sulla storia del confine orientale d’Italia alla fine della Seconda guerra mondiale. Naturalmente il focus è sui fenomeni più noti: foibe ed esodo.
Il libro ha un’aria di famiglia con il “Vademecum per il giorno del ricordo” a cura dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia del 2019, citato più volte da Gobetti. Il testo dell’Istituto di Trieste contiene diverse ricostruzioni opinabili e forse non c’è tanto da dispiacersi per la scarsa diffusione che ha conosciuto. A curare questo testo è stato Raoul Pupo, ultimo segretario della Democrazia Cristiana provinciale triestina e mammasantissima della storia del confine orientale. Con Pupo Gobetti pare intrattenere ottimi rapporti e reciproca stima (come si nota anche dai dibattiti on line che stanno facendo insieme). “E allora le foibe?” condivide con lo iattato “Vademecum” un’impostazione di contrattazione di una “storia approvata” che mal si concilia alla materia.
Il limite più grosso del libro è il carattere divulgativo fino all’eccesso: si tratta di un volumetto sostanzialmente privo di note, anche se le fonti di ispirazione in certi passi sono evidenti al limite della parafrasi. Gobetti dichiara di aver cercato uno stile che vuole essere comprensibile a tutti e di massima diffusione; che si tratti di questo o di altro, inevitabilmente in questi casi si raggiunge un livello di semplificazione che non può assolutamente ritenersi adeguato alle “complesse vicende del confine orientale”, per giunta in un’ottantina di cartelle di testo.
Preme poi rilevare una serie di passaggi poco chiari o insufficientemente provati. Quando si parla di foibe non si può eludere il tema del calcolo dei morti. L’autore non si tira indietro, appoggiandosi al suddetto “Vademecum”, ma antepone tutta una prolusione in cui critica l’uso indiscriminato del termine infoibamento, in particolare rispetto al maggio 1945. Nonostante questo, il termine viene poi utilizzato in modo impreciso in alcuni passaggi.
In un altro passaggio infatti parla di 10.000 arrestati tra le città di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume di cui un migliaio di “quasi sempre infoibati”. Ma da dove arrivano questi numeri? A che periodo fanno riferimento? Includono anche i collaborazionisti nazisti sloveni giustiziati e gettati nella miniera di Huda Jama/Barbara Pit? Parla anche di eliminazione di cadaveri in mare nelle zone di Fiume e Zara citando però solo un caso. Anche qui non è chiaro la fonte e l’entità di occultamenti di questo genere.
Sulla figura di Norma Cossetto, giovane istriana uccisa nel 1943 e considerata “simbolo del martirio collettivo degli istriani”, Gobetti dice che fu “impegnata personalmente nel partito e nella diffusione del fascismo nella regione”. A cosa fa riferimento? Alla iscrizione ai Gruppi Universitari Fascisti o c’è anche dell’altro non emerso prima?
Si fa riferimento quindi ad una “repubblica di Pisino” che sarebbe esistita dal 2 all’8 di ottobre 1943 nel cuore dell’Istria. Anche questa è una affermazione senza fonti e di cui non si ha notizia altrove a quanto ci consta (senza contare che è difficile solo immaginare una repubblica – anche partigiana – della durata di meno di una settimana).
Gobetti riesce a fare anche l’affermazione, che dimostra quanto poco abbia le idee chiare e sia in fin dei conti attestato su alcune posizioni classiche della storiografia italiana di impostazione patriottica, in cui afferma che “in gran parte di queste terre, fino alla Seconda guerra mondiale, la lingua d’uso principale era l’italiano”. Al solito non si capiscono i limiti temporali precisi (dalla Prima guerra mondiale? O dopo?), né geografici (include Trieste? E la valle dell’Isonzo? In Istria l’italiano non aveva nemmeno la maggioranza relativa prima del 1921 ad esempio).
In cerca di un livello accettabile di precisione, Gobetti avrebbe potuto riferirsi ai testi di Claudia Cernigoi che è molto puntuale sotto l’aspetto “contabile”. La studiosa triestina non è però neppure presente in bibliografia, come neanche Alessandra Kersevan, il che si configura come un’operazione inaccettabile sul piano metodologico. Questa scelta sembra giustificarsi con la necessità di sembrare più “credibile”, dati gli attacchi che da anni le due autrici subiscono, non da ultimo da Raoul Pupo che invece è presente sia in bibliografia che nei ringraziamenti. Il colmo è che Gobetti riesce a non menzionare Alessandra Kersevan anche quando parla di lei, come quando fa riferimento al noto episodio che la vide protagonista ospite nello studio di “Porta a Porta” il 13 febbraio 2012. Allora la Kersevan contestò infatti a Vespa l’errore della nota foto della fucilazione di cinque sloveni a opera di soldati italiani, avvenuta nel villaggio di Dane, che invece anche in quella occasione, come in mille altre anche in questi giorni, veniva descritta come attestato di atrocità partigiane.
Del resto non si capisce bene in base a cosa vengano scelti i testi da citare. Compare in bibliografia un libro pessimo anche sotto profilo letterario come “Senza salutare nessuno. Ritorno in Istria” di Silvia Dai Prà, mentre mancano alcune pubblicazioni fondamentali come, solo per fare un titolo, “Storia di un esodo. Istria 1945-1956” pubblicato nel 1980 dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia.
Non contento di aver completamente censurato l’opera di Kersevan e Cernigoi, intervistato dal quotidiano di Venezia il “Gazzettino” Gobetti fa un attacco diretto contro di loro accusandole di mancanza di oggettività perché ”ideologiche”. Non male, perché per definire certe scelte da lui fatte nel suo opuscolo non ci verrebbe in mente etichetta migliore, al netto dell’impostazione non scientifica, della brevità e della generale semplificazione. C’è da dire che poi Gobetti ha rettificato questa uscita contro le due autrici di Resistenza storica che definire infelice e maldestra è il meno che si possa fare.
Resta in generale dopo la lettura di questo libretto l’impressione di un’occasione mancata. Bisogna constatare purtroppo che uno strumento agile in grado di fornire buoni elementi di orientamento rispetto alla storia complessiva dell’alto Adriatico resti quindi ancora da scrivere, mentre ampia è la circolazione di pubblicazioni sensazionalistiche in cui spesso abbondano tossicità e manipolazione. L’uscita del libro ha avuto il grande effetto di urtare la sensibilità di nazionalisti, fascisti e revanscisti, però si è mosso con sciatteria e superficialità su un terreno minato con diverse imprecisioni che rischiano di diventare boomerang. Questo nuocerà non solo all’autore del libello che già ora sta subendo pesantissimi attacchi da parte di fascisti e nazionalisti, motivo per cui gli va la nostra massima solidarietà. Non possiamo però non notare, che a fronte di qualche spunto interessante a livello di polemica politica, il tutto è immerso di fatto in una narrazione che anziché opporsi al Giorno del Ricordo, lo vorrebbe sottrarre ai fascisti che reagiscono ferocemente. Una posizione debole e autolesionista che da anni viene portata avanti dall’antifascismo patriottico à la Pupo. Abbiamo sotto gli occhi i tragici risultati di questo approccio in termini di sdoganamento delle narrazioni nazionaliste oltranziste ormai ampiamente condivise e di sempre minor spazio di agibilità per chi queste narrazioni cerca di contrastarle. C’è da augurarsi che, come per certi versi ci pare di notare, la scadenza del Giorno del ricordo, ormai troppo compromessa con queste fruste letture nazionaliste quando non apertamente filofasciste, cada in disuso e nell’oblio come già successo a molte ricorrenze del calendario religiose o meno.
È nel frattempo necessario valorizzare e problematizzare la storia internazionalista e meticcia in particolare dell’area dell’alto Adriatico ed evitare di concentrarsi sul vittimismo nazionale evitando posizioni nazionaliste in un senso o nell’altro. Cercare una nuova narrazione di queste vicende è forse la via d’uscita che già scorgiamo in recenti opere, come ad esempio “La Jugoslavia e la questione di Trieste” di Federico Tenca Montini. Siamo anche in attesa del prossimo esordio del Collettivo Nicoletta Bourbaki che darà alle stampe a breve un suo contributo di ampio respiro sulla storia della Resistenza e le sue mistificazioni. Credo sia necessario citare anche per gli esiti particolarmente felici almeno un paio di testi letterari, ma si tratta di opere difficilmente inquadrabili in un genere, come “Una cosa oscura, senza pregio” di Andrea Olivieri e “La farina dei partigiani” di Piero Purich e Andrej Marini.
Un compagno del Caffè Esperanto