Le lotte e i percorsi di liberazione

L’articolo pubblicato su UN, n 8, “Nè settarismi né appiattimenti” pone una serie di spunti su cui occorre riflettere. Per non avere una visione politicista occorre infatti starci in mezzo ai movimenti ed alle lotte, e poter cercare le possibili alleanze, ma concrete, non ideologiche. Ai giorni nostri la critica sociale non gode di buona salute e sono scomparsi i grandi movimenti, ma non le ragioni che le aveva partorite. Si può dire che le manchi una diffusione? Si potrebbe affermare che soffra di sovraesposizione: è diventata un luogo comune, che si crede di sapere a memoria, se conosciuta su libri e riviste. Le tensioni libertarie, sempre presenti nella società, hanno trovato conferme in questi anni. La ripresa delle lotte per la soddisfazione di esigenze primarie sempre più negate da questo sistema, sta vedendo l’incrociarsi dei destini delle nuove generazione con le altre che le hanno precedute. Lo studente di oggi sarà, con buona probabilità il precario di domani, assieme a quello di oggi. I loro destini sono uguali a quelli di operai, impiegati, ecc, un tempo garantiti, sacrificati sull’altare della delocalizzazione delle imprese, destino ancor più complicato per il migrante.

Lo sviluppo delle lotte a margine della condizione salariata (contro le nocività, la psichiatria, le prigioni etc.) derivavano la propria forza dal fatto di avere la lotta di classe come substrato immediato: l’amianto, il manicomio e la galera dovrebbero essere percepite come armi del padrone. Ciò ha un doppio significato: da una parte il movimento proletario, o almeno una parte di esso, era divenuto un centro d’attrazione anche per coloro che erano esclusi dal salariato (dagli studenti fino ai carcerati), dall’altro questa minoranza era portatrice di una critica totale del sistema. Oggi la lotta di classe ha diminuito d’intensità, fino quasi a scomparire, come in un periodo di controrivoluzione, e queste lotte, tendono ad avvolgersi su se stesse. Senza una ripresa della lotta di classe è impossibile che esse, laddove esistano realmente (come da anni in Val di Susa contro il TAV, per esempio), riescano a dinamizzare il contesto generale, a “sbloccare” la situazione.

Se isoliamo il valore costitutivo dell’azione condivisa, distruggiamo l’essenziale per produrre un superfluo immaginifico. L’anarchismo non può che ripetere, e rimettere in gioco in ogni lotta, la sua stessa e semplice conclusione totale, perché questa prima conclusione è fin dall’origine identificata al risultato totale del movimento, pena l’aver relegato alla marginalità una storia e una tradizione, a un idea astratta.

L’abbandonarsi alla deriva settaria ed autoreferenziale, è il pesante lascito della stagione degli anni 70, della frammentazione parossistica, della lotta aspra fra le diverse fazioni, coscientemente o meno strumentalizzata ai diversi fini. L’autoreferenzialità non porta a niente, o a fare iniziative tanto per farle, solo “opera di testimonianza”, invece di stare nella realtà concreta, nella realtà sociale, vicino alle persone che vivono un territorio, chi fa “un serio” lavoro militante lo sa. È imprescindibile stare fra la gente nostra, poiché la risultante delle forze del cambiamento si compone delle diverse esperienze, dei vari percorsi di libertà.

Rifarsi alle proprie radici è importante, ma ha ben pensare è meglio considerare la propria storia, come un fiume, con diversi affluenti, più che un albero, inamovibile e sferzato dal vento. Fissare dei paletti, dei punti fermi quali l’antifascismo, l’antisessismo, l’antirazzismo non deve diventare un codice esclusivo che non consente di dialogare coi più, le cui coscienze sono piegate dal sistema d’indottrinamento scolastico, universitario o main stream.

Le nuove generazioni che si affacciano alla politiche per l’emancipazione dell’umanità, potrebbero imparare dagli errori del passato, senza cadere in un afflato volontaristico, psicologico, che potrebbe risultare pericoloso per se stessi e per gli/le altr*. Quando la volontà diventa il valore supremo, allora il delirio è dietro l’angolo. Non a caso nei territori battuti dai “cani sciolti” si trova spesso più fantasia e sperimentazione. L ‘indifferenza verso altre pratiche è non cogliere le differenze, ma se c’è qualcuno che fa cogliere le differenze, che le fa vivere, magari le conquista a quell’afflato universale che viveva nella Comune di Parigi, a Kronstad, nelle ramblas di Barcellona, e che vive in Chiapas e in qualche minoranza agente in Grecia.

La vicinanza e prossimità nella dignità dei rapporti, in un tempo odierno davvero pericoloso in cui l’erosione dei diritti si coniuga con una fragilità delle risposte e degli anticorpi della società tutta, non solo quella classista, sono una garanzia.

Un punto fermo dovrebbe essere avere un pensiero, un azione ed una pratica sincretica. Il carattere inclusivo nelle pratiche, stare dentro le situazioni, portare il punto di vista proprio, magari frutto di analisi, di pensiero e non solo di percezioni o stati emotivi momentanei. Se il non congiungimento immediato con una coscienza di fondo, richiama la continua giustificazione: “noi siamo gli unici che…”, “noi siamo diversi dagli altri…” etc.; per l’altro, se collocata dall’esterno, la coscienza non possiede una trasmissibilità al fine di essere “inoculata”. Vale per tutti i vani tentativi di veicolare una coscienza, vale per la cosiddetta controinformazione. Si comunica realmente sempre e solo riguardo a ciò che si ha in comune. Al di fuori di una condizione comune effettivamente vissuta, di una comunità di lotta già esistente, la diffusione di un’informazione qualsivoglia (“esiste questa lotta in quel tal posto”, “hanno arrestato tizio per…etc.) è del tutto inutile: non sarà nient’altro che un dato in più nel flusso inarrestabile e superfluo che ci inonda quotidianamente.

La teoria e la pratica anarchica, per come essa oggi si manifesta, vede i limiti delle lotte come limiti esterni, imposti. Da qui, ad esempio, la pratica di “spingere” durante le manifestazioni degli altri: di “liberare” qualcosa che c’è ma è bloccato (dalle burocrazie di movimento, ai cosiddetti “pompieri” etc). In realtà questi limiti sono del tutto interni, sono un prodotto delle lotte stesse. E allora chiunque intende praticare un intervento per liberare dai propri limiti le lotte attuali non può che riprodurre tali limiti al contrario: “interrompere la normalità”, “creare momenti di rottura” Si parla di un rapporto sociale diverso da quello capitalistico che si manifesta istantaneamente in tali momenti. Dunque lotta all’interno di un rapporto sociale contraddittorio e rapporti sociali differenti che si fronteggiano faccia a faccia. Se il nuovo rapporto sociale è già presente nello stile di vita individuale (dall’alimentazione alle preferenze musicali) come nel momento collettivo (la famosa e poco vissuta “maniera diversa di stare insieme”), basterà semplicemente che esso si estenda. Oggi invece la benevolenza e la generosità, di tanti militanti è frustrata da improbabili cappelli politici.

Persone, gente nostra che sente sulla propria pelle le contraddizioni, che matura le riflessioni e scelte. Di rompere col sistema, nell’agire efficacemente al di fuori e dentro di esso, entrando direttamente nella vita sociale. Dentro e contro la storia. Dai picchetti antisfratto o davanti ai cancelli delle fabbriche, ai cortei studenteschi, dalle occupazioni di scuole ed università, ai presidi permanenti delle discariche, centrali a bio masse, rigassificatori, ecc; dai CIE (per fortuna demoliti dai migranti stessi), all’attivismo coraggioso e determinato NO TAV e NO MUOS, insieme alla creazione di vie alternative di lotta: sportelli di ascolto e aiuto, lavoro e documenti ai migranti, percorsi sulla sessualità, creazioni di orti urbani, mercatini vari, nascita di comuni agricole, filiere per la produzione e trasformazione di beni primari, quali grano, olio, vino e birra, da gustare ascoltando un recital di poesie, o l’ultimo pezzo hip hop, o ballando una taranta.

Il contrastare efficacemente le politiche padronali, i dettami della troika, le falsità dei partiti, implica percorsi ed incontri nuovi, avvolte inediti, nel territorio, facendo a pezzi steccati e orticelli polico-ideologici di un tempo. Ingenuità? Non credo. Certo non voglio qui negare, che permangono e sono a volte forti le differenze politiche e di metodo. La storia dei movimenti ha le sue differenti letture. Gli approcci, non si possono dare per scontati, nelle varie situazioni, sia geografiche che di settore. Passi avanti sono stati fatti lì dove ogni componente ha trovato spazio per la propria identità, dando forza all’innovazione sociale del movimento tutto. Ma ciò che è ancora più importante, circa l’azione diretta che si è data, è che essa costituisce un decisivo passo avanti verso la riconquista di quel potere individuale sulla vita sociale che le burocrazie centralizzate e soffocanti hanno usurpato alla nostra gente. Attraverso l’azione diretta, non solo riacquistiamo la sensazione di poter controllare il corso degli eventi sociali, ma acquistiamo ancora una nuova individualità e una nuova personalità, senza le quali è assolutamente impossibile realizzare una società veramente libera, fondata sull’attività individuale e sull’autogestione. L’io di ciascuno individuo come essere umano, creativo e capace con sue proprie sensibilità e carattere. Le società classiste o di massa, trovavano e hanno la base nella gerarchia, nell’obbedienza e nella dominazione, nell’essere spettatori omogenei, nell’uniformarsi alle avanguardie, nella fiducia nei guru o leader di turno, siano essi Obama, Berlusca, Renzi o Grillo.

“Una società veramente libera, non reprime l’individualità, ma piuttosto l’incoraggia e la favorisce, la libera e rende attuale, poiché crede nella capacità dell’uomo, di tutti gli esseri umani, a gestire la società, e non solo a eleggere, e propri esperti o sedicenti geni. Il principio dell’azione diretta non è altro che l’allargamento del concetto di assemblea della città libera. E’ il mezzo attraverso il quale ogni individuo riscopre le energie nascoste in sé e riacquista un senso di fiducia nelle proprie capacità e conoscenze. È il mezzo attraverso il quale gli individui possono assumere direttamente il controllo della società…..è un principio morale, un ideale, una sensibilità che dovrebbe comprendere e interessare tutti gli aspetti della nostra vita, del nostro comportamento, di ogni prospettiva” (M. Bookchin)

L’incontro delle pratiche, nelle piazze, nelle strade, nei campeggi di resistenza in difesa del territorio, il contaminarsi attraverso l’ascolto e il fare assieme, arricchisce quel bagaglio, di conoscenze che ognuno si porta dietro, magari nella propria realtà, contribuendo a modificarne la coscienza e le prospettive nel cambio culturale e materiale, del proprio quartiere, CSOA, facoltà, ecc. L’impegno a recuperare e inventarsi la nostra identità, svilupparla, nel migliore modo possibile, è il modo più bello, profondo e soddisfacente di viversi questa vita negli anni a venire.

Orestes

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