Contro ogni nocività

Come più d’uno ha avuto modo di notare, la situazione determinatasi con l’epidemia del Covid 19 ha visto il diffondersi in luogo degli allenatori di calcio, che animano i bar il lunedì mattina, di un congruo numero di virologi ed epidemiologi d’assalto. Ritengo opportuno non addentrarmi in un campo nel quale non ho competenze e credo invece sia possibile provare a ragionare sulla relazione fra la crisi attuale e le strutture di fondo della società in cui viviamo.

Il discorso pubblico in questo momento, se escludiamo le posizioni estreme di chi ritiene che il virus non esista e sia un’invenzione di qualche potere oscuro o di chi pensa che tutto sommato l’epidemia possa essere utile a sfoltire la popolazione di un segmento improduttivo e costoso, verte sulla necessità di contrastare l’epidemia per un verso e su quella di non danneggiare eccessivamente l’economia per l’altro alla ricerca di un problematico equilibrio.

Varrebbe però la pena di guardare alla crisi come fatto che porta a maggiore evidenza alcuni caratteri delle attuali relazioni sociali e produttive e sulle loro ricadute sui comportamenti individuali e collettivi oltre che sugli orientamenti che vengono assunti sia individualmente che collettivamente. Può essere utile a questo fine schematizzare la struttura sociale non, o non solo, come una piramide in cui si collocano i diversi gruppi sociali ma come un assieme che possiamo dividere in quattro sottosettori, collocando:

È evidente che, come avviene in ogni raffigurazione di questo tipo, le frontiere fra i vari gruppi non sono rigide. In una fase di crisi settori sociali che in condizioni normali godono di relative certezze possono rapidamente precipitare in una condizione radicalmente peggiore, che l’intervento pubblico può tamponare in qualche misura la situazione garantendo reddito e occupazione, che la stessa durata ed intensità della crisi non è oggi perfettamente prevedibile, che la collocazione sociale dei singoli individui dipende da una grande varietà di fattori, banalmente, per fare un caso, dall’appartenenza familiare. D’altro canto la schematizzazione proposta, come ogni schematizzazione non pretende di descrivere dettagliatamente la realtà ma è uno strumento di lavoro per interpretarla.

Se noi riflettiamo su quanto avviene sul terreno del conflitto sociale in una situazione “normale” e, a maggior ragione, in presenza di una crisi, l’ipotesi proposta trova molte conferme. Infatti, il conflitto “verticale” fra capitale e lavoro o, comunque, fra gruppi sociali dominanti e subalterni si intreccia con tensioni che vedono opposti, non da oggi, segmenti dello stesso gruppo sociale.

Basta pensare, a questo proposito, all’opposizione fra lavoratori del settore privato e di quello pubblico e alle compagne contro i pubblici dipendenti “fannulloni” per averne un esempio per quanto grossolano e, in termini di comportamenti politici, all’adesione che si hanno, da decenni, fra i lavoratori del settore privato, non solo in Italia, della proposta di tagliare la pressione fiscale e contributiva a favore del reddito diretto con il conseguente taglio dei servizi sociali.

Soprattutto nell’universo della piccolissima impresa avviene normalmente che i lavoratori salariati si sentano più vicini al “loro” padrone rispetto all’apparato dello Stato percepito come parassitario edinutilmente gravoso a fronte del cattivo funzionamento di alcuni servizi. D’altro canto, in questo importante segmento della società, dilatatosi per la riduzione del peso della grande impresa, del decentramento produttivo, della precarizzazione di una quota importante del lavoro, il conflitto sindacale, anche nelle sue forme più moderate, ha poco spazio come ha poco spazio la stessa organizzazione dei lavoratori come soggetto collettivo.

Le stesse organizzazioni sindacali, quando vi sono, funzionano quasi esclusivamente come struttura di servizio, come una sorta di agenzia che svolge funzioni di supplenza alla pubblica amministrazione. Va detto che vi sono eccezioni positive ed importanti, le recenti lotte dei ciclofattorini per uscire dalla condizione di “lavoratori autonomi” e conquistare la, sia pur limitate, garanzie dei lavoratori dipendenti ne sono un esempio ma si tratta, appunto, di un caso accanto a molti altri di quasi inevitabile passiva accettazione della situazione.

Venendo all’oggi e, in particolare, agli effetti del Covid, assistiamo alle mobilitazioni dei piccoli – e non solo piccoli – commercianti terrorizzati dal rischio di chiusura delle loro attività, alle lotte di gruppi di lavoratori dipendenti privi di protezione sociale, al fatto che molte mobilitazioni, una per tutte quella dei lavoratori dello spettacolo, assumono come controparte lo Stato e come obiettivo la garanzia del reddito, all’iniziativa forte del padronato per garantirsi la quota maggiore possibile del finanziamento pubblico, per avere una percezione immediata di una situazione per molti versi nuova.

Spostando il punto di vista, se compariamo l’attuale politica di dilatazione del debito pubblico con le politiche “di rigore” in auge sino a qualche anno addietro, abbiamo la conferma della rilevanza dei cambiamenti in corso. In questo scenario una discussione che si appiattisca sulle due opzioni (1) chiudiamo tutte le attività produttive e sociali che si possono fermare (2) salviamo l’economia riducendo al minimo le chiusure, rischia di essere ideologica e subalterna.

È evidente infatti che chi vive come prima preoccupazione il piombare nella miseria tenderà inevitabilmente, o quasi, a considerare secondaria la situazione sanitaria e che chi è meno pressato da questo timore rivendicherà in primo luogo la protezione dall’epidemia con l’effetto, piaccia o meno, di una spaccatura interna alla nostra classe e, mi scuso per la banalità di quanto rilevo, di una vittoria politica dei nostri avversari.

Può valere la pena di notare, per fare un esempio che ci riguarda direttamente come, di fronte a moderatissime richieste di aumenti salariali per i dipendenti pubblici, si badi bene, ad opera degli stessi sindacati istituzionali piovono critiche sulla non opportunità, per usare un eufemismo, di richieste di questa natura.

Per quanto riguarda la specifica situazione della scuola pubblica la questione prende aspetti particolari. È, infatti, sin troppo evidente che l’unica scelta efficace dal punto di vista sanitario non può che essere la chiusura a tempo indeterminato della scuola stessa: nella scuola infatti un gran numero di persone si ammassa in spazi chiusi, peraltro insufficienti e sovraffollati, il suo funzionamento prevede un ulteriore affollamento dei mezzi pubblici, l’eventuale contagio negli ambienti scolastici coinvolge milioni di famiglie.

Nello stesso tempo la scuola di massa in una società caratterizzata da una quota rilevante di lavoro femminile e dalla fine della famiglia allargata ha la funzione, ancora una volta ci piaccia o meno, di accudimento delle giovani generazioni in particolare nella scuola d’infanzia e primaria.

Per evitare equivoci proviamo a dare una definizione più rigorosa: la scuola è una parte dell’assieme dei servizi pubblici che garantiscono la riproduzione sociale. Ne consegue che ogni interruzione dello svolgimento della sua funzione ha un impatto diretto sul funzionamento di ciclo della produzione e, di conseguenza, sulle condizioni di vita e di lavoro di molti milioni di persone.

D’altro canto anche l’esistenza delle case di riposo per anziani, un vero e proprio focolaio per le infezioni, è il prodotto dell’indebolimento se non della fine della struttura familiare tradizionale a cui era devoluto l’accudimento nella nostra società nel diciannovesimo secolo e per ampia parte del ventesimo.

Di conseguenza in questo contesto un’azione sindacale radicale deve tener conto della complessità della situazione, della diversità dei contesti in cui operano le colleghe ed i colleghi e caratterizzarsi, nell’immediato, per un’azione la più efficace possibile, di contrasto puntuale ai rischi per la salute del personale, degli studenti, delle famiglie e, in prospettiva, per una trasformazione altrettanto radicale del sistema scolastico.

Molto sommariamente, si deve, sul piano immediato: 1. Denunciare pubblicamente e puntualmente le mancate promesse del governo; 2. Contrastare i tentativi dei dirigenti scolastici di utilizzare la situazione per accrescere il proprio potere; 3. Svolgere una puntuale opera di informazione sui diritti e di tutela delle colleghe e dei colleghi.

Per questi motivi è necessario un confronto e un lavoro di approfondimento sul piano tecnico-giuridico ed un’elaborazione generale di proposte per una trasformazione del sistema educativo e, inevitabilmente, di una struttura sociale e produttiva che è essa stessa profondamente patogena. Sul piano politico sindacale più generale non si tratta di inventare nulla, la crisi determinata dal Covid rende ancora più evidente l’urgenza di: 1. Investimenti nell’edilizia scolastica e nel trasporto pubblico; 2. Assunzione del personale necessario; 3. Riduzione del numero di alunni per classe; 4. Attrezzare la scuola dal punto di vista della tutela sanitaria

Si tratta, però, di costruire una campagna pubblica su questi temi, di discuterne in categoria, coi collettivi studenteschi, con le associazioni delle famiglie non per ripetere una piattaforma ma per arricchirla, articolarla, farla vivere nella mobilitazione collettiva in relazione ad analoghe iniziative sulla sanità, i trasporti, l’abitare. Si deve, insomma, collocare la campagna sulla scuola in una campagna generale sul terreno di classe che sappia unire intervento sullo specifico con una prospettiva più ampia di trasformazione sociale che affronti l’assieme delle nocività che sono costitutive dell’attuale ordinamento sociale. Questo in un momento in cui quest’azione è resa, se possibile, più difficile dal fatto di essere costretti ad operare quasi sempre “da remoto” e anche su come farlo bisogna ragionare.

Cosimo Scarinzi

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