Conflitto ambiente e lavoro

L’esigenza di reddito soggiace, soprattutto nelle zone più povere, su una grossa contraddizione, quella che vede contrapposte, e impunemente messe sullo stesso piano, tre questioni difficilmente conciliabili in una società a capitalismo avanzato come quella nella quale viviamo; la salute, l’ambiente e il lavoro.

Inconciliabili in quanto la logica del profitto “a tutti i costi” tende a risparmiare invece sui costi dell’impatto ambientale e su quelli del lavoro (compresa la sicurezza), generando conflitti spesso insanabili. Da un lato l’esigenza primaria del reddito, che diventa incomprimibile in assenza dei servizi garantiti e che anzi cresce di pari passo con la dismissione del welfare state, senza per questo essere controbilanciata da una pari crescita dei salari.

La disoccupazione ed il precariato come unico orizzonte di creazione di reddito familiare preparano il terreno per l’accettazione, più o meno supina o più o meno sofferta, del ricatto del lavoro. Ricatto che coinvolge interi territori nella loro complessa interezza. Nella loro matrice culturale in quanto innesta l’esigenza di reddito monetario immediato e indifferibile per far fronte a nuovi capitoli di spesa familiare, fino a qualche anno fa desueti, costi sanitari, scolastici e di trasporto, ai quali è sempre più difficile far fronte. Nella loro matrice sociale in quanto instillano nuovamente l’esigenza della migrazione come unica via di fuga dalla disoccupazione o ancor peggio portano interi pezzi di società a difendere dei mostri industriali senza i quali il loro reddito piomberebbe a zero (vedi il caso ILVA di Taranto). Nella loro matrice ambientale in quanto rendono economicamente indispensabili ingenti investimenti per la trasformazione della morfologia del territorio, come unico rimedio per svincolare fondi e garantire temporanei posti di lavoro per la realizzazione di grandi opere spesso inutilmente impattanti e costose, tese a garantire un non meglio identificato sviluppo.

In questo gioco al ribasso, la componente ambientale intesa nella sua funzione di elemento fondamentale per la riproduzione in senso lato, tanto della vita in sé e per sé quanto dei fattori socio-economici primari, non solo quindi le materie prime per la produzione di beni, ma tutta quella complessità fatta di potenzialità le quali potrebbero sottrarre interi territori al ricatto di dover scegliere tra l’inquinamento e la fame, ossia tra una morte lenta e l’indigenza immediata con i relativi stigma sociali che questa comporta.

I disastri dello sconvolgimento climatico dovuto al riscaldamento globale estrinsecano i loro effetti anche dentro le porte di casa, generando contraddizioni su contraddizioni, presentando il conto di stagioni di “benessere economico” nelle quali si sguazzava in un temporaneo “bengodi”. Come sempre il meridione è la cartina al tornasole di tutte le contraddizioni del sistema, anni di lassismo e condoni edilizi hanno creato agglomerati urbani mal costruiti, inverni sempre più rigidi ed estati sempre più calde hanno messo in crisi le abitazioni inadatte a questo tipo di temperature, e per i soggetti sociali a rischio (anziani, infanti innanzitutto) si deve ricorrere ad espedienti come la climatizzazione artificiale, pena un serio rischio per la salute, nuove esigenze imposte dal clima alle quali è difficile far fronte vista la scarsità di mezzi monetari.

Dal versante dell’uso delle risorse territoriali i cambiamenti climatici impongono una serie di espedienti tecnologici per mantenere remunerativo l’uso agricolo dei suoli, sia per resistere alle intemperie sia per la presenza di nuove specie di insetti migrate grazie a più favorevoli condizioni climatiche, le quali non hanno però antagonisti naturali in loco. Solo le aziende più grosse possono ricorrere ad espedienti “eco-compatibili”, mentre i piccoli ricorrono a pesticidi sempre più sofisticati e potenti. Tutto ciò si traduce in braccianti a basso costo che utilizzano sostanze tossiche spesso senza molte protezioni e nell’abbandono delle terre da parte di chi non riesce a stare al passo coi costi crescenti. Davanti all’erosione di possibilità di estrarre reddito dal territorio in maniera rinnovabile, etica e compatibile, la risposta si riduce ad attirare industrie di varia natura fornendo loro infrastrutture.

La salvaguardia ambientale è quindi un punto centrale della critica alla società capitalistica e alla sua crisi permanente, che non può essere relegato ad un sussulto ecologista mainstream. Quel che di buono c’è nei Fridays for future è di aver portato all’attenzione del grande pubblico un problema cruciale, il dramma è che l’attenzione del grande pubblico è sempre più effimera e tende a cambiare direzione non appena trova qualcosa di più interessante. Chi sopravvive a stento, però, spesso il discorso “fra cento anni saremo tutti spacciati” convince poco dal momento che deve fare l’equilibrista tra i debiti, l’affitto e le bollette.

Le panacee green spesso illustrate nei dibattiti o nei vari momenti di piazza se da un lato forniscono delle alternative a vecchie tecnologie inquinanti spesso sottendono un lato B non del tutto noto. Uno slogan spesso usato negli USA recita, “to be brown elsewhere to be green at home” – “essere inquinanti altrove per essere green a casa nostra “ – il che implica da un lato il disconoscimento del fatto che il sistema terra è un sistema chiuso (quindi se si produce in maniera devastante da qualche parte prima o poi sta porcheria arriva ovunque), dall’altra sottintende anche un altro livello di lettura, ossia che un uso smodato di tecnologie green non è sempre sinonimo di eco-compatibilità.

È il caso delle selve di parchi eolici spuntanti un po’ ovunque nel sud Italia, (Campania Calabria e Sicilia hanno primati europei per la presenza di parchi eolici) che hanno la duplice inutilità di aver devastato paesaggi collinari nei quali non è più possibile piantumare alcunché e di produrre energia che in buona parte non viene utilizzata localmente ma spedita tramite elettrodotti (ergo elettrosmog) lì dove serve. Dove starà la convenienza dell’eolico? In chi li costruisce e li gestisce, dal momento che un plinto per una torre tra movimentazione terra calcestruzzo e altro costa 600-700.000 euro.

Si deve quindi concludere che se da un lato le tematiche ambientali sono spesso ammantate da narrazioni che distorcono il reale portato del problema, sia banalizzandolo sia confinandolo in un solo ambito o, peggio, riducendolo alla sola responsabilità individuale, tralasciando interi settori energetico-industriali che vomitano più scorie e gas serra in un giorno di quanto non ne emettano tutte le caldaie accese della Lombardia per un mese. Eppure, se si scende addirittura in piazza per salvare l’Ilva o la raffineria di Augusta, ciò purtroppo non è dovuto alla sola mancanza di una coscienza ecologica, ma all’estrema necessità imposta dal meccanismo di crescita infinita necessario al mantenimento della società dei consumi. Su questo il cerchio, o meglio il cappio si chiude stringendo per prima gli ultimi, quelli che stanno più in basso nella catena di sfruttamento, i quali paradossalmente continuano a barattare il futuro della loro progenie per un presente di sfruttamento.

J.R.

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