A proposito di boicottaggio dello stato di Israele e di pratiche solidali
Dal 7 ottobre in poi, la questione palestinese si è imposta come centro di interesse principale per i movimenti di opposizione sociale e politica, determinando livelli di mobilitazione che non si vedevano da decenni, in Italia e nel mondo. Non è certo una questione nuova: è un’orribile scia di sangue, che dal secondo dopoguerra arriva ad oggi, e che affonda le sue radici ancor più lontano, nei decenni a cavallo tra le due guerre mondiali, quando l’imperialismo britannico favorì la trasformazione dell’innocua migrazione ebraica verso la Palestina nella ben più aggressiva migrazione sionista, come già nel ’29 aveva ben compreso il nostro Camillo Berneri. Ma se il sangue palestinese che scorre a fiumi non è certo una novità, le vicende degli ultimi undici mesi hanno letteralmente polverizzato la memoria di tutte le crudeltà sioniste di quasi un intero secolo. Non sto qui a elencare i numeri dei morti, delle distruzioni, degli orrori causati dalla violenze senza limiti di un esercito potente, sostenuto dall’imperialismo statunitense. Cifre, immagini, testimonianze, documentazioni ve ne sono in abbondanza per chi abbia occhi e cuore per vedere. Non è invece banale osservare, che di fronte all’enorme salto di qualità nell’azione genocida del governo israeliano, il variegato universo dei movimenti ha dimostrato una grossa capacità di mobilitazione internazionale, riuscendo ad interpretare una diffusa indignazione di massa, e ad occupare un notevole spazio su massmedia e social-media. Pensiamo all’attenzione che son riusciti a conquistarsi gli ebrei statunitensi che hanno assediato il parlamento USA in difesa dei palestinesi. Pensiamo ai cortei oceanici in contemporanea nelle latitudini più diverse e lontane. E pensiamo anche al più che dignitoso livello di mobilitazione che è stato promosso anche qui in Italia. La partita, però, che i movimenti son chiamati adesso a giocare si prospetta ragionevolmente lunga e non facile. L’attuale distruzione della striscia di Gaza è incommensurabilmente più devastante delle precedenti mattanze – “Piombo fuso” (2008) e “Margine protettivo” (2014) – e ha tempi e prospettive ben diversi. Al tempo stesso, l’operazione militare avviata il 28 agosto in Cisgiordania, rappresenta un salto di qualità nella strategia coloniale dello Stato sionista. Da questo punto di vista l’uccisione di una attivista dell’International Solidarity Movement con passaporto statunitense, è solo un ulteriore segnale di quanto i “rimproveri” di Biden a Israele siano un mero gioco delle parti. Ogni giorno si parla di trattative, si evoca l’imminente caduta di Netanyahu, ma i mesi scorrono e la situazione non fa che peggiorare, mentre la scena viene sempre più occupata dalla partita regionale tra Israele genocida e Iran integralista e femminicida.
In tale scenario, la solidarietà attiva con la Palestina avrà la necessità di dare continuità alla propria azione, ed è in questa prospettiva che vanno valutate le diverse pratiche da portare avanti, con la piena consapevolezza che solo con una combinazione di più strumenti si può raggiungere un minimo di efficacia. In questa sede, pongo l’attenzione sullo strumento del boicottaggio delle merci israeliane. Strumento già largamente attivato su scala internazionale e che presenta una certa potenzialità, soprattutto se considerato dal punto di vista della continuità di azione. Possiamo considerare il boicottaggio una forma di azione diretta immediatamente accessibile ad alcuni settori di massa, i quali, nel condizionare i propri acquisti al fine di contrastare una forma particolarmente crudele di dominio, si danno una modalità di attivazione da non sottovalutare. In questo senso, essere presenti con regolarità davanti ai supermercati per promuovere il boicottaggio delle merci significa allargare il recinto della contro-informazione e l’impegno, significa coltivare un rapporto reale tra il tessuto militante dei movimenti e segmenti di classi subalterne. Spostandoci, poi, sul fronte dell’efficacia concreta del boicottaggio, va detto che, se misurare i risultati reali di questo tipo di pratica non è affatto semplice, sappiamo anche che i settori esportatori del Capitale sono in qualche modo sensibili a campagne che colpiscono la loro immagine se non anche il portafoglio. Nello specifico non è del tutto irrilevante che il settore dell’alta tecnologia, cuore del capitalismo di guerra israeliano, produca ben il 54% dell’export.
Sappiamo che già largamente attiva sul terreno del boicottaggio ad Israele, è la Campagna internazionale Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni (BDS), nata nel 2005 ad opera di una autodefinitasi “società civile palestinese”, e largamente ispirata dalle idee e dalle indicazioni di Omar Barghouti, un leader palestinese molto popolare, indipendente sia da Hamas che dall’Autorità Nazionale Palestinese. La cultura politica del BDS è grossolanamente definibile come democratico-pacifista, e centrale è il riferimento al boicottaggio del Sudafrica al tempo dell’apartheid. Il BDS sottolinea la propria totale incompatibilità con qualsiasi forma di antisemitismo, e si ispira ai valori di antirazzismo, libertà, uguaglianza e diritti umani. A creare una certa distanza con la sensibilità politica anarchica e libertaria c’è la continua rivendicazione del Diritto internazionale, facente capo all’ONU e alla Corte Internazionale di Giustizia. In verità, nelle concrete situazioni locali il BDS appare assai più variegato dal punto di vista ideologico, politico e financo operativo. A ciò corrisponde la varietà delle sigle che hanno nel tempo aderito all’appello fondativo del 2005. Quest’ultima caratteristica conferisce alla Campagna BDS una discreta inclusività, ma d’altra parte la rende localmente porosa ad aree politiche che presentano vistose ambiguità verso un’organizzazione reazionaria come Hamas, e che non di rado amano definire l’azione militare del 7 ottobre come una moderna “rivolta di Spartaco”. Passando poi dalle questioni politiche alle indicazioni pratiche, il BDS propone “il metodo storicamente vincente del boicottaggio mirato”, cioè quello di “concentrarci strategicamente su un numero relativamente piccolo di aziende e prodotti accuratamente selezionati per ottenere il massimo impatto”. Insomma: agire contro “le aziende che svolgono un ruolo chiaro e diretto nei crimini di Israele e dove esiste un reale potenziale di vittoria”. Tipico è il concentrarsi sulle catene di supermercati della Carrefour, multinazionale che non solo ha partnership con società israeliane “coinvolte in gravi violazioni contro il popolo palestinese”, ma ha anche regalato pacchi-dono ai soldati israeliani operativi a Gaza. Più complicati appaiono gli altri due poli del BDS, cioè Disinvestimento e Sanzioni. Per disinvestimento il BDS intende “pressione su governi, istituzioni, fondi di investimento, consigli comunali, ecc. affinché escludano dai contratti d’appalto” e tolgano investimenti alle “società complici”, in particolare alle “aziende produttrici di armi e banche”. Si tratta di una forma sicuramente più interpretabile di azione rispetto al boicottaggio diretto delle merci da parte dei consumatori. Infatti, fare “pressione” può voler dire cose anche molto diverse tra loro. Tuttavia, si tratta di una pratica che sembra poter avere una qualche efficacia. Il BDS rivendica di aver ottenuto alcuni risultati importanti e in particolare quello conseguito con la multinazionale francese AXA, che sembra aver disinvestito dalle banche israeliane. Infine qualche parola sulle Sanzioni. È una pratica che solleva alcune perplessità perché va naturalmente a legarsi al ruolo di istituzioni come l’ONU o Corte Internazionale di Giustizia e a quel “Diritto Internazionale” che ha più volte dimostrato di essere una farsa. I documenti ufficiali del BDS definiscono molto spesso quella di Israele come “occupazione militare illegale”. Ciò non può che farci ritornare alla mente la distinzione tra guerre “legali” (cioè legittimate dall’ONU) e guerre “illegali” (non legittimate dall’ONU). Una distinzione contro cui gli anarchici si son battuti fin dalla prima guerra in Irak (1991). D’altra parte, se chiedere a uno Stato di sanzionarne un altro significa accettare quel monopolio della violenza che domina lo stato di cose presenti, ha una sua validità la rivendicazione di non inviare armi ad Israele e di smantellare la collaborazione militare, purché queste rivendicazioni siano accessorie a forme dirette di blocco del trasporto di armi, come è stato già stato praticato da alcuni settori di classe lavoratrice.
In conclusione, ritengo che il boicottaggio delle merci israeliane meriti di essere praticato e sostenuto, dentro o fuori la cornice del BDS, a seconda delle situazioni locali.
Claudio Strambi