I redditi dei ceti popolari sono costantemente aggrediti e svuotati di potere di acquisto. Lo sappiamo bene, ce ne accorgiamo tutti i giorni. Ll fenomeno è così massiccio che non siamo i soli ad accorgercene.
Il 24 marzo è stato pubblicato il rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL – l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite sui temi del lavoro e della politica sociale) sulle tendenze dei salari e delle diseguaglianze salariali in Italia e nel mondo. Questa pubblicazione ha avuto ampia eco sugli organi di informazione, che hanno evidenziato l’enorme riduzione dei salari reali dal 2008 ad oggi. I vari media, a seconda dell’orientamento politico, hanno usato questa riduzione per giustificare o condannare l’operato del governo in carica. Al di là delle critiche più o meno giustificate, la polemica sull’azione del governo su questo tema ci dice una cosa importante su questa società.
Il salario è il prezzo della capacità lavorativa, merce fondamentale del modo di produzione capitalistico. Il fatto che destra e sinistra attribuiscano così grande importanza all’azione del governo rispetto al prezzo di questa merce ci dice che questo stesso prezzo non è determinato dal confronto tra venditori e compratori, cioè tra classe operaia da una parte e classe dei capitalisti dall’altra, ma è un prezzo politico, fissato appunto dal governo. Ora, se il prezzo della merce fondamentale del modo di produzione capitalistico, ossia il salario, non è affidato al libero mercato ma è fissato in modo politico dal governo, tutte le narrazioni rispetto al liberismo e al neoliberismo si rivelano appunto per quello che sono: una maschera per l’intervento costante dei governi nell’economia, ovviamente a sostegno dell’ordine politico e sociale, cioè a vantaggio del modo di produzione capitalistico, a vantaggio del profitto individuale, a vantaggio dei padroni.
A questo si riduce la mitologia del merito e della competitività: nascondere il fatto che il governo, come tutti i governi, agisce per rendere più ricco chi è già ricco.
Il dibattito sull’azione del governo ci fa capire anche che il peggioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari non è il risultato inevitabile del modo di produzione capitalistico e delle sue leggi “che agiscono con la forza di leggi naturali” (F. Engels), ma è il risultato di precise scelte dei governi, scelte in cui il dominio politico si incrocia con il dominio economico.
Ogni governo, infatti, anche quello ipoteticamente “migliore”, non può che sostenere le classi economicamente potenti, cioè quelle che, come il governo, vivono del lavoro della gran massa della società e lo sostengono contro le inevitabili pretese dei malcontenti, indipendentemente dalle belle parole scritte nella costituzione o nelle dichiarazioni delle istituzioni internazionali.
Anche il rapporto di cui stiamo parlando ripete queste litanie, sostenendo che già nel 1919, la Costituzione dell’OIL richiamava la necessità di formulare delle “politiche in materia di salari … per dare a tutti la possibilità di godere equamente dei frutti del progresso e per garantire un salario minimo dignitoso a coloro che hanno bisogno di siffatta protezione”. Il rapporto OIL fa riferimento anche alla Costituzione della Repubblica italiana, che sancisce il diritto del lavoratore “a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Il documento OIL inoltre sottolinea il ruolo dei salari nel contrastare la disuguaglianza, come riaffermato più di recente dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.
Un altro passo apologetico del rapporto dell’OIL è quello che stabilisce il legame tra crescita dei salari e crescita economica: “Quando i salari aumentano, i lavoratori hanno più reddito disponibile e consumano di più. La maggiore spesa per consumi spinge le aziende a produrre di più e potenzialmente ad assumere più lavoratori che, a loro volta, spendono i loro guadagni e stimolano ulteriormente l’economia. Questo effetto domino legato ad un aumento dei salari e accompagnato dall’effetto del moltiplicatore porta ad un aumento complessivo dell’attività economica e del reddito nazionale”.
In realtà la riduzione del prezzo della capacità lavorativa al di sotto del suo valore, cioè la riduzione dei salari reali, è il principale fattore che ostacola la tendenza al calo del saggio di profitto: in altre parole, l’azione dei governi per la riduzione dei salari è solo funzionale all’aumento dell’accumulazione capitalistica.
Infatti la tanto decantata crescita economica non nasce dall’aumento di salario ma dalla sua riduzione. Proviamo a dare qualche dimostrazione di questo concetto.
Il PIL (prodotto interno lordo) di un paese è composto da beni e servizi destinati ad essere consumati; alcuni vengono consumati produttivamente, cioè per dar vita ad un altro ciclo economico, altri improduttivamente. Parte di quelli destinati al consumo improduttivo sono destinati a ricostruire la capacità lavorativa consumata nel ciclo produttivo, altri sono destinati al consumo improduttivo di chi vive sulle spalle dei venditori di capacità lavorativa: capitalisti, banchieri, politici, militari, preti e così via. Ad ogni ciclo economico si genera un plusprodotto, cioè beni e servizi in più rispetto a quelli che sono stati immessi; una parte di questo plusprodotto viene consumato dalle classi privilegiate, una parte è destinata ad ampliare la produzione. Ma, se è destinata ad ampliare la produzione, non può essere destinata al consumo dei venditori della capacità lavorativa. Per far questo, cioè per mantenere costante la massa di plusprodotto ed elevare le condizioni dei ceti meno abbienti la crescita economica è inefficace, c’è bisogno di una redistribuzione del reddito dalle classi privilegiate a quella dei venditori di capacità lavorativa.
In realtà, il puro e semplice mantenimento della massa di plusprodotto porta, anno dopo anno, al rallentamento della crescita economica. Prendiamo il PIL dell’anno base, mettiamolo pari a 100. Di questo prodotto 10 sia il plusprodotto rispetto al prodotto dell’anno precedente. Quindi la base è 90 e 10 il plusprodotto dell’anno base. Il tasso di crescita è (10/90) 11,11%. L’anno successivo la base sarà 100, il plusprodotto costante, cioè 10, il rapporto quindi cambia tra il plusprodotto costante di 10 e la base accresciuta di 100, il tasso di crescita allora si si riduce al 10%. L’anno successivo ancora il plusprodotto costante si rapporterà ad una base di 110 e il tasso di crescita scenderà al 9,09 e così via negli anni a seguire. Se vogliamo un tasso di crescita costante o in aumento dobbiamo sottrarre in misura crescente beni e servizi dai consumi e destinarli alla produzione e, poiché nella relazione dell’OIL è accuratamente evitata ogni forma di redistribuzione del prodotto fra le varie classi sociali, non saranno i consumi delle classi privilegiate ad essere colpiti, ma quelli dei venditori della capacità lavorativa, il proletariato: Da qui la riduzione dei salari reali, che sono l’espressione monetaria del valore dei beni e servizi che entrano nel consumo da parte del proletariato.
La favola della crescita economica come risolutrice di tutti i mali della società è stata narrata in tante forme, dalla solidarietà nazionale alla politica dei due tempi. Ora è narrata da un governo fascista, che usa le ideologie del merito e della competitività per attribuire ai ceti meno abbienti la responsabilità delle loro condizioni. Condizioni che, al contrario, sono la conseguenza della cattiva organizzazione di questa società e al tempo stesso la base su cui questa società è stata edificata.
Noi non crediamo, come ci ripete l’OIL, che le questioni salariali siano fondamentali per la realizzazione della giustizia sociale. Nessuna giustizia sociale può essere realizzata in una società in cui la maggior parte della ricchezza è proprietà privata di una piccola minoranza, mentre la maggioranza della popolazione è privata della proprietà. La questione centrale per la giustizia sociale è un’altra: abolizione del monopolio della proprietà della terra e dei mezzi di produzione, riorganizzazione della produzione e della società a vantaggio dei produttori reali, di chi oggi è costretto a vendere la propria capacità lavorativa.
Certo, le lotte salariali possono essere utili, se i venditori della capacità lavorativa, cioè la classe operaia, imparano a gestire in prima persona le lotte per soddisfare i propri bisogni, per i propri diritti. Attraverso la gestione di quelle lotte, queste persone costruiscono quegli organismi che saranno utili domani, il più presto possibile, a gestire la produzione e la distribuzione nella società liberata dalla proprietà privata.
Non è questa la strada scelta dalle confederazioni sindacali che nel 2008 firmarono un accordo interconfederale in cui veniva messo a base della contrattazione salariale un indice dei prezzi al consumo, denominato IPCA, che non comprende gli aumenti di prezzo derivanti dai beni energetici importanti. Si tratta di una truffa bella e buona a cui si sono prestate CGIL CISL e UIL. L’accordo è stato fatto nel 2009, quindi non c’è solo la lunga crisi economica a provocare l’arretramento delle retribuzioni in Italia, c’è anche la deliberata collaborazione delle burocrazie sindacali.
Rompere il quadro delle competitività per avviare lotte salariali incisive, abolire il sistema del lavoro salariato attraverso l’abolizione della proprietà privata: sono questi gli obiettivi che possono avviare a soluzione il problema della giustizia sociale, non le minestrine riscaldate dell’OIL.
Avis Everhard