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Altre voci. Dal convegno antimilitarista di Milano.

Altre voci. Dal convegno antimilitarista di Milano.

Il convegno tenutosi a Milano il 19 marzo presso il Lock (Laboratorio Occupato Kasciavit) – peraltro già sede dei due precedenti assemblee antimilitariste milanesi – è stato il punto di arrivo e di partenza del percorso iniziato nello scorso autunno e conclusosi a Torino il 20 novembre 2021, con la manifestazione contro Fiera dell’Aviospazio.

Il convegno, strutturato su cinque relazioni, ha rappresentato il punto di arrivo delle analisi effettuate da tempo dai compagni sulla struttura del neocolonialismo italiano. I relatori hanno posto al centro la questione energetica, l’Africa come campo delle competizioni internazionali e, per ultimo, una valutazione sulla natura del conflitto russo ucraino. Stefano Capello ha delineato il percorso storico delle politiche energetiche italiane e, dentro tale cornice, si sono sviluppate le relazioni di Antonio Mazzeo, sulle avventure neocoloniali dell’Italia dal Sahel al Mozambico, poi di Daniele Ratti sui rapporti tra ENI ed istituzioni, in particolare con il Ministero degli Affari Esteri e l’apparato militare. Dopo aver fornito un quadro complessivo dei legami tra ENI, apparati dello Stato e le linee guida dell’imperialismo italiano, si è data informazione, tramite la relazione di Andrea Turco sulla colonizzazione mentale, del caso ENI a Gela. Ha concluso Massimo Varengo con uno sguardo antiimperialista sulla guerra in Ucraina.

Si è poi sviluppato un articolato dibattito, dove gli interventi da parte dalle varie sensibilità politiche attive nell’assemblea antimilitarista hanno contribuito ad interessanti approfondimenti, segno concreto di una attenta partecipazione e desiderio di dare il proprio apporto. L’incontro è stato, quindi, il punto di partenza per l’iniziativa di piazza del 2 aprile a Milano quale mobilitazione contro le politiche guerrafondaie dell’ENI. La scelta di Piazza Affari come il luogo di concentramento del corteo ed il passaggio durante il percorso davanti alla sede di Confindustria non è casuale ma ha un forte significato politico, congiungendo non sono idealmente ma fisicamente la finanza all’apparato produttivo quali protagonisti dei conflitti. A seguire, le sintesi di alcuni degli interventi.

Assemblea antimilitarista

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Il percorso storico delle politiche energetiche italiane di Stefano Capello

ENI, società pubblica creata nel 1953, grazie alla sua dimensione industriale (attiva in 68 paesi) ed alla valenza strategica del suo settore d’attività (energia) è diventata una protagonista assoluta soprattutto in una prospettiva geopolitica. Già il fondatore Enrico Mattei sviluppò l’azienda intrecciando rapporti geopolitici del tutti inediti con gli emergenti paesi mediorientali. ENI, dal 2009, muta il rapporto con lo Stato, passando da azienda “privilegiata” a protagonista della politica estera. Vengono stipulati accordi con il Ministero degli Esteri in base al quale ENI può distaccare propri quadri direttivi presso la Farnesina. L’azienda di fatto è il consulente privilegiato dello Stato.

Un ulteriore “scambio di ruoli” lo si ha nel giugno del 2014, all’epoca del governo Renzi. De Scalzi, Amministratore Delegato del gruppo traccia le attuali linee guida aziendali inaugurando “l’asse Africano” come il core business delle attività aziendali. De Scalzi incontra, prima di Renzi, i capi di Stato e governo di Angola, Mozambico e Congo ed il Presidente del Consiglio prende solo formalmente atto di quanto precedentemente concordato.

L’integrazione tra azienda e Stato viene sancita nei documenti ufficiali governativi, in particolare negli atti parlamentari dove l’esecutivo commenta le missioni internazionali all’estero. Nella relazione negli atti parlamentari a commento della missione Gabinia in Nuova Guinea si afferma infatti che: “la missione ha come obiettivo “proteggere gli asset estrattivi dell’ENI, operando in acque internazionali”. Nel documento che illustra le finalità della missione “Mare Sicuro” si sottolinea poi il compito di “sorveglianza e protezione delle piattaforme dell’ENI ubicate nelle acque internazionali prospicenti la costa libica”.

L’azienda, il 7 luglio 2021, sottoscrive con la Marina Militare un protocollo per il potenziamento della sicurezza energetica. Nel documento vene riportato che “la Forza Armata fornirà supporto ad ENI tramite il concorso all’attività di vigilanza nello specifico settore della subacquea e dell’idrografia, sull’impiego ottimale delle risorse della piattaforma continentale. Il 18 novembre del 2020 è stato sottoscritto, a Roma, un protocollo d’intesa tra l’arma dei carabinieri ed ENI, per formare tramite esperti ENI, il personale dell’arma nella protezione delle infrastrutture ENI presenti all’estero. In conclusione il posizionamento geopolitico nazionale e dispiegamento delle missioni militari vengono decisi non dai singoli ministeri ma a San Donato Milanese.

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Sulle avventure neocoloniali dell’Italia dal Sahel al Mozambico di Antonio Mazzeo

Una quarantina di missioni di guerra in mezzo mondo per conto del colosso energetico ENI e delle holding del complesso militare-industriale a capitale statale, Leonardo e Fincantieri: così spendiamo annualmente oltre 1,2 miliardi di euro. Alla “protezione” delle fonti di approvvigionamento energetico abbiamo consacrato il modello di “difesa” adottato dalle forze armate, consentendo contestualmente immensi profitti alle industrie di morte. Un sistema circolare che si autoalimenta: vendiamo armi ai regimi di Africa e Medio oriente in guerra permanente per il controllo di gas e petrolio; poi arriva ENI per la loro ricerca e acquisizione; infine inviamo militari, blindati e unità da guerra per “difendere” pozzi, oleodotti ed export di armi.

I documenti della Difesa e della Farnesina non fanno mistero che le scelte geostrategiche militari siano indirizzate proprio alla promozione armata del modello energetico dominante, basato sullo sfruttamento intensivo dei combustibili fossili e che – soprattutto in quello che il ministro Guerini definisce il Mare Nostrum allargato (est Europa, Golfo Persico, continente africano) – riproduce sanguinosi conflitti dai devastanti effetti socio-economici, climatici e migratori.

In un suo recente rapporto Greenpeace Italia stima che nei 2021, l’Italia ha destinato circa 797 milioni di euro per operazioni volte a tutelare la “sicurezza energetica” del Paese, pari al 64% dell’intero budget per le missioni militari. Quanto documentato prova inequivocabilmente come la partnership forze armate-ENI (e grandi compagnie di navigazione e trasporto delle fonti energetiche) consista pure in veri e propri accordi di cooperazione. oltre che nella gestione congiunta di attività addestrative. L’esempio più evidente è la missione Gabinia avviata da due anni nel Golfo di Guinea, nuova mecca delle prospezioni di ENI; all’orizzonte però c’è pure la missione UE in Mozambico, già finanziata, per il “controllo” della conflittuale regione di Cabo Delgado, al centro degli interessi delle transnazionali petrolifere.

Greenpeace però, pecca forse in difetto: lascia fuori dal conto due delle operazioni più pericolose avviate dai militari italiani in terra d’Africa, in Niger e in Mali. Eppure all’origine di questi due dispendiosi impegni c’era proprio la richiesta di aiuto ai partner europei da parte della Francia che non intende abbandonare l’Africa sub sahariana per non perdere il possesso sull’uranio, indispensabile al funzionamento di decine di centrale nucleari che alimentano il sistema produttivo-industriale e il mercato nazionale.Includendo Niger e Mali possiamo dire che non sventoli il tricolore fuori dai confini che l’ENI (con ENEL, partner chiave del complesso elettrico francese) non voglia. 

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Né lavoro né salute. La storia dell’Eni a Gela di Andrea Turco

Ricorrono quest’anno i 60 anni dall’omicidio di Enrico Mattei. A causarne la morte, secondo le ricostruzioni giudiziarie, furono due picciotti di Gela, su ordine del boss mafioso Giuseppe Di Cristina. Curioso come fu proprio la cittadina in provincia di Caltanissetta a dare il benservito all’italiano più influente del Dopoguerra, per citare un rapporto dell’intelligence USA. Alla fine degli anni ’50 a Gela si scopre un enorme giacimento di petrolio, seppur di bassa qualità: si decide allora di costruire uno stabilimento petrolchimico, che renda conveniente l’estrazione in loco, grande 700 ettari ed a ciò vanno aggiunte un centinaio di trivelle sparse lungo la pianura e quattro piattaforme petrolifere distribuite in 20 chilometri di costa. Con l’ausilio del mondo culturale – Sciascia e De Seta su tutti – viene allestita un’opera di propaganda che sostiene che l’industrializzazione del Mezzogiorno porterà il progresso.

Di quel sogno fossile ad oggi rimangono le scorie. Beh, si dirà, almeno il lavoro lo avrà portato, no? Mica tanto. La reale esplosione occupazionale si ha per la costruzione del petrolchimico, con l’impiego di circa diecimila persone. Da allora in poi è una lenta e costante agonia, con la chiusura di singoli impianti da una parte e dall’altra il fallimento di singole aziende dell’indotto – con i lavoratori che non sempre vengono riassorbiti. Nel 2014 la raffineria viene chiusa ma si parla di riconversione. Dopo otto anni l’unico impianto realizzato è una bioraffineria alimentata ad olio di palma proveniente dall’Indonesia, mentre è in dirittura d’arrivo un gasdotto sottomarino che consentirà sì di aumentare l’estrazione nazionale di metano ma senza alcun beneficio diretto per la popolazione.

Intanto viene fuori la questione ambientale: si scopre che la realizzazione di uno stabilimento così impattante ad appena tre chilometri dalla città è altamente nociva. Tra paure e silenzi, vengono fuori migliaia di ricoveri ospedalieri e Gela raggiunge il primato internazionale delle malformazioni neonatali. Nel 1998 l’area viene dichiarata SIN, un Sito di Interesse Nazionale in cui è lo stesso Stato a riconoscere l’inquinamento, avvenuto attraverso le emissioni in aria, le contaminazioni a terra e le dispersioni a mare. Oggi, a 24 anni di distanza da quella scelta, le bonifiche completate sono pari a zero.

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