Algoritmi di potere, algoritmi di liberazione

Sintesi della prima parte. Le dinamiche di potere informatizzate sono presenti negli indirizzi d’uso e nella proprietà esclusiva di determinati algoritmi. Alcune sono divenute di pubblico dominio, la grande maggioranza è sconosciuta. Sono algoritmi che indirizzano la nostra vita sociale, l’accesso alle informazioni, il tipo di persone e di idee con cui veniamo in contatto, influenzando personalità e scelte. Questi algoritmi lavorano sia per i governi, sia per le grandi aziende, sia per i partiti e movimenti politici: come comportarsi tenendo presente che l’avversario è anch’esso presente in questi stessi spazi, ha queste modalità di intervento e si rivolge ai nostri stessi interlocutori?

Il famoso scrittore di fantascienza e divulgatore scientifico Isaac Asimov citava spesso scherzosamente il “Teorema B.T.A.” – “Bei Tempi Andati” – insomma l’idea che, di fronte ai mutamenti politici, sociali, culturali, tecnologici, ecc. la nostra mente tende ad idealizzare il passato, vissuto come un tempo in cui i danni del presente non esistevano, una sorta di idealizzazione bucolica dei tempi che furono che, però, spesso non ha molto fondamento.

Cominciamo allora ad adottare questa prospettiva asimoviana verso la questione degli algoritmi di controllo: davvero nel passato preinformatico i poteri politici, economici, culturali non mettevano in atto strategie per indirizzare la vita sociale, nascondere e/o mistificare informazioni, costruire tipologie di persone e di idee in cui rinchiudere gli individui, influenzare la formazione del carattere di quest’ultimi e le loro scelte in ogni campo? Evidentemente sì e chi viveva quei tempi in un’ottica antagonista allo stato di cose presente li denunciava a gran voce, talvolta con gli stessi toni apocalittici che si sentono oggi nei confronti delle tecnologie di controllo informatiche, vissuti da alcuni addirittura come una sorta di vittoria definitiva dello status quo e conseguente chiusura di ogni possibilità di formazione di una società diversa: i movimenti di opposizione sarebbero scomparsi o perfettamente integrati nel sistema.[1]

Invece siamo ancora qua e, negli anni in questione, si sono verificati enormi movimenti di massa, i quali hanno portato magari non alla rivoluzione sociale ma sicuramente a conquiste di rilievo. Cose che oggi vengono rimesse in discussione ma ci sono state ed in parte resistono ancora – d’altronde la percezione attuale dei “Bei Tempi Andati” è fondata proprio su questi fatti.

I toni apocalittici in questione sono stati perciò smentiti e, tra l’altro, venendo al presente, nel pieno dello sviluppo degli algoritmi di controllo dei social e non solo che ha pervaso, come l’esperienza delle “primavere arabe” ha dimostrato, l’intero pianeta, ci troviamo di fronte persino ad un’esperienza concreta di rivoluzione sociale di stampo socialista e libertario. Un’esperienza che dura, come fa notare giustamente David Graeber, da molti più anni della “Breve Estate dell’Anarchia”.

Torniamo allora al presente. La rete esiste da tempo, la vita sociale dell’intero pianeta si svolge in larga parte su di essa e noi stessi, intesi come movimenti di opposizione, ci siamo dentro: nella gran parte dei casi allo scoperto nei luoghi dove sussistono un minimo di libertà civili, quasi esclusivamente nel deep/dark web nei regimi autoritari. Dopo di che i luoghi di incontro tradizionali – ambienti di studio e di lavoro, locali al chiuso, strade e piazze – continuano a sussistere e non vanno sottovalutati. Questo è il contesto in cui ci dobbiamo muovere e portare i nostri contenuti.

Abbiamo visto, nella prima parte di quest’articolo, come siano proprio gli algoritmi dei grandi social a favorire sfacciatamente quelle “echo chambers” (la chiusura nel gruppo di simili), fake news ed istupidimento similtelevisivo che, a parole, dichiarano di combattere. Una strategia di azione comunicativa dei movimenti di opposizione, pertanto, deve incentrarsi proprio su questi punti, non trascurando le vie di fuga dalle strategie di censura brutale – “old style” – della rete.

Iniziamo con la questione delle “echo chambers”, usando la metafora del classico volantino. Così come quando volantiniamo in un corteo è secondario volantinare nel proprio spezzone, ma si cerca di allargare la distribuzione agli altri settori e, cosa ancora più importante, alle persone ai lati del corteo che non vi partecipano e che sono entrate casualmente in contatto con esso, dobbiamo attuare una strategia simile nella nostra partecipazione ai social. In altri termini operando nelle nostre reti sociali più dirette ma allargandoci anche a quelle più ampie: vicini di casa, gruppi genitoriali, appassionati di qualcosa, ecc.

Per quanto sia frustrante parlare con chi è molto lontano da noi, la cosa è molto importante. Non solo: dobbiamo abituarci – un po’ sempre, ma soprattutto in questi casi – ad una comunicazione non respingente, anche se ci capita di parlare con chi esprime posizioni francamente classiste, razziste, sessiste, ecc. Anche se ci sembra inutile il dialogo con quella e/o quel gruppo di persone, dobbiamo sempre ricordare che ci sono molti altri che ci leggono, spesso senza intervenire.

Le fake news, poi, sono un altro punto di lotta, dove dobbiamo tener fermi tre punti in un equilibrio difficile. Il primo è che il potere mente costituzionalmente e dice la verità solo quando gli conviene. Il secondo è che effettivamente ci sono notizie autentiche che i mezzi di comunicazione di massa nascondono. Il terzo è che il proliferare di bufale serve proprio ad annegare la comunicazione di un fatto autentico nel discredito generale ed a creare l’idea che il potere sia l’autentica fonte della verità. È una battaglia importante: pensiamo se la strategia di controinformazione sulla “Strage di Stato” si fosse svolta all’interno del quadro delle fake news a go go quante possibilità di riuscita avrebbe avuto… In qualche modo dobbiamo essere allo stesso tempo debunkers e controinformatori.

Dobbiamo poi tenere conto che gli attuali diritti di comunicazione in rete possono essere tolti: di conseguenza dobbiamo tenerci pronti a forme di comunicazione sotterranee. Infine, c’è vita fuori dalla rete. Il contatto diretto con le persone è spesso fondamentale per rompere le “echo chambers” e dobbiamo, anche qui, riuscire a costruire una comunicazione che, allo stesso tempo, mantenga la posizione e non sia respingente.

Enrico Voccia

NOTE

[1] Mi rendo conto di procurarmi molte antipatie, ma vale a mio avviso qui la pena di ricordare i protagonisti principali delle teorizzazioni apocalittiche che hanno fatto scuola – purtroppo, per i motivi che dirò a breve – nei movimenti di opposizione: Adorno, Horkheimer, Foucault, Lacan. In merito, a fine XVIII secolo, Immanuel Kant effettuava una difesa dell’Utopia molto interessante, in cui faceva notare che le critiche alla possibilità concreta di realizzazione di una società diversa da quella presente nascondono, dietro la maschera di un’analisi scientifica, la realtà di una prassi politica volta ad evitare il cambiamento in questione, demoralizzando le figure sociali che sarebbero ad esso interessate. La sinistra hegeliana del secolo successivo, poi, ci ha insegnato come questi meccanismi ideologici di controllo possano funzionare anche quando i portatori di queste idee-maschera sono in perfetta buona fede – anzi che funzionano ancora meglio.

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