Aaron Swartz

La scorsa settimana in molti hanno ricordato il suicidio di Aaron Swartz avvenuto l’11 gennaio 2013, due giorni dopo che era stata respinta una istanza presentata dai suoi legali per evitargli una condanna che poteva arrivare fino a 35 anni di carcere ed un milione di dollari di multa.

La sua biografia sembra proprio quella del piccolo genio informatico che a 13 anni vince un premio di mille dollari per un progetto di una biblioteca collaborativa on-line, frequenta atenei prestigiosi come Harward e la Stanford University, è coinvolto nella creazione di strumenti di programmazione usati ancora oggi e nello sviluppo di start-up commerciali. A leggerla sembra essere la classica storia di una persona destinata a mettere in piedi un progetto che lo renderà ricco e famoso prima dei trenta anni. La vita di Swartz ha però un finale diverso, probabilmente anche a causa della sua sensibilità ai problemi sociali, una caratteristica che non sempre si associa alle menti brillanti.

Nel 2007, chiamato a tenere una conferenza presso il NIT di Calcutta, aveva intitolato il suo intervento “Come fare a trovare un lavoro come il mio” e così rispondeva alla sua stessa domanda: “Allora, in che modo sono arrivato a una occupazione simile? Indubbiamente, il primo passo è dotarsi dei geni giusti: sono nato bianco, di sesso maschile, statunitense. La mia famiglia era benestante e mio padre era già coinvolto nell’industria informatica. Sfortunatamente, non conosco nessun modo per poter scegliere queste cose, quindi non è di grande aiuto.”[1]

La coscienza di essere un privilegiato invece che spingerlo verso lo sfruttamento egoistico del suo status lo ha portato, fin dall’inizio, ad indirizzare il suo agire verso la condivisione della conoscenza, un’attitudine che ha segnato anche l’episodio all’origine della sua drammatica fine. A partire dal 2008 si è sempre impegnato in qualche iniziativa a favore della libertà di informazione e della condivisione della conoscenza. Impegno non solo teorico ma concreto, partecipando direttamente o con altri alla creazione di numerosi progetti legati all’attivismo digitale.

Dai documenti relativi al suo processo risulta che Aaron Swartz aveva collocato un computer all’interno di un ripostiglio del “Massachusetts Institute of Technology” (MIT) e lo aveva connesso alla rete dell’Istituto. Aveva programmato quel computer in modo che scaricasse automaticamente dalla Biblioteca digitale JSTOR[2] i file di articoli scientifici disponibili solo agli utenti interni. I proprietari della Biblioteca dichiararono che, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, vennero scaricati circa 3 milioni e mezzo di file prima che Aaron venisse arrestato ed il computer spento.

Una delle ragioni dell’accanimento giudiziario contro l’autore di questo “reato” è dovuto sicuramente alle leggi che proteggono l’enorme giro di affari che sta dietro, ieri come oggi, al mercato delle pubblicazioni scientifiche in formato elettronico. Una fonte di profitto quasi invisibile ai non addetti ai lavori.

Nel 2021, una qualsiasi istituzione (Università, Biblioteca, Laboratorio) che voglia dare la possibilità di accesso ai propri utenti a libri o riviste scientifiche in formato elettronico deve firmare contratti per abbonamenti che costano anche centinaia di migliaia di euro all’anno. Gli editori che pubblicano in formato digitale sono più di uno e quindi le cifre che vengono spese in questo settore arrivano anche a milioni di euro all’anno e non tutte le istituzioni, soprattutto quelle dei paesi più poveri, possono permettersi di sostenerle.

Aaron Swartz sapeva bene che “l’informazione è potere”[3] e nella sua breve e intensa vita si è sempre adoperato per contrastare la “privatizzazione” del sapere che, in campo scientifico, significa anche costringere nell’ignoranza chi, impegnato nella ricerca della conoscenza, non ha le risorse economiche per accedere ai risultati delle ricerche internazionali. Non a caso Swartz ha collaborato alla creazione delle specifiche dell’RSS[4] ed alla creazione delle “Creative Commons Licenses”,[5] due risorse importanti per coloro che lottano per la condivisione della conoscenza senza fini di lucro.

Anche grazie al suo impegno e alla sua lotta, insieme a quella di altri e altre meno noti, oggi anche le più tradizionali istituzioni hanno iniziato a occuparsi – in modo più o meno serio – di “accesso aperto” e questa tendenza si è talmente estesa che i padroni del “copyright” hanno persino inventato dei meschini sotterfugi per continuare a mantenere le loro posizioni di potere economico. Per fare un esempio negli ultimi anni i grossi editori di pubblicazioni elettroniche hanno iniziato a proporre ai loro clienti i cosiddetti “contratti trasformativi” che avrebbero lo scopo di permettere la transizione del sistema di comunicazione scientifica da “chiuso” ad “aperto” (sic).

Questo genere di contratti però si applicano solo ad alcune categorie di riviste. Questo ha provocato (non ne dubitavamo) un aumento dei guadagni per gli editori: se una Università è abbonata a una rivista che prevede l’accesso libero ad alcuni degli articoli disponibili dovrà pagare, oltre che il costo dell’abbonamento, anche una cifra (non simbolica) per ognuno degli articoli che deciderà di rendere disponibili a tutti. In altre parole pagherà due volte per lo stesso articolo. Molte, se non forse tutte sicuramente la maggior parte delle Biblioteche delle Università italiane sono cascate in questa trappola.

L’ALA (American Library Association), quattro mesi dopo la morte, assegnò a Swartz il premio “James Madison” un inutile riconoscimento alla memoria di un giovane che aveva avuto il coraggio di praticare quello che altri, ma solo a parole, ritengono un diritto di tutti.

Aaron Swartz ha lasciato una eredità, che pesa come un macigno soprattutto su coloro che oggi si riempiono la bocca blaterando di “accesso libero” alla conoscenza, sperando di continuare a mantenere le proprie quote di fatturato. A noi ha lasciato il compito di continuare la sua lotta.

Pepsy

RIFERIMENTI

[1] Il link http://aaronsw.jottit.com/howtoget dove era archiviato il discorso citato al momento (11 gennaio 2021) sembra off-line, una copia la si può comunque trovare cercandolo sull’Internet archive.

[2] “JSTOR è una biblioteca digitale fondata nel 1995 a New York. In origine conteneva copie digitalizzate di vecchie annate di riviste accademiche. Oggi contiene anche libri e pubblicazioni correnti. A questo archivio accedono migliaia di istituzioni da più di 160 paesi, nella maggior parte dei casi pagando un abbonamento, esiste anche una parte dell’archivio ad accesso libero. Nel 2015 le entrate della biblioteca sono state di 86 milioni di dollari” (vedi https://en.wikipedia.org/wiki/JSTOR).

[3] La frase è all’inizio del suo “Guerrilla Open Access Manifesto” leggibile qui https://aubreymcfato.com/2013/01/14/guerrilla-open-access-manifesto-aaron-swartz/.

[4] RSS (sigla di RDF Site Summary) è uno dei più popolari formati per la distribuzione di contenuti Web (vedi https://it.wikipedia.org/wiki/RSS).

[5] Le “Licenze Creative Commons” sono delle licenze riguardanti il “diritto d’autore” indirizzate in senso contrario all’esclusiva monetarizzazione (vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Licenze_Creative_Commons).

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