Due anni fa iniziava in Turchia il movimento antigovernativo passato ormai alla storia come “rivolta di Gezi Park”, dal nome del parco nel centro della città di Istanbul che fu l’epicentro della protesta. Il 31 maggio del 2013, all’alba, le poche decine di manifestanti che avevano occupato il parco da due giorni per protestare contro un progetto di costruzione che avrebbe distrutto l’intera area verde, vengono sgomberati con la violenza dalla polizia che, accompagnata dalle ruspe, fa largo uso di lacrimogeni e idranti. Questa brutale aggressione poliziesca scatenerà una reazione di massa, una vera e propria rivolta, con manifestazioni in tutta la Turchia per oltre due settimane, dando uno sbocco sia alla rabbia contro la brutalità e l’arroganza della polizia, sia al malcontento contro le politiche del governo conservatore-religioso dell’AKP.
La rivolta del 2013 ha costituito un punto di svolta per la storia della Turchia.
Una nuova generazione di giovani ha trovato nel movimento di protesta spazi di partecipazione e di azione diretta, questo è accaduto sia nei grandi centri come Istanbul, Ankara e Izmir, sia nelle città della provincia. Il movimento ha portato nel dibattito pubblico temi forti come l’ecologia, la democrazia radicale, la questione lgbt; temi maturati negli anni precedenti in Turchia grazie soprattutto al contributo del movimento anarchico e che sono stati cardini del movimento di Gezi Park.
Il movimento inoltre ha creato nuovi equilibri tra le diverse forze di opposizione al governo, ridisegnando di fatto il complesso delle relazioni tra partiti, gruppi e movimenti, creando nuovi obiettivi comuni attorno ai quali aggregare le forze e creando nuove discriminanti politiche. In effetti il movimento nato a Gezi ha visto la partecipazione di componenti assai diverse tra loro: organizzazioni sindacali, ordini professionali, associazioni della società civile, gruppi e partiti della sinistra rivoluzionaria e radicale, gruppi anarchici e organizzazioni studentesche, partiti parlamentari di matrici anche molto diverse, come ad esempio i nazionalisti turchi kemalisti del CHP ed il partito HDP che sostiene i diritti dei curdi.
Negli articoli scritti nei giorni della rivolta e nelle analisi immediatamente successive alle settimane segnate dalle proteste più dure, molti indicavano due grossi limiti del movimento di Gezi, l’assenza della classe operaia e l’assenza dei curdi dalle proteste, bollandolo quasi come un semplice movimento giovanile di contestazione.
Questa lettura era in gran parte superficiale.
Se da una parte è vero che molti dei giovani che occupavano i parchi nel centro di Istanbul e Ankara fossero appartenenti alla classe media o studenti, non può essere negata la complessità della composizione sociale del movimento. La protesta infatti era radicata anche nei principali quartieri proletari di Istanbul, da cui partivano imponenti cortei per raggiungere il centro, che la polizia cercava di bloccare con ogni mezzo. È vero che i lavoratori non hanno partecipato come classe organizzata a questo movimento, anche perché possono farlo solo attraverso lo sciopero. Lo sciopero è ammesso in Turchia solo per motivi vertenziali, non è legalmente possibile lo sciopero generale, tantomeno di carattere politico. L’unico sciopero di supporto alle proteste si è avuto nel settore pubblico, in cui è ammesso lo sciopero “di solidarietà”. Certo è un limite il fatto che le organizzazioni sindacali abbiano scelto di restare nei paletti imposti dalla legge, ma va considerato che in un contesto simile uno sciopero illegale avrebbe assunto probabilente carattere insurrezionale.
Riguardo a quanto è stato scritto sull’assenza dei curdi dalle proteste si può dire che questo è vero solo in parte. Se da un lato è vero che nelle città del Kurdistan in territorio statale turco le manifestazioni sono state poche e con partecipazione scarsa, vanno al contempo ricordati i grandi numeri della diaspora curda interna alla Turchia e la partecipazione attiva del HDP alle proteste. La rivolta di massa ha visto infatti il parziale coinvolgimento dei milioni curdi che vivono nelle regioni non tradizionalmente curde della Turchia, e che in particolare ad Istanbul, Ankara, Izmir, abitano nei quartieri proletari delle metropoli e sono tra i lavoratori che subiscono maggiori condizioni di sfruttamento. Se gran parte del movimento curdo organizzato ha in effetti mantenuto inizialmente una posizione di tiepido appoggio alle proteste, probabilmente a causa della trattativa per il processo di pace, all’epoca ancora aperta tra i servizi turchi del MIT e d il leader incarcerato del PKK Abdullah Ocalan, è stato invece chiaro l’appoggio del partito HDP, nato nel 2012 per riunire forze politiche e sociali radicali sia turche che curde in appoggio al popolo curdo, che ha partecipato attivamente alle diverse fasi della protesta, soprattutto ad Istanbul.
Certo il movimento del 2013 presentava grossi limiti, ma non era solo espressione di una rivolta generazionale, si trattava invece del primo cortocircuito delle contraddizioni generate dal regime politico ed economico instaurato dall’AKP di Recep Tayyip Erdoğan.
In questi due anni infatti le premesse date dalla rivolta del 2013 si sono sviluppate, superando in parte i limiti iniziali, attraverso passaggi che proviamo a ricostruire:
Il fallimento del tentativo governativo di pacificare il Primo Maggio; le forti proteste dopo strage di Soma nel maggio 2014 in cui morirono oltre 300 minatori; il riaccendersi della conflittualità operaia tra la fine del 2014 e i primi mesi del 2015, che ha raggiunto il culmine con gli scioperi dei metalmeccanici di Bursa lo scorso maggio, caratterizzata da agitazioni e scioperi per aumenti salariali, spesso entrando in aperto contrasto con Turk-İş o comunque con le organizzazioni sindacali più vicine agli interessi padronali
Le dure proteste contro l’installazione di nuove postazioni militari nelle regioni curde, in cui sono stati uccisi alcuni giovanidai proiettili della Jandarma (polizia militare); il fallimento del processo di pace tra lo Stato turco ed il PKK; lo sviluppo di un processo rivoluzionario nella Rojava, il Kurdistan in territorio statale siriano, che può estendersi al di là dei confini imposti dagli stati, coinvolgendo anche regioni dello stato turco; l’ampio movimento di solidarietà con la resistenza curda assediata a Kobanê; l’insurrezione dei primi di ottobre del 2014 contro l’appoggio del governo turco alle truppe dello Stato Islamico in Rojava.
Il secondo anniversario di Gezi Park inoltre assume un forte significato in un contesto di dura tensione politica causata dall’inasprirsi della violenza repressiva della polizia e, con l’approssimarsi delle elezioni legislative del 7 giugno, da un considerevole aumento degli attacchi da parte di membri del partito di governo AKP, di sicari o gruppi fascisti contro sedi e attivisti del HDP.
La rivolta non è finita, per questo lo scorso 31 maggio il governo è tornato ancora una volta a sospendere i trasporti pubblici ad Istanbul e a chiudere tutta l’area vicina a Gezi Park con uno schieramento imponente di agenti e mezzi della polizia per impedire che le manifestazioni si avvicinassero al parco.
La rivolta del 2013 ha quindi aperto una fase che, ben lontana dall’essersi conclusa, forse giunge a maturazione proprio in questi mesi.
Dario Antonelli