Capitalismo, migrazioni, movimento operaio

Sul primo numero di quest’anno è stato pubblicato su queste pagine “FUSARO, RIZZO E L’IMMIGRAZIONE. Storia di un Inganno Ideologico”. Poiché la cosa ha suscitato un certo interesse, dentro e fuori dalla rete, ho deciso di approfondire un punto che ritengo cruciale e che, nell’articolo succitato, avevo affrontato solo nelle grandi linee: il rapporto tra capitalismo, migrazione e movimento operaio, con un accenno alle strategie di quest’ultimo – completamente diverse da quelle suggerite da Fusaro, Rizzo e Sovranisti vari, risultate poi vincenti paradossalmente proprio nell’ottica della costruzione di quella “unità etica” del mondo del lavoro auspicata, almeno in apparenza, da Fusaro.

Il capitalismo industriale, in altri termini il controllo da parte di chi controlla enormi ricchezze delle fabbriche e delle aziende macchinizzate, inizia con la stessa Rivoluzione Industriale. Gli storici si sono interrogati a lungo – il cosiddetto problema della “precondizioni” – sul perché questa rivoluzione fosse nata in quel determinato luogo ed in quel momento della storia: la risposta che in maniera abbastanza unanime si sono dati è che per la nascita della industrializzazione occorrevano necessariamente innanzitutto una serie di condizioni precedenti e che poi queste precondizioni dovessero coesistere tutte insieme nello stesso tempo e luogo. Cosa che accadde, appunto, in Belgio e soprattutto in Inghilterra grosso modo alla metà del XVIII secolo, mentre in altri tempi e/o luoghi ciò non era mai accaduto.

Le precondizioni della Rivoluzione Industriale che la gran parte degli storici individuano come tali sono più o meno le seguenti:[1]

  • la presenza di un (relativamente per l’epoca) notevole mercato interno: all’interno della Gran Bretagna l’Inghilterra, in un periodo in cui la dimensione della rete stradale europea – per non dire la sua qualità – era notevolmente lontana da quella contemporanea ed era nettamente inferiore a quella dell’antico Impero Romano,[2] era invece percorsa da una fitta rete di canali che permettevano da sempre, appunto, un più facile scambio delle merci a livello locale;

  • la presenza di un (sempre relativamente rispetto all’epoca) notevole mercato estero: da alcuni secoli l’Inghilterra e poi dal 1707 la Gran Bretagna possedeva sia una flotta navale tra le più grandi d’Europa, sia una rete di compagnie commerciali dai metodi a dir poco non precisamente ortodossi, che insieme avevano creato una rete di commerci internazionali molto lucrosi;

  • legato al punto precedente ed alle politiche di penetrazione militare operate inizialmente dalle compagnie “commerciali” è il possesso, da parte della Gran Bretagna, di un gran numero di colonie e protettorati: un notevole “mercato protetto”, aperto alle sue merci e, di fatto o di diritto, chiuso alle esportazioni delle altre nazioni dove anche le materie prime erano vendute a prezzi di favore allo stato britannico;

  • la conseguente presenza di una quantità notevole di capitalisti, in altre parole persone con a disposizione diretta o indiretta dei capitali sufficienti a mettere in piedi le future attività industriali;

  • la presenza di una fortissima tradizione scientifica ed ingegneristica: mentre nella penisola italiana, dove la rivoluzione scientifica aveva avuto inizio, questa era stata repressa con ferocia (Galilei all’ergastolo, Bruno bruciato vivo…), in Inghilterra Newton aveva avuto l’opportunità di fondare la Società Reale delle Scienze;

  • la presenza di un numero superiore alla media europea di proletari costretti a vendere a basso costo la propria forza lavoro, poiché era iniziato da un paio di secoli un processo di espropriazione e privatizzazione delle terre comuni che, di fatto, fornivano alle parti povere della popolazione contadina un minimo di accesso a fonti di sopravvivenza.

Analizziamo meglio quest’ultimo punto, in quanto, come vedremo, è quello maggiormente legato alle odierne questioni dei fenomeni migratori.

Il termine “proletario” deriva dall’antica forma legislativa della repubblica romana del pater familias, il quale possedeva letteralmente, in senso giuridico, i propri figli. Povero per eccellenza, allora, era chi pur se uomo libero non possedeva nient’altro che i propri figli. Scomparsa la forma giuridica originaria, il termine è passato ad indicare il nullatenente, colui, insomma, che non possiede alcuno strumento di produzione e deve lavorare per altri che li posseggono.

Nel passato precapitalistico, la stragrande maggioranza delle persone viveva nelle zone agricole, dove vigeva assai spesso, come si diceva, l’istituto delle “terre comuni”: le terre circostanti il villaggio – per la maggior parte luoghi incoltivabili come boschi, radure, paludi, ecc. – erano proprietà comune degli abitanti del luogo. Tali terre, perciò, erano il rifugio di coloro che, in mancanza del possesso di una terra coltivabile e/o edificabile, potevano utilizzarle per costruirsi una casa, fare legna, raccogliere e cacciare, insomma per sopravvivere: una sorta di meccanismo di assicurazione sociale verso i poveri che, pertanto, in quanto comproprietari delle terre su cui vivevano, erano sì tali ma non “proletari”, “nullatenenti” in senso stretto.

A partire dal XVI secolo, però, lo Stato inglese avviò appunto un processo di espropriazione e privatizzazione di tali terre (che venne detto enclousures – recinzioni), vendendole a ricchi privati che espulsero da esse la gran parte dei poveri che le abitavano. Questi, divenuti definitivamente “proletari”, si trasferirono in massa, man mano che il processo andava avanti, nelle città in cerca di un qualunque lavoro o espediente per sopravvivere.

Alcuni di loro però, nelle primissime fasi della Rivoluzione Industriale restarono nelle campagne. Infatti le prime industrie sorsero circa cinquant’anni prima dell’introduzione in esse della macchina a vapore ed utilizzarono come motore per le industrie la forza motrice dell’acqua trasformata in movimento dagli antichi mulini – di conseguenza, erano localizzate lungo i corsi d’acqua e sfruttarono la forza lavoro dei contadini proletarizzati o quello del del lavoro forzato. Vi fu infatti inizialmente anche l’utilizzo – specie nelle colonie nordamericane, poi Stati Uniti d’America – degli schiavi: una pratica che però fu abbandonata, non per particolare bontà degli imprenditori, ma perché, nelle crisi ricorrenti del capitalismo, gli schiavi restavano a carico degli imprenditori che non riuscivano a rivenderli,mentre della forza lavoro “libera” ci si sbarazzava facilmente.

L’introduzione della macchina a vapore nelle fabbriche – nelle miniere era già avvenuto molto prima, ma in forma dedicata e non esportabile in altri comparti produttivi – avvenne ufficialmente nel 1788, ma la sua vera diffusione data gli inizi del secolo successivo per cui le fabbriche, non avendo più bisogno dei corsi d’acqua, si spostarono nelle più comode e logisticamente efficienti zone periferiche delle città. Pressoché in contemporanea, il fenomeno dell’espropriazione e privatizzazione delle terre comuni, pur presente ed operante da tempo, vide una vera e propria esplosione e vecchi e nuovi proletari delle campagne furono costretti a spostarsi in massa nelle città, incontrando qui gli antichi proletari residenti da tempo, in gran parte ex artigiani proletarizzati dall’introduzione della lavorazione industriale nei loro settori produttivi.

Sia che si sia trattato di una coincidenza, sia che si sia trattato di una mossa politica intenzionale, sta di fatto che si venne così a creare un “esercito industriale di riserva” di notevoli proporzioni e, allo stesso tempo, altrettanto notevoli problemi sia di comunicazione, sia di diffidenza reciproca tra i proletari. All’epoca, anche all’interno degli stati nazionali di lunga data, la maggior parte delle persone delle classi basse parlava esclusivamente il proprio dialetto in larga parte incomprensibile agli altri ed erano fortemente presenti, come retaggio culturale, sia forme di disprezzo campanilistico verso i paesi di campagna diversi dal suo sia forme di disprezzo culturale del cittadino verso il campagnolo e viceversa. Il risultato iniziale fu l’abbattimento del costo del lavoro e, nonostante le condizioni di vita generalmente pessime per tutti, la difficoltà di creare forme di organizzazione e resistenza comuni e pertanto efficaci. Sia detto per inciso, le forme di disprezzo di cui sopra sfociavano spesso in forme di vero e proprio razzismo e venivano utilizzate dal potere economico, politico e culturale allo scopo della tradizionale tattica del “dividi e comanda”.

Insomma, allargando le dimensioni geografiche a livello mondiale, una situazione estremamente simile a quella presente: persino l’aspetto di disprezzo intra-nazionale è ancora ben presente – si pensi per il caso italiano alle iniziali fortune elettorali della Lega, basate sul disprezzo di taluni abitanti del nord verso gli abitanti del sud, disprezzo al momento messo solo temporaneamente in sordina e trasformato in una sorta di fronte tattico comune contro gli immigrati.

Sempre parlando dell’allargamento delle dimensioni geografiche del fenomeno, a partire dal 1830 circa, con la II fase della Rivoluzione Industriale, da un lato con l’introduzione della lavorazione a macchina in sempre nuovi comparti produttivi e la conseguente crescente disoccupazione degli ex artigiani che non trovavano lavoro nelle mutate condizioni, dall’altro con la maggiore velocità e facilità dei trasporti sia continentali sia intercontinentali incarnati dal treno e dal piroscafo, iniziò un fenomeno migratorio che, già solo in termini di dimensioni numeriche pure, non ha nulla da invidiare alla situazione presente e, se si fanno i conti tenendo conto della proporzione con gli allora abitanti del pianeta, risulta ancora maggiore.[3]

Il fenomeno dell’abbattimento del valore del lavoro e delle condizioni di vita, delle difficoltà organizzative per la resistenza del movimento operaio dovute al disprezzo reciproco e l’utilizzo del razzismo come arma di divisione e controllo politico della popolazione, nato come abbiamo visto all’interno della Gran Bretagna nelle prime fasi della Rivoluzione Industriale, si allargò allora a livello planetario. Questa volta non c’è neanche bisogno di allargare le dimensioni spaziali per trovare strette analogie con il presente – al massimo sono parzialmente cambiati i ruoli di determinate nazioni. Parzialmente, dicevamo: il fenomeno migratorio coinvolge ora anche le popolazioni delle nazioni a loro volta oggetto di migrazioni: anche qui l’esempio, non certo isolato, può essere proprio l’Italia che, a fronte di poco più di cinque milioni di immigrati,[4] vede poco meno di cinque milioni di propri cittadini emigrati all’estero.[5]

Nell’articolo già pubblicato dicevo: “Partiamo dall’ultimo punto – la dissoluzione di una “unità etica (Hegel) cosciente, con lingua, identità e storia condivisa” che esisterebbe nelle classi lavoratrici dell’Occidente, dissoluzione dovuta alle ondate migratorie. Fusaro dimentica che questa “unità etica” si è formata proprio dall’incontro, durante le prime fasi della Rivoluzione Industriale, quando nelle fabbriche si incontravano ex contadini espropriati delle terre comuni ed ex artigiani il cui lavoro era divenuto non competitivo rispetto a quello a macchina: si trattava di culture profondamente diverse, spesso non parlanti nemmeno la stessa lingua o dialetto, che solo alla fine di un processo di lavoro politico, sociale, culturale e sindacale formarono una “unità etica” basata fondamentalmente sulle idee forza del movimento operaio e socialista, detto per inciso internazionaliste e non sovraniste. Questo processo non sarebbe mai avvenuto se, invece di un processo di accoglienza e di costruzione di un percorso comune, o sarebbe stato molto rallentato, si fosse invocato la chiusura delle porte delle città!”[6]

In effetti, avrei dovuto dire “se l’invocazione della chiusure delle porte della città o, in epoche successive, dei porti fosse risultata vincente” in quanto, in ogni tempo, persino all’interno di chi si riteneva parte del movimento operaio e socialista, misure del genere sono state invocate e spesso anche praticate: Fusaro, Rizzo & C. non sono una novità ed anche in altri tempi si è visto l’afflato mistico di tali posizioni con le politiche governative – si pensi solo al contesto storico e sociale in cui si situa il caso Sacco e Vanzetti. Il problema è che finché queste posizioni non sono state di fatto sconfitte da un processo di lavoro politico, sociale, culturale e sindacale volto non ad un pietoso aiuto ai lavoratori immigrati ma alla costruzione di un’alleanza con essi contro il potere economico e politico che opprimeva – ed opprime – tutti, sia i nuovi sia i vecchi proletari residenti in un determinato territorio sono stati maciullati senza distinzioni dalle dinamiche del capitale.

Come dicevamo nell’articolo precedente, logica vorrebbe che si applicasse la stessa strategia: quella che storicamente è riuscita ad invertire effettivamente quel processo di abbassamento dei salari e di peggioramento delle condizioni di lavoro che viviamo quotidianamente,mentre la situazione di precarietà estrema cui le politiche di “respingimento” ridurrebbero la forza lavoro non autoctona abbatterebbe i salari e peggiorerebbe le condizioni di lavoro di tutti ancora più di oggi.

Per concludere: lo sviluppo del modo di produzione capitalistico ha costretto più di una volta il movimento dei lavoratori, per usare una metafora biblica, a faticose traversate nel deserto. Chi ha compiuto prima di noi queste traversate, però, ci ha lasciato delle mappe. Personaggi come Fusaro, Rizzo & C. le ignorano completamente e ci propongono di avviarci verso i miraggi del potere.

Enrico Voccia

NOTE

[1] Ve ne sono ovviamente altre – si pensi alla celebre tesi weberiana dell’etica protestante come matrice dello spirito del capitalismo – ma, a differenza di quelle che elenco, oggettivamente presenti ed indiscutibilmente legate all’industrializzazione, non sono recepite unanimemente come tali dal dibattito storiografico. Vedi ad esempio http://www.actaphilosophica.it/sites/default/files/pdf/burgos-19962.pdf .

[2] La parità a livello di chilometraggio – le antiche strade romane si sviluppavano per oltre 400.000 chilometri – si avrà soltanto agli inizi del XX secolo. https://it.wikipedia.org/wiki/Strade_romane

[3] Un solo dato: secondo le stime più prudenti – personalmente le ritengo eccessivamente prudenti – che tengono conto solo dei dati ufficiali, tra il 1861 ed il 1913 sono emigrati una decina di milioni di italiani su di una popolazione che è variata in quegli anni da una ventina a poco più di trenta milioni di abitanti. Vedi https://www.tuttitalia.it/statistiche/censimenti-popolazione/ . Numerosissimi paesi di ogni parte della penisola di migliaia od anche decine di migliaia di abitanti sono letteralmente scomparsi o si sono ridotti all’ombra di ciò che erano un tempo. Il caso italiano, all’epoca, considerato su scala globale, non era poi particolarmente atipico, potendosi ritrovare situazione analoghe in tutti i luoghi del pianeta “in ritardo” nei processi di industrializzazione locali o dove questi creavano una fortissima disoccupazione.

[4] https://www.lenius.it/quanti-sono-gli-immigrati-in-italia-e-in-europa/

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Emigrazione_italiana

[6] Umanità Nova, Settimanale Anarchico, Anno 99, n.01 del 20 gennaio 2019, p. 4.

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