Nel corso di quest’anno, le relazioni tra il governo brasiliano di Lula da Silva e il venezuelano di Nicolas Maduro hanno subito forte scosse e sembrano essere in rotta di collisione. L’ultima pagina di questo copione è stato il rifiuto di Lula all’ingresso del Venezuela nel blocco BRICS. Il distanziamento si è iniziato lo scorso anno con le critiche brasiliane alle diverse sanzioni imposte dal governo venezuelano alla candidatura degli oppositori di Maduro alla presidenza della Repubblica, ed è proseguito nel 2024 con l’appello brasiliano alla trasparenza nel processo elettorale. La vittoria di Maduro con un piccolo margine di voti è stata contestata dall’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) e da quasi tutti gli osservatori esterni, tra cui Celso Amorim, consigliere speciale per gli affari internazionali di Lula ed ex difensore del “socialismo bolivariano”. Il governo Lula ha chiesto la prova della regolarità delle elezioni, i verbali elettorali con la mappa del voto, che non sono mai stati inviati dalla Corte Suprema venezuelana, responsabile delle elezioni.
Come se non bastasse, sei oppositori del regime di Maduro si sono rifugiati nell’ambasciata argentina a Caracas che, dopo l’espulsione dei suoi diplomatici da parte del governo venezuelano, è stata presa in custodia dal Brasile. Il tentativo di invasione dell’ambasciata da parte di forze militari e milizie bolivariane è stato denunciato dal Brasile all’OSA, aggravando la crisi tra i due governi. In un’escalation di provocazioni, il governo venezuelano ha accusato Lula di essere stato cooptato dall’imperialismo statunitense e, più recentemente, sia lui che il presidente cileno Boric sono stati accusati di essere agenti della CIA. Maduro evita di rompere le relazioni diplomatiche con il Brasile, che lo isolerebbe quasi completamente nel continente, e Lula evita di assumere una posizione più drastica nei confronti di Maduro a causa delle pressioni esercitate dal suo partito, il PT, che non solo ha riconosciuto l’elezione di Maduro ma considera il Venezuela un esempio di democrazia. Come siamo arrivati a questo punto della relazione storica tra quelli che sarebbero due movimenti della sinistra latinoamericana? Come storico, vi invito a ripercorrere alcuni eventi degli ultimi 25 anni, da un punto di vista, diciamo, libertario.
Il presidente Hugo Chavez ha preso il potere politico in Venezuela nel 1999, succedendo al governo di Rafael Caldera, erede del liberale Salinas, macchiato dallo storico massacro di persone nel Caracazo del 1989 (Il massacro avvenne il 28 febbraio, quando le forze di pubblica sicurezza della Polizia Metropolitana (PM), l’Esercito Nazionale del Venezuela e la Guardia Nacional (GN) uscirono in strada per tenere sotto controllo la situazione. Nonostante le cifre ufficiali parlino di 300 morti e poco più di un migliaio di feriti, qualche fonte non ufficiale riporta una stima di 3500 vittime – da Wikipedia, ndr). Chavez, militare di carriera, è sempre stato schierato su posizioni nazionaliste di sinistra, intitolando il suo movimento al padre della Nuestra América, Simón Bolivar. Vale la pena notare che Bolivar non è mai stato un socialista, né avrebbe potuto esserlo 200 anni fa, ma soltanto un criollo (uomo bianco nato in America) liberale che escluse i neri e gli indigeni dalla cittadinanza nel Venezuela indipendente. Chavez ha sempre goduto di un’altissima popolarità grazie ad una serie di politiche sociali inclusive che hanno innalzato il tenore di vita della base della popolazione, il che gli ha permesso di operare una profonda trasformazione sociale durante i suoi due mandati.
La cosiddetta Rivoluzione socialista bolivariana non è stata una rivoluzione armata come quella cubana o tante altre, ma un processo interno e permanente di ristrutturazione istituzionale del Paese. Per garantire la continuità del processo politico in corso, Chavez si è mosso su due fronti. In primo luogo, ha istituito una politica pubblica dal forte richiamo nazionalista, militarizzando il Paese con un aumento significativo del bilancio delle Forze Armate e la creazione della milizia volontaria nazionalista bolivariana, che ha raggiunto i 4 milioni di membri. Le ingenti spese militari, con l’aumento degli stipendi e l’assegnazione di personale di carriera ai posti chiave del governo, gli hanno garantito il sostegno incondizionato di questa classe. La capillarizzazione della milizia nei quartieri e nelle comunità rurali assicurava una vigilanza permanente contro la possibile opposizione politica e l’istituzione di un sistema di denunce che metteva al muro il dissenso interno e chiudeva i media che rimanevano contrari al governo. Per completare il nuovo modello istituzionale che sostiene il regime bolivariano, il sistema giudiziario è stato ampiamente trasformato con la nomina presidenziale di nuovi giudici allineati alla nuova prassi del governo.
Dal punto di vista economico, la politica redistributiva non è stata attuata espropriando le risorse dei capitalisti venezuelani, ma aumentando la spesa statale, finanziata fondamentalmente (per oltre il 90%) dalla ricchezza generata dallo sfruttamento e dall’esportazione del petrolio da parte della PDVSA, di proprietà statale. Chavez ha cavalcato l’onda della crescita economica cinese nel primo decennio del nuovo secolo, sostenuta fino alla crisi del 2008 e poi confermata dalla recessione economica globale del decennio successivo. Oltre al petrolio, l’economia venezuelana ruota esclusivamente intorno all’esplorazione e all’estrazione di risorse minerarie, situate in biomi di grande diversità, dove vive la maggior parte delle popolazioni native del Paese, la fascia di popolazione più attaccata dal governo. Questo spiega anche una delle ultime azioni “antimperialiste” del governo Maduro, che ha dichiarato lo stato di guerra contro la Guyana nel 2023 per il possesso dell’Essequibo, un territorio a bassissima densità di popolazione (indigena) e ad altissima ricchezza mineraria e petrolifera, assegnato al Paese vicino dal 1898, quando era ancora una colonia britannica (il Venezuele rivendica 159.000 chilometri quadrati su un totale di quasi 215.000 della Guyana, ndr).
La transizione del regime è avvenuta con la morte di Chavez, che era stato eletto per un terzo mandato, e l’insediamento del suo vicepresidente, Nicolas Maduro, confermato dalle urne nel 2013. L’arrivo al potere di Maduro, tuttavia, è avvenuto in un momento in cui la crisi economica locale si stava aggravando a causa della fragile gestione del governo venezuelano, in un contesto di aumento della spesa pubblica per mantenere la sua popolarità e di riduzione delle entrate derivanti dalle esportazioni di petrolio. Il risultato è noto. Un’inflazione vertiginosa, che si è trasformata in iperinflazione verso la fine dello scorso decennio, seguita da una carenza di prodotti di base, che ha portato alle prime grandi proteste nel 2014 e all’esodo di massa della popolazione verso i Paesi vicini (circa 5 milioni di venezuelani emigrati). Da allora, a differenza del creatore del bolivarianismo, Maduro ha governato con scarsa popolarità, gestendo con la forza le crisi interne, burocratizzando il governo e aumentando la censura.
Il caso brasiliano è completamente diverso. Lula è salito al potere politico nel 2002 in un regime di coalizione con il centro-destra, sotto il comando del centro-sinistra. Ha attuato un governo, diciamo così, liberale-sociale, perché non ha combattuto i settori della rendita e della speculazione della società, ma si è limitato a bilanciarli, espandendo le politiche redistributive e di inclusione sociale (programmi di reddito minimo e quote per i gruppi etnici sottorappresentati). Come il Venezuela, inoltre, ha navigato sui venti favorevoli dell’espansione economica cinese, che ha garantito la sua base di esportazione di minerali e prodotti agricoli. Allo stesso modo, sebbene il governo del PT abbia venduto a livello internazionale un’immagine di difesa dell’ambiente e della biodiversità, nella pratica ha mantenuto la vecchia politica di sviluppo nazionale. L’espansione dell’energia, delle miniere e della frontiera agricola è avanzata in aree incontaminate dell’Amazzonia e a danno delle popolazioni indigene. A differenza del Venezuela, tuttavia, l’importanza geopolitica del Paese e il suo forte legame con i modelli liberaldemocratici occidentali hanno impedito al governo del PT di attuare le riforme istituzionali interne allo stesso livello che Chavez ha realizzato. Le ripercussioni della crisi globale sono state ritardate in Brasile, che ha iniziato a subirle in modo più acuto a partire dal 2012, sotto la guida di Dilma Roussef, succeduta a Lula senza la stessa popolarità e capacità di articolazione politica. In questo contesto di diminuzione degli afflussi dall’estero, la Roussef ha dovuto affrontare il corporativismo politico della base della destra al potere nel Congresso e ha perso. Il suo impeachment ne 2016 può essere attribuito alla scommessa di un fragile regime di coalizione che è crollato quando il bilancio pubblico si è ridotto.
La storia dei governi di sinistra in entrambi i Paesi mostra queste significative differenze. Chavez e Maduro hanno attuato una trasformazione istituzionale burocratica che consente loro una continuità politica permanente. Il Venezuela è, infatti, una dittatura con un governo di sinistra ultranazionalista, sostenuto dalle risorse del sottosuolo estratte da una mega-azienda statale che si confonde con la nazione stessa. Il Brasile, invece, è una democrazia liberale, anche se può non sembrare tale agli stranieri provenienti dai Paesi capitalisti sviluppati. Il regime di alternanza politica e il governo di coalizione parlamentare sono i suoi tratti distintivi, che tendono a essere molto più difficili quando la sinistra è al potere. Questa distinzione è ciò che attualmente influisce sulle relazioni tra Brasile e Venezuela.
I due Paesi sono sempre stati molto vicini a partire dal 2000, quando sulla scia delle manifestazioni No Global, che in America Latina furono animate dalla lotta contro il NAFTA e l’ALCA e dalla critica al Washington Consensus. La creazione del Forum sociale mondiale a Porto Alegre nel 2001, in contrapposizione al Forum mondiale di Davos, la nascita del Foro di San Paolo, e la proliferazione di organizzazioni autonome di base hanno riportato la sinistra sulla mappa latinoamericana nella sua pluralità politica in quel decennio. La conquista del potere politico nel 2002 da parte della sinistra brasiliana, tuttavia, non è stata in grado di promuovere cambiamenti strutturali interni come quelli guidati da Chavez. Da un punto di vista esterno, per aumentare la capacità redistributiva del pianeta, Lula, attraverso il suo potere simbolico, è intervenuto nelle organizzazioni di governance globale come il G-20, nella creazione dei BRICS, con una presenza attiva a Davos. Abbandonando la trasformazione dal basso da parte delle organizzazioni di base che hanno dato il sostegno iniziale al governo del PT, è passato a promuovere l’inclusione globale dall’alto, con critiche solo retoriche all’imperialismo statunitense e all’Occidente, riunendo le economie globali emergenti, tutte economicamente dipendenti dalla crescita cinese.
In realtà, il discorso anti-imperialista dei BRICS è stato una chimera fin dal suo inizio, la cui pretesa di una partecipazione più equa delle diverse economie al commercio globale è servita ad approfondire l’esercizio di un modello di capitalismo meno liberale e più statale, guidato dalla Cina. Anche dal punto di vista geopolitico di ciascun partecipante, i BRICS non possono costituire un’unità, perché mentre due dei suoi principali membri sono chiaramente autocrati, Russia e Cina, gli altri, Brasile, India e Sudafrica, più o meno, sono democrazie liberali. La recente espansione del gruppo con l’inclusione di Iran, Egitto, Arabia Saudita ed Etiopia è una chiara dimostrazione dell’interesse strategico della Cina ad avere un accesso preferenziale ai mercati energetici, e questo spiega l’attuale tentativo di includere il Venezuela, affiancando potenze regionali assolutamente antagoniste, come Iran e Arabia Saudita. È a questo punto che la situazione del Brasile è imbarazzante perché, da democrazia liberale che difende fino in fondo i valori delle libertà individuali, si trova circondato da governi autocratici in cui queste sono tenui o inesistenti. E questo riflette anche la posizione ambigua del Brasile, praticata da un leader specializzato nell’equilibrio su una corda tesa.
Quello che sembra esserci è la difficoltà dei governi di sinistra a gestire la nuova configurazione globale che si è instaurata soprattutto dopo l’ascesa della destra con Trump nel 2016. La tenuta istituzionale dei principi democratici rende evidente la possibilità di vittoria elettorale della destra in tempi di crisi. Il Venezuela lo ha impedito corrodendo le sue istituzioni accoppiandole al bolivarismo, distorcendo la pratica elettorale. Il PT non può fare altrettanto in Brasile, che per dimensioni, tradizione e posizione geopolitica in Occidente richiede mantenere un sistema di elezioni libere. Allo stesso modo, né il Sudafrica né l’India, sembra, stiano pensando di diventare autocrazie. Gli altri membri dei BRICS, in quanto nazioni con una lunga tradizione autocratica, non hanno alcun problema sull’argomento. Il futuro dei BRICS, se il Venezuela dovesse aderire grazie alle pressioni della maggioranza dei suoi membri, sarà quello di un blocco che si riunisce intorno a interessi economici comuni, e non di un blocco che combatte l’imperialismo. Al contrario, i BRICS sono già un blocco che gravita verso una nuova forma di imperialismo, quello cinese. C’è qualcosa di positivo in questa riconfigurazione globale? Sì, nella misura in cui non abbiamo più un modello economico capitalista esclusivo diretto da una logica accumulativa di origine protestante e liberale che confonde la democrazia, che è sempre relativa, con la pratica accumulativa del capitale e può aprire o chiudere i suoi mercati a seconda delle sue esigenze. D’altra parte, no, perché l’alterità economica portata dai nuovi agenti dell’imperialismo globale ignora, attraverso sistemi politici escludenti, l’agenzia liberatoria della razza, del genere e della religione.
In questo senso, la posizione del Brasile rispetto al Venezuela e ai BRICS è delicata. La politica estera brasiliana ha sempre evitato di esprimersi sulle pratiche interne di altri Paesi, ma in questo caso regionale del Venezuela di Maduro non può più astenersi dal farlo, vista la constatazione del suo inequivocabile autoritarismo. L’equilibrio tra interessi economici e contesto politico sembra un tantino schizofrenico, ma Maduro è diventato un problema per la politica estera brasiliana, tanto più per un governo di sinistra. Se verrà sostenuto, la sua chiara difesa delle dittature come potere politico peserà su di lui. D’altra parte, all’interno dei sempre più esigui gruppi della sinistra globale, como lo è parte del PT, che considerano persino il governo Putin come di sinistra, non sostenere Maduro significa piegarsi definitivamente agli interessi del capitalismo statunitense. La situazione imposta dalla nuova riconfigurazione politica globale non è un compito facile per la sinistra democratica, e ancora più difficile per il governo Lula.
Carlo Romani