La presentazione da parte del Governo del Documento Economico Finanziario, senza alcun dettaglio programmatico, ha fatto inorridire la maggior parte degli economisti, sia quelli mainstream che quelli d’opposizione. Il Ministro Giorgetti ha definito “asciutto” il documento, che dovrebbe illustrare il quadro dei provvedimenti del prossimo triennio, definendo la politica economica e finanziaria che il governo intende attuare. Ma non è cosa, in questo momento: si deve ridefinire il nuovo patto di stabilità europeo (quindi capire fino a dove potrà spingersi nei suoi sfondamenti) e soprattutto incombono le elezioni europee di giugno (per cui meglio non fare sapere, a quel 40% di elettori che a malapena ancora andranno a votare, cosa li aspetta in autunno).
In buona sostanza la lotta senza quartiere che dilania i partiti di governo consiglia di prendere tempo e continuare a propalare l’idea di un paese che va bene, di un’occupazione in crescita, di una gestione prudente della cosa pubblica, rispettosa dei vincoli di bilancio, ma sensibile alle difficoltà economiche di tante famiglie senza lavoro e/o martoriate da anni di inflazione famelica.
Il governo quindi tende a NON dare i numeri, tranne quando elenca quelli negativi che possono essere attribuiti ai governi precedenti. Sul banco degli imputati, ovviamente, il superbonus edilizio al 110%, che per anni è stato sostenuto ed esaltato da tutti i partiti, che gareggiavano nel fare da zerbino a Federcostruzioni e Federedilizia, e poi è diventato il perfetto capro espiatorio: 219 miliardi di spesa il bilancio finale, al lordo di 16 miliardi annullati per frodi già appurate. Il guaio è che gli effetti di trascinamento sui conti fiscali dureranno fino al 2028 ed è quindi facile capire che quel poco che restava dell’elasticità della politica economica va a farsi benedire. È come se tutto fosse blindato da oneri pluriennali incomprimibili e quindi bisogna buttarsi sulla finanza creativa per trovare degli spazi minimi di intervento: da una parte non si possono tagliare a dismisura i costi dei servizi essenziali, dall’altra bisogna fare finta di mantenere le promesse con cui si sono vinte le elezioni.
I dati che il governo ha comunque dovuto fornire sono impressionanti: per la prima volta ci si avvia a sfondare la soglia psicologica dei 3.000 miliardi di debito pubblico, ma la corsa è destinata a proseguire per inerzia verso cime ancora più alte. Partendo dagli attuali 2.980 miliardi di euro, il debito salirà a 3.109 miliardi nel 2025 e a 3.227 nel 2026. A fine triennio saremmo sopra i 72 miliardi di eccedenza, rispetto quanto previsto nel DEF di un anno fa: una palese incapacità di controllare la spesa, di fare previsioni, di provvedere a finanziare le misure adottate.
E in effetti non c’è niente che il governo possa fare, senza scontentare il suo elettorato di riferimento: la luna di miele è finita da tempo e si può solo stringere i bulloni sull’informazione per continuare a dipingere un paese che non c’è. Avevano promesso di abbassare le tasse e l’hanno fatto per le loro amate partite Iva, ma la pressione fiscale generale è rimasta inchiodata sopra il 42% e non accenna a scendere. Non hanno potuto revocare la riduzione dei contributi previdenziali (il famigerato cuneo fiscale), che era stata concessa prima da Conte e poi prorogata da Draghi, e anzi hanno voluto strafare abbassando ancora di un paio di punti, per portare un po’ di sollievo ai salari più bassi, ma non hanno voluto toccare né i profitti, né gli extraprofitti, e quindi di nuove entrate non ce n’è. Persino la riduzione delle aliquote da quattro a tre ha portato pochi consensi, visto che favorisce più i redditi medio-alti (28.000-50.000 euro l’anno) che gli altri. E sono misure che costano, se vanno prorogate nel 2025: almeno 12 miliardi per il cuneo fiscale e almeno 5 miliardi per le aliquote accorpate.
Poi c’è il problema molto serio dei costi della guerra: Bloomberg prevede una spesa aggiuntiva per il G7 di 10 mila miliardi in armamenti nel prossimo decennio, per arginare la minaccia russo-cinese. Se è già un problema fare salire la spesa militare al 2% del Pil, cosa accadrà quando gli alleati NATO ci chiederanno di salire al 4%?
Toccherà tagliare ancora sui servizi e in questo momento l’attenzione è massima sulla Sanità: le liste d’attesa sono a livelli sempre più preoccupanti, c’è una fuga dei sanitari e dei medici dal servizio pubblico, ci sono milioni di persone che non hanno i soldi per curarsi privatamente e le convenzioni con i privati oltretutto rischiano di costare di più per il SSN. Nonostante questo, la spesa sanitaria è destinata a calare come percentuale del PIL: nel 2024 si attesterà a 138 miliardi (6,4% del PIL), soprattutto per gli effetti dei rinnovi contrattuali 2019-2021 dei dirigenti medici e dei medici di famiglia, ma da qui al 2026 la spesa scenderà al 6,2% del PIL, perché alla fine, per loro, è meglio comprare bombardieri e sottomarini, che curare le persone.
Ed è scandaloso, partendo proprio dalla Sanità, pensare al comatoso stato d’attuazione del PNRR, in generale e nello specifico. Dei 194 miliardi previsti dal PNRR entro il 2026, solo 43 miliardi erano stati effettivamente spesi a fine 2023. Mancano ancora tutti i provvedimenti relativi ai settori “socialmente sostenibili”: ad esempio 19 miliardi per l’Ambiente, 15 miliardi per la Sanità, 14 miliardi per l’istruzione. In pratica hanno speso soltanto i fondi destinati alle imprese, come i 9 miliardi di Industria 4.0 e i 4 miliardi destinati a ricerca e sviluppo; persino il progetto per portare la banda larga a 1 Giga è stato realizzato solo al 14%, con altri 3 miliardi che restano inutilizzati.
In compenso si vede crescere la spesa per interessi sul debito pubblico, perché preferiscono emettere BTP al 3 o al 4%, mentre i fondi del PNRR hanno scadenze lunghissime e tassi quasi soltanto simbolici. La spesa per interessi ammonta già ora a circa 85 miliardi l’anno, ma è destinata a salire fino a 95 entro il 2026. Nel triennio si calcola che avrà un totale cumulato di circa 269 miliardi: un bel trasferimento dalle tasche dei contribuenti a tutti i detentori di rendite, vale a dire banche, assicurazioni e fondi d’investimento, inclusi Banca d’Italia e Bce. Però il governo vuole risparmiare sulle altre spese, quelle sociali, per ottenere un avanzo primario di almeno 50 miliardi e tornare ad un deficit annuo più accettabile, che non superi il 4% e che riesca a contenere il rapporto debito/Pil sotto il 140% nel triennio.
Ma il DEF asciutto di Giorgetti e Meloni non dice come potrà accadere e soprattutto cosa intende fare il governo per raggiungere l’obiettivo: riporta le cifre tendenziali, ma non dichiara cosa ha in mente. Si possono fare solo ipotesi: dipende da quanto dura la guerra, da quando rientrerà l’instabilità geopolitica, da quando scenderà l’inflazione americana, dalla politica dei tassi della Lagarde. Quel che è certo è che ci vorrà tempo: il governo intende chiedere alla Commissione Europea un piano di rientro di almeno sette anni, per garantire una riduzione graduale dell’extra-deficit, dopo una quasi certa procedura d’infrazione.
Se per l’Europa la pacchia doveva finire, dopo la vittoria dei patriottici Fratelli d’Italia, non ci sembra di vedere discontinuità: Giorgietta bacia la mano a Ursula e Giorgetti cinguetta con Gentiloni, per comprare tempo e ottenere sconti, senza mettere in discussione assolutamente nulla della politica suicida Ue.
Una nave che procede a fari spenti in un mare in tempesta, senza timone e senza gasolio. La questione è: andremo sugli scogli prima o dopo che ci piova sul cranio qualche testata nucleare? Non diciamolo troppo forte, i mercati potrebbero innervosirsi…
Renato Strumia