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Fine del segreto, fine della privacy

Fine del segreto, fine della privacy

Negli anni settanta del secolo scorso i movimenti di opposizione, particolarmente in Italia, erano percorsi da un acceso dibattito sulla pratica della cosiddetta “lotta armata”, messa in atto da svariati gruppi. Dei tanti e spesso dimenticati approcci critici alla questione ne ricorderemo uno in particolare, in quanto, a differenza di altri, appare dotato di una capacità interpretativa che va oltre le circostanze particolari che lo hanno generato: quello che si fondava sul concetto di “fine del segreto”.
Questo approccio alla faccenda, terminante con un giudizio negativo sulla pratica in questione, partiva da questo assunto. Se anche ogni altro genere di critica alla strategia lottarmatistica – opportunità politica, apertura alle provocazioni ed alle infiltrazioni, incomprensione/avversione della scelta da parte delle masse, ecc. – avesse avuto torto, restava un dato ineludibile: il percorso politico armato, da un punto di vista strettamente tecnico, per funzionare efficacemente necessiterebbe della pratica della segretezza. Questa, però, con le tecnologie del controllo sviluppatesi in elettronica, non esiste più. Tra microfoni spia e quant’altro di nuovo e di vecchio esisteva già in quegli anni, era pressoché impossibile mantenere segreta un’organizzazione per più di qualche mese, indipendentemente da quanti accorgimenti si prendessero a riguardo. Di conseguenza, se gli organi repressivi dello Stato la lasciavano agire, era segno che le sue azioni erano ritenute vantaggiose per il potere; altrimenti, sarebbe stata smantellata da tempo.
Le tecnologie del controllo, nei quarant’anni che sono passati da quest’analisi, sono enormemente cresciute, al punto che – per usare una metafora informatica – oramai viviamo tutti, ma proprio tutti e non solo gli attivisti politici di opposizione, nel mondo delle tracciabilità. Tra telecamere di controllo piazzate un po’ ovunque, reti di telefoni cellulari multifunzione/multimediali, navigatori satellitari, carte di credito, archivi di provider e quant’altro, oggi il nostro concetto di privacy è divenuto davvero molto relativo e, in merito, non c’è garante che tenga. La fine del segreto, oggi, si è trasformata in una più generale fine della privacy. Il che, non solo per chi è nato in un mondo in cui queste tecnologie erano appena agli inizi, può apparire decisamente inquietante. Se trent’anni fa la questione si poneva in casi particolari e la violazione del segreto era possibile solo ai potenti (sostanzialmente agli apparati investigativi statali, a grandi aziende o ad individui molto ricchi che potevano rivolgersi ad agenzie investigative private molto attrezzate) ed in casi eccezionali (data la onerosità iniziale di tali tecnologie), oggi la questione è universale ed assai più diffusa.
La privacy di noi è continuamente sotto attacco al punto da essere praticamente scomparsa. Basta fare un giro in uno dei tanti negozi, presenti un po’ in tutte le grandi e medie città, che vendono al grande pubblico attrezzature investigative per capire come la nostra sfera privata possa essere facilmente violata pressoché da chiunque.
Un fenomeno come i social network – facebook in particolare, ma non solo – può essere letto, per taluni suoi aspetti, anche in quest’ottica. Più o meno consciamente, è oramai sapere comune il fatto di vivere tutti in un mondo dove si può essere continuamente tracciati nei propri spostamenti, azioni, idee, gusti di ogni genere: se fino ad ieri esporre la propria vita in pubblico era affare da esibizionisti, oggi è inevitabile. Siamo nudi alla vista del potente (ma anche del semplice fidanzato geloso disposto ad impegnare un po’ di tempo e un minimo di fondi) che può e vuole tracciare le nostre esistenze: per cui che senso ha nasconderle agli altri?
Insomma, il successo di massa dei social network potrebbe essere basato proprio su questa presa di coscienza (o di incoscienza): la nostra esistenza si svolge interamente nel mondo della tracciabilità.
D’altronde, la trasparenza delle proprie esistenze può essere, almeno in parte, un’arma di difesa per chi vive nel mondo della tracciabilità potenziale e permanente. Cercare di nascondere degli aspetti della propria esistenza, in altri termini, significa vergognarsi di essi ed offrire al potere una vulnerabilità in più: sbandierarli, al contrario, toglie a questi un’occasione di ricatto ed attacco ulteriore. Ovviamente, restano “sensibili” tutta una serie di aspetti della propria esistenza generalmente deprecabili, come potrebbe essere ad esempio la pedofilia: ma questi sono reati di per sé e, solitamente, non un’aggravante che il potere potrebbe ulteriormente caricare sull’individuo. Per fare un esempio, che senso avrebbe accusare, all’interno di una logica di attacco politico, Nichi Vendola di essere omosessuale? Potrebbe, anzi, nella logica repressiva del dominio, essere controproducente e creare simpatia nei suoi confronti. In un mondo in cui si è completamente aperti al controllo delle nostre esistenze, non è escluso che una tale coscienza (o incoscienza) sia alla base di tutta una serie di fenomeni del presente che, ad un primo sguardo, possono apparire puro esibizionismo.
Il potere, infatti, ha messo in atto il suo antico sogno del panoptikon: il carcere dove i carcerieri possono osservare i detenuti in ogni istante della loro vita, senza che i detenuti possano ricambiarne lo sguardo. La società, però, potrebbe non essere rimasta a guardare.
Il concetto di “prescrizione del sintomo” deriva dalla psichiatria sistemica di matrice batesoniana (la cosiddetta “scuola di Palo Alto”). L’idea di base è che ogni sintomo psichiatrico si regge su di un gioco di potere tra il portatore di esso ed il suo ambiente: per quanto dolore esso comporti al “pazzo”, esiste sempre un “vantaggio secondario” che lo rende desiderabile agli occhi di esso. Ad esempio, il sintomo potrebbe essere un mezzo per controllare i comportamenti altrui, partendo dal presupposto, in larga misura inconscio, che questi comportamenti si curveranno nella direzione di tentare di impedire il sintomo stesso e, in questo tentativo, il suo portatore verrà messo al centro dell’attenzione sociale del suo ambiente. Una strategia terapeutica allora potrebbe essere quella – apparentemente paradossale – di richiedere al paziente il sintomo stesso, magari in forma amplificata: nel momento stesso in cui ciò accade il sintomo perde il suo potere, il suo “vantaggio secondario”.
Insomma, una delle ipotesi interpretative del voyerismo tecnologico collettivo e diffuso potrebbe essere questa: la società nel suo complesso, in maniera largamente inconscia, sta mettendo in atto una universale prescrizione del sintomo nei confronti della follia voyeristica del potere. Osservami quanto più puoi, figlio di puttana.
Enrico Voccia

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