Nelle ultime settimane si sono intensificate da parte di personaggi istituzionali le richieste di abrogazione del cosiddetto reato di clandestinità previsto dal Parlamento nel luglio del 2009, che introduceva nella disciplina dell’immigrazione (il decreto legislativo 286/1998) l’art. 10 bis, ai sensi del quale, come noto, al clandestino viene comminata un’ammenda da 5.000 a 10.000 euro; la competenza spetta al Giudice di pace, un magistrato onorario.
Le motivazioni addotte, alle quali si aggiunge di recente quella del primo Presidente della Corte di Cassazione, richiamano questioni di efficacia e di efficienza; in buona sostanza la previsione del reato non avrebbe efficacia (non sarebbe cioè un deterrente), in quanto la pena pecuniaria minacciata, come conseguenza del reato, non può impensierire coloro che non hanno un soldo in tasca (i clandestini, per l’appunto), e la sua applicazione risulta impossibile nel presupposto, più che logico, che tali soggetti, oltre alle tasche vuote (svuotate fra gli altri dal racket degli scafisti), non posseggono alcun bene immobile (vedi le case distrutte dalle guerre o di campi devastati dalle siccità), su cui lo stato possa rivalersi. Tale minaccia a vuoto, data l’obbligatorietà dell’azione penale, si rifletterebbe sulla efficienza dell’apparato giudiziario intasando inutilmente gli uffici dei Giudici di pace impedendo loro di sbrigare le “normali” pratiche. Quindi: soldi e tempo persi inutilmente. Da qui la richiesta pressante di parte delle istituzioni di cambiare rotta, magari riconducendo il reato di clandestinità ad una semplice sanzione amministrativa per riacquistare efficacia ed efficienza.
Vi sarebbero però alcune altre questioncine, che, guarda caso, politici e magistrati non tirano volutamente in ballo e che vanno ben al di là dello sbandieramento di criteri di efficacia ed efficienza investendo pesantemente quei valori politici e giuridici che gli stessi pretendono di incarnare e di difendere. Due sono quelle che qui si vuole proporre.
Prima e generale questione: come appare evidente a chiunque abbia anche solo una leggera preparazione giuridica (non occorre quindi essere primo Presidente della Corte di Cassazione), il reato in oggetto è un classico “reato per tipo d’autore”. Cosa significa ciò? La realizzazione del reato (che nell’attuale ordinamento risulta essere tecnicamente una contravvenzione) avviene senza alcuna volontà e senza alcuna azione da parte dell’attore, ma anche senza il manifestarsi di alcun danno (a cose ed a persone). Per il solo fatto di essere, nel nostro caso clandestino, il soggetto commette un reato e, pertanto, va punito.
Nel “reato per tipo d’autore” non si prefigurano infatti comportamenti vietati (come uccidere, rubare oppure schiamazzare e così via), che ledono beni giuridici (quali la vita, la proprietà, la quiete), ma soltanto status (nel nostro caso la mancanza di permessi di soggiorno validi), che conducono di per se stessi all’incriminazione. Tutto ciò in barba al principio, ineludibile in uno Stato di diritto liberal-democratico, nato dalla Resistenza etc. etc., della materialità del fatto. Poca cosa è l’ammenda fino a 10.000 euro, si potrebbe pensare; ma qui, a ben vedere, siamo sullo stesso piano di quelle esecrate legislazioni penali, che legavano ad un particolare status la commissione di un reato e, pertanto, l’erogazione di una pena. Se errato non vado, il primo Presidente della Corte di Cassazione ha richiamato i problemi sollevati del reato di clandestinità proprio all’indomani della Giornata della Memoria, senza che gli sovvenga alla mente – ed in questo è in buona e numerosa compagnia – quel “reato per tipo d’autore”, che, anche con il sostegno dei volonterosi carnefici di Hitler, ha infamato l’umanità.
Qui non si tratta certamente di sterminare classi di soggetti per il solo fatto di essere sfuggiti a condizioni di vita brutale ed approdati (senza permessi si badi) nel Bel Paese, al pari di ciò che avveniva con gli ebrei, con i rom, con gli omosessuali, con i disabili. È il caso soltanto di considerarli di per se stessi delinquenti, delinquenti per aver osato, a fronte di quell’emergenza umanitaria di cui tutti si riempiono la bocca, di cercare protezione (senza il permesso) nella nostra civile penisola.
Letto in quest’ottica si potrebbe anche ipotizzare che il reato di clandestinità infami la classe politica che l’ha scoperto. Anziché rincorrere efficienza ed efficacia costoro dovrebbero pensare a sfuggire alla vergogna!
Seconda e più specifica questione: non dovrebbe essere difficile agli esperti magistrati di cui sopra venire a conoscenza di un fatterello avvenuto in Europa alcuni anni fa, in proposito a questioni molto vicine del reato di clandestinità, che dovrebbe indurli (al di là delle solite chiacchiere sull’efficacia e sull’efficienza) a ridiscutere sull’opportunità di mantenerlo nell’ordinamento.
Vale la pena di raccontare brevemente la vicenda: l’11 febbraio del 2011 la Corte d’appello di Trento si rivolge alla Corte di Giustizia europea al fine di avere indicazioni sull’applicabilità, avuto riguardo ai principi giuridici dell’Unione (ed in particolare alla direttiva 2008/115, che “stabilisce norme e procedure comuni da applicarsi negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, nel rispetto dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto comunitario e del diritto internazionale, compresi gli obblighi in materia di protezione dei rifugiati e di diritti dell’uomo”), di disposizioni che prevedono “l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo”. Come si nota la questione è un po’ diversa, ma riguarda pur sempre il D.L. 286 del 1998, segnatamente l’art. 14, e, nel caso concreto, la possibilità di erogare una pena ad un soggetto clandestino (che di più si rifiuta di lasciare il paese a seguito di provvedimento di espulsione. Sarebbe quindi un soggetto che agisce, fa qualcosa che va ben oltre al possedere il mero status di clandestino, da cui all’art. 10 bis).
La risposta della prima sezione della Corte di Giustizia europea arriva il 28 aprile dello stesso anno: la direttiva comunitaria del 2008 “deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro […] che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo”. Pertanto, in considerazione del carattere preminente del diritto comunitario su quello interno, il giudice è chiamato a disapplicare la norma in oggetto, ovvero a non erogare alcuna pena.
Questo esempio pare più che indicativo, al di là della sentenza 250 del 2010 della Corte costituzionale italiana, in questi giorni più volte richiamata, che ritiene legittimo il reato di clandestinità (ma, attenzione, la sentenza andrebbe letta nella sua interezza e non ridotta a slogan), di come certe normative repressive frutto di spinte xenofobe, fra le quali primeggia il reato di clandestinità, possano risultare compatibili con una giurisprudenza europea non condizionata da ricerche di consensi elettorali.
Il senso della questione non è quindi l’efficienza e l’efficacia, ma la dignità della persona umana calpestata dai cosiddetti politici per un pugno di voti e non solo da quelli che esaltano la discriminazione ed il razzismo.
Marco Cossutta