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Dall’ autunno caldo ai 35 giorni alla fiat

Dall’ autunno caldo ai 35 giorni alla fiat

Nell’impostare questa riflessione sull’autunno caldo abbiamo cercato di evitare ogni tentazione nostalgica o semplicemente evocativa. Su quegli avvenimenti si è fatta, negli anni, anche troppa ideologia. Abbiamo cercato di partire dalle condizioni materiali, dalla condizione operaia che ha dato origine a quel ciclo di lotte, e di interpretare quel movimento, per così dire, visto allo “stato nascente”. Questa impostazione ci ha permesso di trovare delle analogie o delle differenze, anche forti, con la situazione odierna della lotta di classe che verranno messe in evidenza nel corso dell’articolo.

Nella riflessione sono stati individuati alcuni aspetti che consentono il confronto:

  1. Il soggetto antagonista protagonista dei vari cicli di lotta.

Nell’autunno caldo del 1969 il soggetto antagonista era rappresentato dall’operaio meridionale immigrato, dequalificato, alla catena di montaggio della grande fabbrica o nell’edilizia, in genere non sindacalizzato e non legato ai partiti politici parlamentari. Questo soggetto era stato già al centro dell’inchiesta operaia condotta da Raniero Panzieri e dalle riviste operaiste come “Quaderni rossi” e “Classe operaia” nei primi anni 60. Le condizioni vissute da questi operai nella fabbrica erano terribili: reparti ad altissima nocività, o pieni di amianto o con temperature elevatissime come al reparto vulcanizzazione della Pirelli. Alla catena di montaggio della Fiat i ritmi di lavoro erano elevatissimi e l’operaio era costretto a ripetere per ore lo stesso movimento in tempi strettissimi, sotto il controllo dei capireparto e dei cronometristi. Molto sentito era anche il problema delle abitazioni, ovvero della mancanza di case o degli affitti alti, una situazione che porterà nel luglio 1969 alla rivolta di Corso Traiano che si estese poi ai quartieri operai di Torino.

Erano frequenti poi anche gli episodi di razzismo nei confronti dei “terroni”, come i cartelli esposti con la scritta “non affitto casa ai meridionali”. Episodi certo non paragonabili a quelli odierni nei confronti degli immigrati extra comunitari, quanto meno perché i meridionali avevano comunque la cittadinanza italiana e quindi almeno non erano soggetti al ricatto del permesso di soggiorno. Inoltre quello era un periodo di “boom economico” e di sviluppo industriale accelerato, il che portava di conseguenza a un peso crescente di un proletariato nazionale in termini sia numerici che sociali e “culturali”, nel senso dell’egemonia gramsciana e dell’affermarsi dell’ideologia del lavoro.

La situazione odierna presenta quindi, rispetto ad allora sia analogie che profonde differenze: il nuovo soggetto antagonista è ancora un immigrato, questa volta multietnico e multirazziale, dequalificato, che lavora in genere nel sottosistema degli appalti e delle cooperative della logistica o sotto il caporalato nelle campagne, quindi senza diritti e sottoposto a un super-sfruttamento con salari da fame, quando non con il lavoro nero. Un soggetto certamente più ricattabile, ma che comunque manifesta oggi un antagonismo maggiore rispetto al vecchio, e molto ridotto in termini numerici, proletariato autoctono di fabbrica. Inoltre questo nuovo proletariato può essere considerato da subito una frazione di un immenso proletariato immediatamente internazionale, e pertanto immune da tendenze nazionaliste o “sovraniste”.

  1. Il rovesciamento della gerarchia di fabbrica.

Non c’è dubbio che la classe operaia in quel periodo abbia speso le sue migliori energie nella lotta contro il dispotismo di fabbrica, ottenendo anche dei notevoli successi. Il rifiuto del lavoro dell’operaio dequalificato alla catena di montaggio è la risposta operaia alla crisi capitalistica e all’intensificazione del lavoro: sabotaggio, assenteismo, sciopero selvaggio, salto della scocca, corteo interno e spazzolata dei reparti, azioni contro i capi, il gatto selvaggio, forme spontanee di lotta radicale al di fuori del controllo sindacale. Alcuni autori parlano di una “tregua” che si verificò in quegli anni, ovvero di un allentamento del controllo capitalistico sugli operai nella grande fabbrica, altri parlano in modo più esplicito di contropotere operaio, almeno fino al 1979, quando la FIAT passò al contrattacco con il licenziamento dei 61 operai, avanguardie delle lotte in fabbrica, che preparò la strada ai 23.000 licenziamenti del 1980 e alla ripresa del controllo capitalistico sugli operai.

  1. la lotta sul salario.

E’ necessario riconoscere, prima di tutto, che, alla fine degli anni 60, la situazione oggettiva era favorevole alla lotta salariale: all’enorme aumento della produttività che si era verificato nel periodo del boom economico del dopoguerra non aveva corrisposto un adeguato aumento dei salari operai, soprattutto in Italia, dove i salari erano al di sotto della media europea. Inoltre, con la divisione del mondo in due “campi”, il “campo capitalista” (liberale) e il “campo socialista” (meglio definibile come capitalismo di stato), per quanto riguarda il mercato mondiale della forza lavoro si era determinato un blocco, relativo ma importante, della possibilità di delocalizzare la produzione in paesi a costo del lavoro più basso e/o delle migrazioni, a livello mondiale, della forza lavoro (fatta eccezione per le migrazioni dei contadini del sud Italia verso il nord e dei lavoratori turchi in Germania). Il prolungarsi di questa situazione, che ha reso più rigido il mercato del lavoro, limitando così al minimo l’esercito industriale di riserva e, quindi di conseguenza, anche la concorrenza fra i lavoratori, fino a raggiungere quasi la piena occupazione, ha reso possibile una piena generalizzazione della lotta sul salario. Non possiamo dimenticare che dopo i due rinnovi del contratto dei metalmeccanici nel 1969 e nel 1973 il salario operaio è quasi raddoppiato, passando dalle 70/80.000 lire alle 140.000 lire.

Tuttavia, pur partendo da questa situazione oggettivamente favorevole, la lotta operaia anticapitalistica, del cosiddetto “operaio massa”, si svolge essenzialmente sul terreno del salario, estremizzando però la sua portata. Dagli “aumenti salariali uguali per tutti”, anche per gli impiegati, contro il cottimo e le gabbie salariali, espressione dell’egualitarismo e del rifiuto della divisione capitalistica del lavoro, al “salario sganciato dalla produttività” come rifiuto dello sfruttamento capitalistico e della sopravvivenza legata al lavoro, al “reddito sociale garantito”, estensione della lotta per il salario alla società e al territorio (casa, servizi, trasporti, scuola, sanità), la lotta operaia usa l’estremizzazione della lotta per il salario, nell’ipotesi che questa alla fine possa far saltare i rapporti sociali capitalistici. E in effetti comunque si arriva alla fine a quello che gli economisti chiamano “profit squeeze”, vale a dire a una erosione dei profitti tale da mettere in pericolo il processo di accumulazione. Sta di fatto che questo continuo rilancio della lotta sul salario, questo ripartire ogni volta dalle condizioni materiali della classe annullava la tradizionale divisione fra lotta economica e lotta politica, fra sindacato e partito. La lotta economica sulle condizioni materiali era a tutti gli effetti lotta politica, garanzia della autonomia della classe dalle rappresentanze, istituzionali e non.

Oggi nelle lotte della logistica si ottengono, in molti casi, aumenti salariali notevoli e conquiste normative importanti, ma che rimangono, in massima parte settoriali. La notevole difficoltà nella generalizzazione della lotta è il risultato della disgregazione e della concorrenza fra i proletari indotta dalla crisi. Su questa difficoltà pesano la diffusione del precariato, la diversità dei contratti nello stesso ambiente di lavoro, il lavoro somministrato dalle agenzie del lavoro, il lavoro nero o, addirittura gratuito (stage, lavoro volontario ecc.). Nel capitalismo delle piattaforme (uber, riders ecc.) il lavoratore figura addirittura come imprenditore di sé stesso. Intanto continuano le crisi industriali, dalla ex ILVA alla Whirlpool, con la prospettiva di migliaia di licenziamenti. Mentre, in questa situazione, da alcune parti si avanzano richieste di un salario garantito o di un reddito di base incondizionato.

  1. la lotta operaia e il sociale, ovvero il rapporto tra fabbrica e territorio.

Il periodo che va dall’autunno caldo alla metà degli anni 70 è caratterizzato senza dubbio dalla centralità della fabbrica, ovvero dalla centralità operaia. Abbiamo già visto che l’estensione della lotta per il salario alla società ha portato indubbiamente da una parte ad una accelerazione dei processi di proletarizzazione già in corso e ad una estensione del rapporto di salario a strati vastissimi di lavoratori, la cosiddetta salarizzazione dei ceti medi, produttivi o improduttivi che siano, ma non intacca minimamente, dall’altra, il carattere di merce dei beni di consumo e dei servizi, vale a dire la “democrazia del mercato”. Inoltre il rapporto con il territorio (casa, servizi, trasporti, scuola, sanità, pensioni) si concretizza con l’estensione e il rafforzamento dello stato sociale (welfare state), inteso come salario sociale o salario differito.

Particolare importanza nelle lotte di quegli anni ha avuto la lotta per la casa, a partire dalla già ricordata rivolta di Corso Traiano a Torino. E’ impossibile citare tutte le occupazioni di case che si sono succedute in quel periodo, come, a Milano, quelle di Via Mac Mahon e di Viale Tibaldi, o, a Roma, quella di San Basilio. Lotte che sostanzialmente sono state alla fine vittoriose, visti i rapporti di forza favorevoli, anche se la lotta per la casa non ha mai cessato di essere una componente fondamentale della lotta proletaria, come testimoniano le numerose occupazioni in corso oggi, dal Giambellino alla Barona a Via Padova, che hanno come protagonista principale il nuovo proletariato immigrato.

Per ritornare all’oggi possiamo dire che la lotta nella logistica è già una lotta territoriale, che si svolge nei cosiddetti “hub” della logistica, nelle immense distese di capannoni e magazzini alla periferia dei grandi centri abitati, quindi lontane dalle zone centrali gentrificate. Sono caratterizzate dalla riscoperta di forme di lotta territoriali, già proprie del vecchio movimento operaio, dai picchetti ai blocchi stradali. In una situazione di “globalizzazione” della produzione bloccare la circolazione delle merci che viaggiano lungo le filiere produttive mondializzate crea un grosso danno ai capitalisti, ciò che costituisce, d’altra parte, un punto di forza degli operai della logistica. Infatti i momenti migliori di queste lotte si sono verificati quando sono riuscite, a partire dalle lotte locali contro le cooperative mafiose e i subappalti, a risalire la filiera produttiva e distributiva delle merci, per arrivare a coinvolgere le grandi multinazionali della produzione e della distribuzione, dalla Bennet all’Ikea, da Leroy Merlin ad Esselunga ad Amazon, coinvolgendo nella lotta lavoratori dipendenti o precari di queste multinazionali, dai facchini ai riders ecc.

  1. il rapporto operai-studenti. Già alla fine degli anni 60 la scuola stava cambiando.

Nuovi strati sociali affluivano nelle scuole superiori e nell’università, inaugurando l’epoca della cosiddetta scolarizzazione di massa. La selezione falsamente meritocratica, che era in realtà una selezione di classe, non appariva più giustificata di fronte al destino, comune alla maggioranza, di un lavoro salariato. La scuola e l’università si stavano trasformando in contenitori di studenti proletarizzati, si potrebbe forse dire di forza lavoro proletarizzata. Alcuni autori sostengono che l’intellettuale – massa proletarizzato non abbia trovato nulla di meglio da fare, per riqualificarsi, che autoproclamarsi dirigente e guida ideologico – politica della classe operaia, pur sapendo che quel posto era già da lungo tempo occupato dalla sinistra ufficiale. A questo proposito mi sembra che non sia il caso di lasciarsi andare a facili generalizzazioni. Se questa può essere stata la motivazione di una parte dei militanti dei gruppi, segnatamente di quelli attestatisi su posizioni di direzione e che poi del resto hanno continuato nelle loro scalata come politici di professione, professionisti dei media o altro ancora, mi pare che per la stragrande maggioranza dei partecipanti al movimento studentesco la famosa parola d’ordine dell’ “alleanza operai – studenti” poggiasse su più solide basi strutturali, e cioè su un reale riavvicinamento delle rispettive condizioni di vita e di lavoro. In altri casi si può parlare addirittura di una “attrazione fatale” esercitata dalla condizione e dalla comunità operaia sullo studente dequalificato, anche se su questa attrazione pesava comunque una forte componente di ideologizzazione.

Nel rapporto giornaliero ai cancelli della fabbrica non sempre tutto questo era chiaro per tutti gli operai. Non sono mancati i momenti di reciproca strumentalizzazione. Molti operai vedevano nella presenza degli studenti un rafforzamento, certo importante, o uno stimolo per le lotte di fabbrica, mentre da parte di alcuni studenti, segnatamente quelli militanti dei gruppi extraparlamentari, si ricercava una posizione di guida nelle lotte operaie. Tuttavia l’unità operai-studenti, nei suoi esiti migliori è stata fondamentale per il formarsi e il rafforzarsi nelle fabbriche delle organizzazioni operaie autonome rispetto ai sindacati e ai partiti parlamentari, come il Comitato Unitario di Base (CUB) della Pirelli o L’Assemblea autonoma dell’Alfa Romeo. Questo prima che i sindacati confederali, che erano stati scavalcati dalle lotte autonome degli operai, riuscissero a recuperare in parte le spinte autonome con l’istituzione dei consigli dei delegati che presero il posto delle vecchie commissioni interne.

Per concludere la generalizzazione delle lotte e l’affermarsi del contropotere operaio nelle grandi fabbriche ha portato in quegli anni a un considerevole cambiamento dei rapporti di forza fra capitale e lavoro. L’affermazione della centralità operaia, nei termini sia numerici che sociali e nel suo rapporto con il territorio e con il resto della società, ha raggiunto un tale livello di forza da giustificare parole d’ordine quali “la classe operaia deve dirigere tutto” e “potere operaio”. Un potere che esercitava anche una forte attrazione nei confronti di altri strati sociali, come i tecnici, o in altri settori come la medicina, la scuola o, addirittura nella magistratura.

Ma successivamente, all’apparire della crisi capitalistica, della ristrutturazione, del decentramento produttivo, della deindustrializzazione, quello che sembrava un punto di forza della lotta operaia si trasforma improvvisamente in un suo limite. Quando, dall’interno stesso della classe, dagli strati di proletariato giovanile, esplode il rifiuto del lavoro, l’operaio massa stesso si trova spiazzato. La spaccatura è inevitabile. Chi non ricorda il caso dei nuovi assunti alla Fiat nel 78-79? Contrariamente all’operaio professionale, protagonista del precedente ciclo di lotta dell’inizio del Novecento, l’operaio massa non ha un suo progetto di autogestione della produzione e di organizzazione sociale alternativo a quello capitalistico. Di fronte alla crisi non ha alternative : o riaffermare la centralità della fabbrica, in una strenua difesa della sua centralità come soggetto sociale antagonista o scomparire come tale. La difesa a oltranza della centralità della fabbrica, allora definita come fabbrichismo, si dimostra alla fine perdente, così come la difesa del posto di lavoro di fronte alla chiusura delle grandi fabbriche. Va comunque detto, a questo punto, che la questione del proletariato industriale, delle sue lotte, della sua composizione sia numerica che sociale, deve essere riconsiderata oggi a livello mondiale, ivi compresi i paesi di nuova industrializzazione, mentre una visione ristretta al solo mondo capitalistico occidentale può risultare alla fine fuorviante.

Alla luce di queste considerazioni non sembra corretto parlare di “sconfitta” del movimento operaio. Il periodo dell’autunno caldo, o, più in generale il movimento che va dal 68 al 77, da questo punto di vista può essere considerato un periodo di passaggio dal vecchio movimento operaio storico, durato circa un secolo, dalla costituzione della seconda internazionale alla caduta del muro di Berlino, a un nuovo movimento operaio internazionale che vede agire altri soggetti e le cui potenzialità sono ancora tutte da scoprire.

Visconte Grisi

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